« indietro GIOVANNI PASCOLI, La piccozza, a cura di Raffaella Castagnola Rossini, prefazione di Giuseppe Nava, Verbania, Tararà edizioni 2004, pp. 72, € 11,00.
Spogli d’ogni più grave fardello, toccar la vetta mai prima raggiunta, rinunciando all’«aita» di «buon orazïon» che tanto ne soccorre a quotidiane ascese (figurarsi un viaggio irremeabile, irto di «triboli», privato di conforto femminino, sprezzando il plauso delle masse): questi i motivi che danno celere ritmo ai decasillabi sdruccioli di una delle odi più giustamente criticate da tanti pascolisti. Non entrando nel merito del discutibile valore poetico della lirica proemiale di Odi e inni, Raffaella Castagnola sceglie piuttosto di fare aggallare le carsiche sorgenti che alimentano il topos, comune tanto al metaforico immaginario biblico-cristiano (è la linea che dalla mosaica salita al Sinai di Ex. 34, 4 conduce alla dantesca ascesa purgatoriale e alla più intima scalata del Monte Ventoso compiuta, ovvero fantasticata, dal pellegrino Franciscus), quanto alla più essenziale simbologia della gnome esiodea. Il pregio maggiore della lettura è costituito dall’intelligente analisi condotta sul rapporto Pascoli-d’Annunzio, non liquidabile quale umana relazione ora consolidata da lodi reciproche, ora interrotta da stizze e bassi alterchi. Additati i comuni bacini di lettura – il Baedeker dell’artista del tempo, La beata riva di Angelo Conti, che si proponeva di condurre l’adepto per un cammino iniziatico alla conquista della «pace» interiore, o un forgiatore di miti novelli come il Carlyle degli Eroi –, Raffaella Castagnola si concentra su un testo che riveste un’innegabile funzione metapoetica all’interno di Alcyone: Il commiato. Esclusivo dialogo tenuto non col «vicino» Trigo, un Pascoli ormai stanziatosi sul colle di Caprona, ma specificamente con l’immaginifico rocciatore della Piccozza, colui che, mirando dal suo studiolo le bianche cime della Pania, aveva cantato per sé un destino di solitario martirio, quasi annichilimento nei termini di un linguaggio della mistica – giacché se di dura scalata si tratta è comunque un salire «dove ascendendo il pensier nostro annega» –, Il commiato diviene per d’Annunzio «mezzo» di celebrazione del differente «fine» della propria impresa titanica, condotta «su per l’opposta balza», non con sete di dissoluzione, ma con l’intento di confermarsi in tutto il proprio superomismo, bramando gloria e universal consenso. Sotto questa luce, osserva sempre Raffaella Castagnola, si spiega anche il fitto intreccio tra gli echi provenienti dall’ode pascoliana e le più velate autocitazioni, che contraddistingue il capitolo della Contemplazione della morte dedicato appunto al sodale scomparso, a ribadire le «grandi», ma pur diverse «aspirazioni» che mossero i due poeti. In ultimo piace ricordare la ricca serie di liriche novecentesche – dall’Ascesa di Corazzini alla Via del rifugio di Gozzano, dai Camminamenti o dal Curriculum vitae di Rebora al Petit montagnard di Luzi, dalla Falsa pista o Conclusione quasi al limite della salita di Caproni agli zanzottiani «Compagni corsi avanti», fino a un testo poetico di Gilberto Isella, A un alpinista ansioso –, individuate e chiamate da Raffaella Castagnola a dimostrare la fortuna di questo antico topos, per certo, nell’«alga vermiglia» di Giovanni Pascoli, rinsanguatosi.
Francesca Latini ¬ top of page |
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