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ARMANDO GNISCI, Via della Decolonizzazione europea, Roma, Cosmo Iannone Editore 2004.

Nella premessa del libro di armando Gnisci (come ama sia scritto il suo nome, omaggio a bell hooks e all’elogio dei margini) si legge: «La decolonizzazione non è un sinonimo più o meno equipollente di postcolonialismo. Per decolonizzare intendo, invece, la lotta per liberarsi dal dominio coloniale del capitalismo globalizzato, in qualsiasi parte del mondo» (p. 11). Il testo di Gnisci infatti si offre come un breviario che porti a una «forma nuova e incipiente di educazione a partire dall’urto» (p. 12) e sull’urto come forma che ingenera pulviscoli cognitivi si muove tutta la forza argomentativa del comparatista. I piani dell’enunciazione procedono per accumulazione contraddicendo proprio il ‘canone occidentale’ dei vari Bloom, e Gnisci non cede alcun che all’orizzonte di attesa del destinatario, provocandolo e stimolandolo con continui sommovimenti culturali. A pagina 15 si legge: «Siamo diventati in modo esemplare ed eminente il ‘popolo preservativo’, il meno evolutivo del mondo: il braccio secco dell’ominazione» dettato da «una sovraidentità minervina fortemente concentrata su di sé e capace di autofecondarsi» (p. 19) che depreda uccide e avvilisce. L’Europa dunque (e gli USA come il ‘braccio armato della stessa’) viene considerata il vero Mostro della storia, colei che si è celebrata come «l’avanguardia evolutiva della specie» (p. 29) ma che ha generato Hitler e Hiroshima, di fronte alla «scuola degli africani: scuola del sapere e della cura, del ben vivere e dell’amore, della danza e del colloquio che canta» (p. 41). Se Said aveva descritto l’orientalismo e l’Oriente «essenzialmente un’idea» (cfr. E. Said, Orientalismo, Milano, Feltrinelli 1999, p. 15) la lezione si rovescia anche sull’idealismo eidetico con il quale si legge l’altro (ha ragione Gnisci a ritenere abusato il termine, ma ha il pregio dell’economicità in un genere come la recensione).Il ribaltamento del dittico buono-cattivo induce (ma se se ne capisce l’eziologia formale e sentimentale – la necessità insomma di un reagente forte di fronte al sonnambulismo intellettuale) a ritenere il discorso di Gnisci portatore di una dicotomia a rovescio. Il bon sauvage settecentesco (proprio ad esempio del razzismo storico di Defoe o del locus amoenus come ne il primo Leopardi delle ‘californie selve’ ne L’Inno ai Patriarchi) diventa il bon sage, l’altro che è portatore di valori, di saggezza, dell’Isola Non Trovata. Di qui il sostenere che «la creolizzazione è la méta dei nostri migliori desideri italiani ed europei» (p. 60), intendendo la stessa come «un valore, una poetica, un metodo e un traguardo, un risultato» (ibidem). Potremmo dire forse che la ‘creolizzazione’ deve prevedere anche l’orizzontalità per fruttificare: il ‘capirsi e sentirsi uguali’ (per dirla con Bettetini) induce a non ipostatizzare l’altro, ma a vederlo in un ritratto in piedi, con i suoi (nostri) inevitabili limiti. Un’ermeneutica multidialogica potrebbe partire anche da qui: da ordini del discorso trasversali e autoconsapevoli, per non imbalsamare l’altro nel ruolo di un Novello Salvatore, per non imbattersi nei rischi di una ipercorrezione antioccidentale e per attraversare davvero insieme quei «luoghi comuni dove si inventano e si possono fruire i futuri del passato» (p. 97).

Eleonora Pinzuti

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