« indietro Marco Munaro (a cura di), La bella scola. L’inferno letto dai poeti, voll. 3, Rovigo, Il Ponte del Sale, 2003- 2004, vol. I, pp. 80; vol. II, pp. 144; vol. III, pp. 160; s. i. p.
Dobbiamo a un editore coraggioso come il poeta Marco Munaro i tre volumetti de La Bella Scola, che contengono i commenti a trenta canti dell’Inferno di altrettanti poeti contemporanei. Ogni autore, introdotto da una breve scheda critica dello stesso Munaro e da una lirica che ne riflette tematiche e stile, ha svolto il proprio compito senza indossare le vesti dello specialista, ma proponendo una lettura antiscolastica e coinvolgente del canto che gli è stato assegnato, quasi una ideale prosecuzione della Conversazione su Dante di Mandel’tam, il cui nome è come una luce che si accende più di una volta in quest’Inferno. Per alcuni poeti si è trattato di affrontare non una lettura, ma un’autentica discesa agli inferi del nostro tempo e in qualche caso, della loro vita. I nomi sono quelli di Maretti, Merini, Caniato, Anedda, Farabbi, Bressan, Villalta, per i primi sette canti (volume primo); Priano, Gualtieri, Brugnaro, Di Palmo, Molinari, Damiani, Giacomini, Buffoni, D’Elia, Zuccato per i canti VIII- XVII (volume secondo); Turolo, Donati, Lo Russo, Loi, Fiori, Rondoni, Held, Trinci, Cappi, Valesio, Cappello, Lolli, Sanguineti per i canti XVIII-XXX (volume terzo). Le motivazioni di questa iniziativa non sono state esclusivamente letterarie, perché, scrive Munaro, «la Bella Scola è un tentativo di integrazione fra le arti e di condivisione di un’inedita esperienza didattica, nella quale entrano in dialogo con la poesia e il commento critico, il teatro, la musica e l’arte figurativa [...]. Il teatro, nel suo proprio linguaggio, reinventa la poesia dantesca e quella dei poeti contemporanei con innesti che suscitano meraviglia per una loro incredibile naturalezza» (vol. II, p. 5). Tant’è vero che Sanguineti suggella il suo commento al canto XXX con «l’idea di un Dante, diciamolo in forma epigrammaticamente estrema, come nostro primo e supremo scrittore teatrale». Alla riscrittura drammaturgica si accompagna poi quella musicale: tredici compositori italiani, invitati dal Conservatorio «F. Venezze» di Rovigo, hanno scritto ciascuno un testo su altrettanti canti dell’Inferno (XVIII-XXX). Poesia, teatro e musica, dunque, ma anche poesia, disegno, pittura, grazie al coinvolgimento degli studenti delle Medie Superiori, liberi finalmente di offrirci con la matita, il pennello e i colori, una loro idea di Dante. Ne è nata una tessitura composita che costituisce la nota più originale dell’esperimento. Non è possibile restituire in poche righe le idee, le proposte disseminate nei commenti proposti. Ma una lettura integrale dei tre volumetti consentirebbe di fare scoperte interessanti e di verificare con quanta sensibilità Munaro abbia affidato ogni canto al commentatore adatto. Anna Maria Farabbi nel V canto si sofferma sulla pietà del personaggio/poeta per il dramma delle anime sbattute dalla tempesta. Dante «piomba in terra estenuato preso turbato. Denso. Ma da qui, dopo, muoverà un piede, e dopo un piede, l’altro. Avrà imparato. Portando tutta la sua serissima meraviglia nella scrittura al mondo. A chi, a sua volta camminando, impara umilmente e in/segna (in/segna segna dentro), umilmente offre la propria vita». Gian Mario Villalta rileva, nel VII canto, una singolare corrispondenza tra il linguaggio del poeta fiorentino («un viaggio nel viaggio») e le innumerevoli forme di espressione del Novecento, un secolo «che ha trovato in Dante un intero paradigma di esperienze». Edoardo Zuccato, nella sua analisi del XVII canto, muove dal richiamo alla lettura che ne ha fatto Pound, «perno dell’interpretazione poetica di Dante forse più influente di tutto il Novecento», per soffermarsi sul corpo di Gerione, che «appare a Dante come un tessuto... Il corpo della frode è dunque pura apparenza piacevole, colorata, attraente». Zuccato si sofferma poi sulla passione di Mandel’tam per il volo di Gerione, forse perché «scrivendo nell’Unione Sovietica di Stalin sapeva bene che cos’era il volo ingannevole della frode, la vertigine delle promesse di palingenesi, il cui esito fu – letteralmente – l’inferno del gulag». Colpisce, infine, il taglio dato da Pierluigi Cappello alla sua lettura del XXVIII canto, dei «corpi rotti» della IX bolgia, di Bertran de Born, che spiega le ragioni per cui «partito porto il mio cerebro, lasso!, / dal suo principio ch’è in questo troncone». La disumanizzazione dei dannati suggerisce l’accostamento di quell’inferno agli inferni del XX secolo; ancora una volta una rivisitazione nel segno della contemporaneità di uno degli spettacoli più atroci della prima cantica. Come atroci erano le immagini che si offrirono agli occhi dei liberatori sovietici, «quattro cavalieri dell’armata rossa», in quel mezzogiorno del 27 gennaio 1945 in cui entrarono nel lager di Auschwitz senza comprendere. Ma «quando i cavalieri capiscono è come se tutto il silenzio dell’Europa crollasse dentro quel silenzio, perché se c’è un punto di non ritorno nel dolore è quando il silenzio produce silenzio, nient’altro che silenzio».
Anna De Simone
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