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PAROLA PLURALE
di Pierluigi Pellini
Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli. A cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena. Roma, Luca Sossella editore, 2005.
Sessantaquattro poeti, otto curatori, quasi milleduecento pagine: in un unico volume. La veste grafica curatissima, al tempo stesso sobria e originale, sottrae peso al parallelepipedo; una buona rilegatura gli assicura un’inaspettata maneggevolezza; e poi, il prezzo stracciato: venti euro. Non c’è da stupirsi se Parola plurale, in libreria nel settembre 2005, è andata esaurita in poche settimane. Sia dunque lode al coraggio dell’editore, Luca Sossella: sennonché il volume, da allora, attende una ristampa, che inspiegabilmente tarda.
Un’antologia, si sa, è museo: galleria di valori certi, classici. O vetrina militante: raccolta di testi ispirati a una poetica, di norma sperimentale. In alcuni casi, entrambe le cose: tentativo di canonizzare una nuova avanguardia ricostruendo ad hoc, o magari inventando, i crismi di una tradizione – così la silloge ormai storica di Edoardo Sanguineti, per Einaudi. Principale punto di riferimento di Parola plurale è invece il Meridiano di Pier Vincenzo Mengaldo, che non solo rifiuta la costruzione a tesi delle raccolte militanti; rinuncia soprattutto alla linearità del racconto storicista, concentrando l’attenzione sulle individualità esemplari degli autori. Scelta discutibile (e discussa), ma motivata, se non altro, da condivisibile prudenza. A maggior ragione oggi, di fronte alla pulviscolare proliferazione di scritture in versi che è carattere precipuo degli ultimi decenni: segnati, ormai è un’ovvietà, dall’esaurimento delle contrapposizioni forti di poetica (avanguardie vs. tradizione); dalla moltiplicazione di esperienze centrifughe, nonché di riviste dall’incerto prestigio e di antologie troppo spesso effimere; e più in generale dalla drastica marginalizzazione delle raccolte poetiche nel panorama dell’editoria.
Lo dico una volta per tutte: a quasi trent’anni dalla pubblicazione dei Poeti italiani del Novecento, finalmente l’impresa di Mengaldo trova un seguito degno – sia pure, com’è giusto, infedele. Degno, innanzitutto, per eleganza della scrittura e filologica serietà: esemplare è la tenuta stilistica dei cappelli introduttivi, in cui si sentono inevitabilmente le diverse mani, ma soprattutto una comune tensione euristica e un’autentica riflessione collettiva; impeccabili le schede bio-bibliografiche (e anche, come usa ormai dire, webliografiche), esaustive di fatto: c’è tutto quel che davvero importa, e a lungo resteranno lo strumento principe per chiunque studi poesia di fine/inizio millennio.
Opera degna del modello mengaldiano, soprattutto, per sicurezza di giudizio: otto curatori, giovani ma tutti indiscutibilmente autorevoli, non erano troppi, per tracciare la mappa di una produzione quantitativamente incontrollabile, assiologicamente refrattaria a criteri condivisi, e in parte sommersa. Dettaglio non trascurabile: degli otto, nessuno ha pregressi poetici in proprio – al contrario di quasi tutti i concorrenti. Nulla, ovviamente, contro la critica dei poeti, spesso illuminante; e tuttavia sospetta, in un esercizio periglioso come quello antologico, di perorare pro domo sua.
Sudato, e rivendicato, lavoro di gruppo, quello di Parola plurale: per non percorrere la facile scorciatoia che porta a includere solo autori consacrati dalla grande editoria – come fanno Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi nel loro Meridiano. E per cedere il minimo a quel soggettivismo idiosincratico (cioè ideologico), che domina incontrastato in troppe sillogi recenti. Come quella firmata Daniele Piccini per Rizzoli nel 2005 (l’anno delle antologie, decisamente) e il farraginoso florilegio garzantiano curato qualche tempo fa a quattro mani da Davide Rondoni e Franco Loi.
Nell’antologia Sossella manca anche, ed è più rilevante, un’introduzione generale. Trattandosi di stretta contemporaneità, e perciò di autori in parte assai poco noti, forse un compendio storico (e geografico) in apertura – inventario ragionato almeno, se non racconto critico – avrebbe reso un buon servizio al lettore. La premessa, breve e densa (1975-2005. Odissea di forme), dialoga con i precedenti modelli antologici, dà ragione delle limitazioni di campo (autori nati dopo il 1945), argomenta i caratteri di una svolta collocata nei primi anni Settanta. Non può certo tracciare in venti pagine la storia poetica degli ultimi tre decenni. Alla prospettiva storicista se ne sostituisce perciò una fenomenologica, dispiegata negli otto saggi – a due a due in testa alle quattro sezioni di cui si compone il volume – in cui i curatori sondano ciascuno un aspetto tematico e/o formale decisivo: il corpo (Cortellessa), il quotidiano (Zublena), il tragico (Baldacci), gli stili semplici (Scarpa), il comico (Manganelli), le nuove avanguardie (Bello Minciacchi), il post-dialetto (Zinelli) e i modelli mediali (Alfano). Il discorso è trasversale, per campioni; non sempre vale da puntuale introduzione agli autori antologizzati nelle pagine successive: in (voluta?) labirintica moltiplicazione d’echi.
Alle quattro sezioni è affidato il compito di temperare la scelta mengaldiana a favore delle singole individualità, recuperando una peraltro assai flessibile esigenza di raggruppamento. Su base prevalentemente cronologica ai due estremi del libro: esperienze radicate negli anni Settanta nella prima sezione, Deriva di effetti (ma tutto il volume sembra pagare a quel decennio, e ai suoi principali testimoni, uno scotto forse eccessivo); esperienze tenute a battesimo negli anni più recenti nella sezione ultima, Apertura plurale (dove però trovano posto anche i dialettali: e Franca Grisoni è del ’45). Al centro del volume, l’opzione per il raggruppamento è argomentata invece con ragioni formali e di poetica: la seconda sezione, Ritorno alle forme, documenta la paradossale adibizione postmoderna di moduli chiusi, che ha segnato molti autori esordienti negli anni Ottanta (Patrizia Valduga e Gabriele Frasca in primis); la terza, Rimessa in moto, è dichiaratamente la più sospetta di tendenza, accogliendo con curiosità (troppo) generosa i protagonisti delle ultime neo-neo-avanguardie, da «Baldus» ai genovesi.
Di molti autori, Parola plurale consente a un pubblico largo una prima lettura, sottratta al circuito raffinato ma troppo spesso amatoriale delle case editrici di nicchia. Anche a questo serve un’antologia oggi. Anche per questo sessantaquattro poeti – che sono uno sproposito, diciamolo, in base a criteri estetici – non sono troppi per una ricognizione seria, che esibisce a buon diritto l’ambizione di fare testo. A discutere, poi, a una a una, inclusioni e esclusioni, non basterebbero, qui, spazio e competenze: senza tema di ridicolo, invocherei un plotone di almeno otto recensori. In merito al canone, dunque, pochi assaggi: e inevitabilmente soggettivi.
Rare le esclusioni degne davvero di rimpianto. Forse Roberto Mussapi, per orfica par condicio con Giuseppe Conte. Il quale, peraltro, è incluso a denti stretti: per lui l’unico cappello, di Cortellessa, in cui le riserve prevalgono sull’apprezzamento. Qui un inciso: ovvia ma sbagliata la scelta di affidare, di norma, i singoli autori al critico, nel gruppo, più affine, cosicché in certe presentazioni l’empatia eccede, la distanza critica si assottiglia. Rimpianto, poi, per Antonio Riccardi: il cui primo libro, Il profitto domestico, continua a sembrarmi notevole (più del secondo, volontaristicamente costruito: lo dico controcorrente); e che è vittima, credo, più ancora che beneficiario, di un conflitto d’interessi che poco ha fatto per disinnescare – pubblicato agli esordi dall’editore di cui è alto dirigente, ancora di recente è due volte recensito (come poeta e come antologizzatore) nel redivivo Almanacco dello Specchio, di cui è lui-même curatore (con Cucchi), sempre per Mondadori. Per pochi altri, il rimpianto. Forse qualche giovanissimo (Gabriel Del Sarto?). Perfetto l’equilibrio nella scelta dei dialettali: ampia ma non, come troppo spesso, ridondante. Giusto il rilievo concesso a Edoardo Zuccato; necessarie le puntualizzazioni di Zinelli sul ‘post-dialetto’ nell’epoca della mondializzazione. Da escludere, probabilmente, alcuni ripescati dai Settanta (un nome: Paolo Prestigiacomo); certo da sfoltire i ranghi sperimentali della terza sezione (almeno Lorenzo Durante). Mentre è sorpresa positiva, fra le inclusioni inattese, quella di Dario Villa. Perdurando la minorità, in Italia, del poème en prose, poche terse prose giustificano, mi pare, la presenza di un altro personaggio (in senso forte) che troppo presto ha taciuto, Pietro Tripodo.
Più delicati, e interessanti, gli equilibri interni: se è vero che in un’antologia pagine e righe contano. E certo ingenerosamente risicato è lo spazio che Parola plurale riserva a Mario Benedetti; eccessivi invece, per dirne due, gli omaggi tributati all’ottimo linguista e critico Enrico Testa (da Zublena: e sia pure con penna simpatetica e raffinata) e a Vito M. Bonito (ancora da Zublena; che firma però anche il magistrale cappello a Stefano Dal Bianco, il quale i riconoscimenti li merita tutti). Su altro fronte, in tanto scialo di scritture di ricerca, sorprende il rilievo avaro per Rosaria Lo Russo. Et de hoc satis.
Si diceva dell’eleganza stilistica: a tratti survoltata, dimodo che i cappelli introduttivi creano attese destinate a andar deluse; e diciamolo pure: sono più belli delle poesie. Merito di Parola plurale è però proprio quello di dar voce ai testi: almeno una decina per autore, spesso varie decine. L’opposto avviene nell’altra antologia di pregio uscita nel 2005: Dopo la lirica dell’appena ricordato Testa, dove cappelli limpidi e densi invitano in certi casi – per assurda scelta, suppongo, dell’editore: Einaudi – alla miseria di due o tre liriche. Nel volumone Sossella, invece, migliaia di versi attendono il pubblico volenteroso.
Per quanto desueto possa apparire un approccio estetico – meglio dire, magari, una sensibilità al plaisir du texte; per quanto discorrere di talenti poetici suoni antidiluviano, sembra lecito, per il lettore di un florilegio, il desiderio di imbattersi in poesie belle. Ampiezza cronologica (dal 1960) e parsimonia quantitativa fanno sì che Dopo la lirica abbia gioco più facile a soddisfare le attese. In Parola plurale – e qui prendo a mia volta il rischio dell’assoluto soggettivismo – fra i poeti antologizzati il ‘dono’ lo possiede con incontrovertibile evidenza e felice continuità il solo Milo De Angelis: lo dico di qua da (contro, semmai) ogni partito preso di poetica o critica. Quasi sempre ce l’ha anche Valerio Magrelli, con il vantaggio secco – per ipertrofica e ironica autocoscienza – di non correre mai quel «rischio di fiducia in una parola risolutiva, effata come fosse in diretto contatto con l’essere», che a ragione Zublena denuncia in De Angelis. Poi, molti altri scrivono testi riusciti, certo: ma a intermittenze.
Non sono peraltro affatto certo che il consensus omnium sia nel giusto quando prescrive, per le antologie non scolastiche, presentazioni critiche degli autori e non delle singole poesie; e assenza di note. Perché compito primo del critico è fare i conti con la lettera del testo: più sfuggente e bisognosa di glosse nell’oggi (non il contrario!). Perché solo un’approfondita explication de textes può saggiare – di là da scelte impressionistiche o ideologiche – la tenuta di una lirica. Un’antologia vasta come Poesia plurale, e integralmente commentata: utopia o servizio necessario alla poesia contemporanea? Di certo, la coazione al corpo a corpo testuale avrebbe propiziato qualche forma di ecologia estetica; mentre colpisce che in vari casi perfino dai cappelli siano evacuati i tradizionali (e doverosi) prelievi testuali: versi e sintagmi chiamati alla memorabilità. Questo è il punto: quanti ce n’è in Parola plurale?
Di un’altra distorsione ottica, che discende dall’impianto generazionale, sono ben consapevoli i curatori: un Magrelli o un Dal Bianco sono, per segmenti non marginali del loro percorso, contemporanei di Fortini e Caproni. Non si scrive la storia della poesia di fine millennio con i soli nati dopo il ’45; ma nemmeno restringendo il fuoco sui padri, come usa. Compresenza delle generazioni, utilità degli annali: bisogna dare atto ai cappelli introduttivi di un sia pur rapsodico recupero di contiguità/continuità storiche. Non per forza in cerca di maestri, anche se la domanda sulle genealogie della poesia che oggi siscrive ha la sua legittimità. E sarà anche ovvio, ma mi par degno di nota: gli antologizzati non dialogano con Montale. Il massimo poeta del Novecento italiano – «sopravvalutatissimo» per i curatori quello di Satura; «odiatissimo» tutto da Valduga e altri – non è più, come è stato per i decenni centrali del suo secolo, il punto di riferimento ineludibile, il catalizzatore quasi automatico di ogni angoscia dell’influenza. Soprattutto, sembra interrotta quella linea di «classicismo paradossale», e quella dialettica di oggetto povero e soprassalto lirico, riconducibile, pur con molte varianti, a un’origine eliotiana; e vitale, anzi vincente, almeno fino agli Strumenti umani. Si constata invece con qualche sorpresa che il nome/nume tutelare che più spesso ricorre in Parola plurale è quello di Paul Celan. È evocato Eliot, e non so quanto a proposito, per Durante e pochi altri; di Sereni sembra più attiva la lezione ultima di Stella variabile: e sempre in ambito ristretto, fra koiné lombarda (Fabio Pusterla) e smaccato epigonismo (Ferruccio Benzoni).
Certo, oltre a quelle dei poeti, avranno avuto un peso anche le predilezioni dei curatori; e poi si sa che linee e funzioni sono oggi sempre più numerose, se quasi ogni autore prova a inventarsi una tradizione: e perciò friabili; e possono del resto presentare punti d’intersezione molteplici. Cortellessa insiste su una ‘funzione Beckett’, certo ritagliata su misura per Frasca, ma decisiva anche per Giuliano Mesa e forse altri; Zinelli su una ‘funzione Heaney’, illuminante per Zuccato e, a tratti, per Franco Buffoni, ma probabilmente più pervasiva di quanto abbiano fin qui accertato verifiche testuali sporadiche. Altri esempi sarebbero possibili. Eppure, una tanto diffusa e sia pure tutta implicita emulazione del verticalissimo Celan, inarrivabile concrezione di lirico e tragico, esorbita dai più collaudati percorsi della poesia italiana. Solo in apparenza può stupire che a rivendicarla di fatto siano i curatori di un’antologia piuttosto incline alla poesia di ricerca e non sospetta di simpatie per le impennate di una parola orfica: in realtà, gli opposti assoluti della deflagrazione trasgressiva e dell’incandescenza verbale, dell’oltranza sperimentale e del sublime, condividono se non altro, in negativo, lo stravolgimento di ogni misura tradizionale, e l’irrisione per la (borghese?) compostezza, che ispirava eticamente l’appello alla «decenza quotidiana».
E mi pare un nodo problematico: al cuore dell’impianto di Parola plurale. Di etica discorrono a più riprese curatori e autori; più raramente di politica. Ma sotto altra egida letteraria e filosofica. A cominciare dal titolo: infelice per consistenza fonica (quasi uno scioglilingua) e vaga assonanza con recenti sigle politiche d’Oltralpe, colpisce soprattutto per l’esibita origine blanchotiana. Qualcuno ha osservato, con malizioso sconcerto, come nei pletorici convegni dedicati pochi anni fa, in Francia e in America, al centenario di Mallarmé, nessuno più citasse Blanchot; ed eccolo – auspici del ricorso, in specie, Zublena e Cortellessa – a offrire chiavi di lettura per più d’uno dei poeti nostri. E, accanto a lui, Deleuze e Nancy. A monte, ovviamente, una certa lettura di Husserl e Heidegger; eBataille, e Artaud. A latere, Derrida. Fenomenologia, esistenzialismo (ma quasi sempre dimentico di Sartre), scampoli di decostruzione. Centralità del corpo; e della riflessione sulla morte, innanzitutto nella sua materialità biologica. Non solo di Giovanna Frene è l’«ossessione necroscopica», non solo nell’immaginario di Elisa Biagini è assidua la frequentazione di una metaforica morgue. Acrobatico redimere, per metafora o allegoria, l’essenza privata di esperienze (di scrittura e lettura) che, salvo eccezioni, non si misurano con l’orizzonte della storia.

Non si tratta di invocare un’improbabile rifioritura di poesia civile: ché a dire il vero in Italia se ne scrive fin troppa, e i campioni antologizzati non entrano certo nel novero dei testi più memorabili di Parola plurale. Così i tentativi di Eugenio De Signoribus, poeta oggi quasi unanimemente sopravvalutato – ma il cappello di Alfano, fra antropologia e filosofia, è raffinatissimo. Il punto è un altro: che le forme e/o i temi della poesia rechino traccia non marginale di una riflessione sui destini generali, è lecito aspettarsi. E anche che i critici, beninteso senza parodie inquisitorie, ne chiedano conto. Il cappello che Cortellessa scrive per Biagini è eccellente: coglie le peculiarità post human dell’immaginario di una poetessa di sicuro valore, ai cui versi (concordo) si può riconoscere «una carica, inapparente quanto radicale, di politicità». Sintomatici, però, gli snodi del ragionamento critico: l’etimologia di ‘ospite’ e di ‘autopsia’; e le auctoritates addotte: ancora, Jean-Luc Nancy (mai, poniamo, Bourdieu: in tutto il volume, dico; e nemmeno Jameson; dei Francofortesi, quasi soltanto Benjamin); e soprattutto gli aggettivi che quasi ritualmente accompagnano la sfera del politico: «inapparente» e «radicale». Mi guarderei bene dal rivendicarne opposti o contrari (chessò: «esplicita quanto moderata»); ma anche dallo svuotare di fatto l’etica di ogni contenuto concretamente storico (come dire Celan senza i campi di concentramento), assumendola
nell’accezione, in certo qual modo trascendentale, di equivalente filosofico della funzione fatica del linguaggio: così, ancora Cortellessa, nel cappello a Umberto Fiori – sulla scorta del solito Nancy, che ritiene il politico «né una sostanza né una forma, ma prima di tutto un gesto: il gesto stesso dell’annodare e del legare».

Ad altra sede, semmai, una tenzone teorica. Qui solo una banalità: non avrebbe guastato, se non altro, un po’ di sociologia spicciola. Per tacere del tasso impressionante di suicidi, si dica almeno che moltissimi, fra gli antologizzati, sono i professori (in prevalenza universitari); rari invece gli accessi alla ribalta delle province lontane (con la felice eccezione marchigiana). Fenomeno d’accademia metropolitana, dunque, la nuova poesia?

I poeti antologizzati in Parola plurale sono: Cesare Viviani, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Michelangelo Coviello, Vittorio Reta, Patrizia Cavalli, Milo De Angelis, Biancamaria Frabotta, Michele Sovente, Paolo Prestigiacomo, Vivian Lamarque, Gianni D’Elia, Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Tommaso Ottonieri, Gabriele Frasca, Fancesco Scarabicchi, Ferruccio Benzoni, Mario Benedetti, Beppe Salvia, Claudio Damiani, Dario Villa, Remo Pagnanelli, Riccardo Held, Fabio Pusterla, Umberto Fiori, Eugenio De Signoribus, Franco Buffoni, Enrico Testa, Pietro Tripodo, Alessandro Fo, Giuliano Mesa, Marcello Frixione, Lorenzo Durante, Lello Voce, Mariano Bàino, Paolo Gentiluomo, Marco Berisso, Rosa Pierno, Antonio Maria Pinto, Aldo Nove, Rosaria Lo Russo, Franca Grisoni, Emilio Rentocchini, Luciano Cecchinel, Nino De Vita, Giovanni Nadiani, Gian Mario Villalta, Stefano Dal Bianco, Antonella Anedda, Paolo Febbraro, Giacomo Trinci, Vito M. Bonito, Edoardo Zuccato, Nicola Gardini, Andrea Inglese, Fabrizio Lombardo, Elisa Biagini, Giovanna Frene, Paolo Maccari, Florinda Fusco, Flavio Santi, Marco Giovenale, Massimo Sannelli.

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