« indietro GIULIA ANANIA, Nessuno bussa, Roma, Zone 2004, pp. 89, 10,00.
Fin dalle prime pagine Giulia Anania respira generosamente l’aria della sua città: stagioni cittadine, polveri, odori, architetture. La città maestosa è contigua a un paesaggio di periferia, quasi a equilibrare la bellezza e la malinconia. Roma, nella sua vitale varietà, è un amore, una fonte di ‘entusiastica’ ispirazione. Molte poesie le immaginiamo nate durante passeggiate senza meta. Poi vediamo la scrittrice, seduta, a riempire un foglio di carta, su cui dare forma all’emozione. Seduta, lo dicevamo con buoni motivi. Infatti, per quanto il vocabolario di queste poesie sia vario e talvolta sorprendente, il verbo sedere e la posizione corrispondente sono presenti più volte, riferiti magari a un soggetto del tutto inusuale: un televisore potrebbe sedersi a chiacchierare finalmente di sé oppure la luce stessa si siede. Altrove un uomo seduto da tempi immemorabili è ormai parte del paesaggio; seduta presso lo stenditoio arrugginito è l’ombra di una persona cara, o la sua assenza. Restare seduti significa non agitarsi di fronte all’ineluttabile: «Attendere / che tutta la città disordinata / si abitui all’idea di essere / affogata – noi seduti a guardare». In un caso la staticità del personaggio centrale si oppone al movimento autonomo delle immagini, come nella divertita ironia di un disegno animato: «Il pittore siede davanti alla finestra – tace / i baffi gli disegnano la bocca / a mezzaluna». Il pittore e la ‘natura morta’: con rapido guizzo i due termini di ossimoro, abituati alla contiguità, tornano a separarsi: natura e morte, decadimento necessario, brivido interno, a tutto: «Più lontano una buccia / che nasconde gelosamente / la perduta essenza di arancia / soggetto finalmente morto / e quanto basta per essere naturale [...] e io? Io sono matura / e mi coglierai / per vedermi marcire / nella cucina livida. // Natura morta – natura / qualcuno mi guarda?» In movimento o nell’immobilità i corpi parlano la loro lingua. Molta attenzione si concentra sui volti: la bocca, la guancia, le fossette, i capelli. Sono assenti (o quasi) gli occhi, come se la vista appartenesse solo allo sguardo che osserva, senza riuscire a incontrare lo sguardo dell’altro. Dal viso l’osservazione scende su ventre, pancia, petto e poi braccia, dita, pugni, infine le gambe e i piedi, ustionati dal lungo camminare. A questo sguardo corrisponde una tecnica consapevole, dato che si riferisce esplicitamente agli imperativi di quella cinematografia diretta – in cui l’artificio è ridotto al minimo – che si riconosce nella sigla Dogma: «e mi aggiro nei risvegli / con una telecamera / obbiettivo aperto a caso. / È un dogma che mi comanda». La poesia, dobbiamo a questo punto precisare, nasce non solo dall’entusiasmo, ma anche dallo smarrimento, dalla necessità di parlare, dall’incontro con l’altro. Chi ha scritto questi testi, nonostante l’età giovanissima, ha elaborato esperienze fondamentali. E tuttavia del dolore, dei lutti, è riuscita già, come un vecchio saggio cinese, a sorridere, così come dichiara dalla quarta di copertina: «Ho visto la figura sottile / e delicata delle mie angosce / aggirarsi di mattina vicino al letto / semplice, nostro. / L’ho vista [...] mettersi le mani nei capelli / non capirci più nulla. / Faceva ridere / abbiamo sorriso insieme».
Piera Mattei ¬ top of page |
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