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PIERLUIGI CAPPELLO, Dittico, Dogliani (CN), Liboà Editore 2004, pp. 59,  15,00.

Inniò (‘In nessun dove’) la prima sezione di Dittico, premio Montale Europa 2004, si apre con i versi: «Avrîl Avrîl / biele la piel la biele piel al mene / di verts trimant lusints e disperâts / davûr li’ ceis che plan trimant si sbassin» (‘Aprile, Aprile, bella la pelle la bella pelle tremando porge di verdi luminosi e disperati dietro le ciglia che piano si abbassano tremando’). La costruzione denuncia una lingua complessa, nella sua apparente semplicità, la reiterazione costruisce un gioco di rimandi, una sospensione nella casualità del sentire fanciullesco – o altissimo – che ricorda nelle sue premesse Pascoli. E si cita Pascoli anche per un altro snodo di poetica, per il fatto che la lingua di Cappello è un organismo a parte, non specificatamente dialettale, idioletto costruito sulla ricorrenza di parole significanti, di strappi che evocano un limes, al di qua del quale si alimenta il futuro di tutte le parole. C’è in questa poesia l’indicazione di un luogo e la ricerca di una parola che possa diventare assoluta. Dalla parte della ‘chiarezza’, non cerca un generico tono colloquiale, vive invece nella tensione di una lingua delle altezze e dei prati: «di frut mi poiavi sui verts distudâts di novembar / i vôi spalancâts ’tun cidin ch’al bussave par dentri» (‘Da bambino mi posavo sui verdi spenti di novembre, gli occhi spalancati su un silenzio che baciava dentro’). Il peso del sostrato esistenziale rappresenta l’origine vera del linguaggio. Quando i bambini compongono i loro primi pensieri, avvertono il peso della necessità di un ordine. Si legga ora: «Un pôc cui vôi sul fuei e il pôc ch’o ài scrit / un pôc cul timp ch’al rît come a buinore / dentri la muse dal ninin ch’al cor / un pôc ancje se il cîl cence nì niulis / nì vint, nol môf li’ jerbis dal zardin / nì frint ramaç o flôr dai miei pensîrs / un pôc parcè a stâ fers forsi doman / îr al sarà come lontane Cine / un pôc parceche prime o ài scrit / il mondo ha soltanto la faccia che ha / metinmi a ridi, un pôc forsi sintint / chel tant di plui almanco un pôc di manco / murî al sarès plui facil / mancul dificil vivi.» (‘Un po’ con gli occhi al foglio e al poco che vi ho scritto, un po’ col tempo che ride come di mattina dentro la faccia del bambino che corre, un poco anche se il cielo senza nuvole né vento non muove le erbe del giardino, né fronda ramo o fiore dei miei pensieri, un po’ perché a stare fermi domani ieri sarà come lontana Cina, un po’ perché prima ho scritto il mondo ha soltanto la faccia che ha mettendomi a ridere, un poco forse sentendo quel tanto di più almeno un po’ di meno, morire sarebbe più facile meno difficile vivere’). È difficile cogliere il centro del testo, mosso da analogie col linguaggio del bambino che, per guadagnare dignità di esistere, si organizza intorno a strutture sintattiche minime, conservando lacerti del mondo oscuro dal quale è venuto (la lingua di Cappello ha forti connotazioni espressionistiche, ma nel senso che ogni espressionismo è la ricerca di un linguaggio iniziale, del disegno impuro dei bambini). Nella seconda parte del libro, Ritornare, dove sono raccolte le poesie in italiano, si avverte una tensione diversa: c’è la nostalgia di un asse portante, l’asse del mondo. È il linguaggio che ci fa stare in piedi; fare i conti con la lingua è sentire una forma che ci faccia immaginare di vivere «quando saremo fuori», quando avremo imparato a evitare le correzioni del maestro e capito che i segni sulle pagine bianche erano un tentativo di entrare, i primi passi verso il mondo dei battezzati. La lingua di Cappello sembra sia alimentata dal non potervi entrare totalmente, e di questa mancanza si alimenta. «Che cosa c’è dentro le vostre teste, bambini? / Che cosa c’è dentro la mia?». Il linguaggio si costruisce intorno a questo punto di domanda, sull’impossibilità di cogliere un nesso tra due fasi della vita in cui qualcosa avrebbe potuto essere e non è stato, qualcosa avrebbe potuto dare senso a una corsa, un equilibrio: «come un bambino alle prime pedalate, / reggilo, eccolo, tienilo così – adesso tiene / uniti la terra e il cielo dell’estate / non sbanda più, vince, è in equilibrio, / vola via» (Assetto di volo). È una mancanza di misura che porta alla misura, un equilibrio che si ricomporne in un equilibrio almeno immaginato. La parola, dal balbettio dell’infanzia, prova a vincere lo spavento che proviamo: non è naturalismo, quanto il colore delle cose, la loro forma naturale: i bambini che siamo stati, gli uomini che saremo.

Sebastiano Aglieco

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