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LUCIANO CECCHINEL, Lungo la traccia, Torino, Einaudi 2005, pp. 76,  10,00.

«Vecchia febbre», un male antico, quello che indusse a prendere il largo gli avi del poeta, partito il nonno dall’Emilia, dal Veneto la madre della madre, da dolci campagne che conobbero la piaga dell’emigrazione non meno che l’aspra Val di Serchio, da cui altri degos epicamente cantati migrarono. Chapliniano miraggio, barbaglio-abbaglio che prometteva un’Hevilath, «ubi nascitur aurum, et aurum terrae illius optimum est», dove piuttosto trovarono a raggiare, i tanti ammassati alla «porta dell’America», l’«acciaio elettrico» di fabbriche e miniere, ormai ridotti da vagabondi a coal miners, alla cupa masnada dei troppi steel mill workers, quando non conobbero la folgore mansuefatta e indotta a dare morte a loro simili, a Sacco, a Vanzetti, a uomini giunti anch’essi dall’Italia. Nella tradizione del romancero, ci si propone di narrare le gesta della stirpe, ma pure di trovare una ragione alla propria natura poetica: «forse là era deciso / che per i morti e i vivi / io venissi a scostare il velo», missione di cui si avverte fin dall’inizio il gravame, poiché partire sì, si parte, verso le coste raggiunte un tempo dai bastimenti, on the road, lungo la 70 e la 77, le strade che incrociano l’America, i deserti come i ghiacci delle terre dei pionieri, ma non con lo slancio vitale del randagio whitmaniano. Il cammino ha l’orma incerta di chi insegua un’ombra; ai baldi enunciati che segnano l’ora e il luogo delle infinite peregrinazioni intraprese dal figlio di Manhattan – «I am a man who, sautering along without full stopping», «I am he that walks with the tender and growing night»... – sembra far umile eco la limitante autodefinizione simil-crepuscolare del proemio: «sono solo un sonnambulo forastico», prontamente rafforzata nel suo nichilistico messaggio da quanto ammesso nella lirica successiva: «sono un hobo solo», quasi il cambiare l’avverbio in attributo sostanzi lo stato di abbandono dell’hobohemien, rimasto solo hobo, hobo solo, non più che larva di un sapienziale homo. «Si quaeris miracula...», pregava fidente nel santo delle «cose perdute» il contadino, rimettendosi tutto in sant’Antonio; ma messo alla prova dai suoi devoti, non ascoltava il santo, tanto che ad allacciare quei «nodi mancati» è chiamato adesso proprio il poeta, a riunire i rami dell’antico ceppo, quasi a sfatare il lugubre grido di una civetta, che nella lengua avita, andava profetizzando che «mai pi mai pi» («nevermore» in quella della nuova generazione, come nell’ossessivo refrain di un corvo di altro poeta, americano) la famiglia si sarebbe ricomposta. Se Ildebrando Guglielmo Maldotti, Bill Maldoth, il capoccio – quanto mutato in terra d’Ohio, anche nel nome, unico fardello portato dal paese d’origine –, si erge nel ricordo come colui che per primo approdò nel mondo nuovo e da qui fece ritorno in Italia, non solo, ma con moglie e bimba «born in U.S.A.», sono due donne di questa duplicemente imparentata famiglia, da due opposte rive, a incarnare in Lungo la traccia l’inconsolabile dolore dei deracinés: la zia Antonietta, la madre Annie. Strumento per esprimere il disagio, le due lingue, la nuova, l’inglese, che per la piccola Annie, come per la Molly pascoliana di Italy, è lingua madre nostalgicamente rimpianta, il dialetto veneto, la «lingua che più non si sa», per Antonietta, che prepotente riaffiora alle labbra nelle ore della sua agonia. Ed è il Pascoli fabulatore di queste involontarie rivolte ai canoni espressivi imposti a essere preso apertamente a modello nel narrare simili vicende di emigranti, di gente contadina venuta d’oltremare che non può soffocare almeno nei momenti di più assoluto abbandono la lingua sorbita «per lungo latte» nell’infanzia. Così Antonietta, come una «vecchina dell’Alpe», si rimetteva, là in America, «in cammino / con la sua corona e la sua preghiera», «tornada tosatèla» ad instradare l’anima dispersa «incóntreghe a mama, a pupà, / a fardèi...», parlando soltanto nella sua «pore lengua», che neppure Cecchinel, poeta questa volta non in dialetto, può, anche dal canto suo, sopire del tutto. Altrettanto forte sembra essere il flusso di memorie lontane, le «voci di tenebra azzurra», il ritorno all’orecchio delle ninne cantate al bambino dalla sradicata Annie, in inglese, che adesso riprendono diritto di essere nella poesia del figlio, quali «blues», canti dell’anima più profonda d’America, non perché il poeta compia una mera operazione di mimesi, ma piuttosto perché come il veneto di Antonietta così l’inglese materno – del rondinino imitatore a cui in Merica i genitori tennero celato il loro «sì», apprendendole solo la lingua degli stanziali – è strumento di più profonda, primordiale espressività, sulle cui tracce ci si pone in cammino. Ed è infatti la genitrice che viene qui in terra straniera ad assistere il figlio, in questa sua ricerca; accorsa, un po’ smarrita, «da oceani di bruma», quasi a percorrere a ritroso la traversata che dall’America la separò bambina, ma pure il volo di altra aerea viaggiatrice, la fronte coperta dai ghiaccioli, del celebre mottetto montaliano: un riaffiorare di ricordi cari e nel contempo la venuta in soccorso, «nei cupi abbandoni del cuore», di un nume a cui si deve la propria «attitudine poetica».

Francesca Latini

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