« indietro VINCENZO DELLA MEA, Algoritmi, Faloppio (Como), LietoColle (Collana Aretusa), 2004, prefazione di Franco Buffoni, pp. 48, s.i.p.
In una delle poesie del vecchio Fortini (non delle più riuscite, ma con Fortini non buttiamo le briciole), il poeta si rivolge al computer, con una preghiera: «Inizializzami!». Sul rapporto poeta/silicio si potrebbe ormai scrivere una monografia, ciò che è speciale nel caso di Della Mea (n. 1967, vive a Udine) è che il poeta, di professione, è ricercatore esperto di tecnologie informatiche. Su queste basi ci si potrebbe aspettare una scrittura fatta realmente di algoritmi, una sintesi da «terza cultura» (cultura dei letterati e cultura degli scienziati), secondo l’indicazione di Franco Buffoni nella prefazione, o, al limite una combinatoria stretta, da laboratorio di letteratura potenziale. Il fascino del libricino risiede invece nel fatto di essere scritto ancora tutto all’interno della metafora letteraria (ricordiamo il vecchio dialogo tra la luna e il calcolatore di Volponi), mentre l’autore schivando suggestioni ready made di fronte all’ormai domestico mistero delle reti, si esalta di attica esattezza. Certo non mancano snodi metafisico-minimalisti: «per confutarli si stacca la spina», «che trasformi il baco in programma sano», con eroismi aforistici evitabili: «Eppure per sapere che non sono / mi serve proprio una dimostrazione». Ma la sostituzione capillare dell’immaginario lirico con la terminologia informatica può arrivare a bei risultati di sintesi quando si tratta di illustrare le misure interne esistenti tra tecnica poetica e tecnologia. Per esempio, come nella poesia sulla tenuta ereditaria dell’endecasillabo (almeno stando alla lettura di Buffoni) «come un vecchio programma scritto in Fortran», che è pure la stringa di base su cui funziona il calcolatore interno di Della Mea, che si colloca dunque tra quei poeti «pochi utenti fedeli via seriale». Anche quando il dato scientifico esce di laboratorio per misurare all’esterno gli eventi quotidiani e il filo allungandosi si tende (si era spezzato nell’ultra-minimalismo di Del Giudice, riparato poi nella metafora civile), è certo meno calligrafico il gesto, ma il filo resiste: «Ti vedo calcolare i metri in più / che riesci a fare con la medicina / nuova [...] Sembri un programmatore che si ostina / ad ottimizzare il ciclo più esterno / di un codice arduo e pieno di bug [...]». E poi, a giudicare da Ricordo, visita, con fitta, nel data-base della memoria, è indubbiamente un vantaggio per il poeta muoversi nel rumore di fondo delle sinapsi di numero/ parola per scrivere direttamente ma con qualche filtro il sentimento: «Acceso da un segnale attenzionale / un processo parallelo ti insegue / ruba battiti mentre sembro attento / ti compara minimizza l’errore / come sarai, adesso? ... E diventa chiaro che posso aggiungere / un campo al tuo record impolverato: / sei felice, adesso, ed io non c’entro». Si noti che la parte della prosa (titolo Nel mistero dell’interruttore) è, nell’economia generale del libro, altrettanto importante che quella dei versi. A ogni poesia corrisponde una lunga nota che con bella asciuttezza volgarizza la parte informatica del testo, e, quando si tratta di spiegare chi era l’inventore eponimo di un teorema, diventa perfino ‘vita breve’ (proprio nel senso dei raccontini di Schwob e di Pontiggia), come negli exursus su Alan Turing e Kurt Gödel. La prosa è anche il classico rovescio della medaglia: dopo la poesia come circuito tecnico, si impone con didassi garbata l’idea della tecnica come poesia. È infine nella prosa, che circola liberamente il senso di un po’ ironico distacco valido anche per i meccanismi di investimento in atto nei versi: «Questa poesia [a C.] è dedicata ad un’amica, con la quale condivido discussioni sulle fumosità che derivano dalla nostra intrinseca complicazione. Della quale peraltro non facciamo volentieri a meno».
Fabio Zinelli
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