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EUGENIO DE SIGNORIBUS, Ronda dei conversi, Milano, Garzanti 2005, pp. 140, € 17,50.
 
La parola è, qui, miserere. Nel nuovo libro di Eugenio De Signoribus, Ronda dei conversi, la parola chiave, quella che implica memoria e coscienza, patimento della storia in prima persona e spontanea condivisione di responsabilità. Con questa invocante e lucida supplica si chiude la pietas di uno dei testi centrali, September, che ha come «punto vivo lo sbandieratore / che nella torre di paglia si sbraccia / e alla sua prigione di fumo richiama / chi s’assiepa e sparpaglia, sotto e lontano...». Dopo il volo da «stella cadente» dell’uomo lanciatosi nel vuoto, in un sudario che è, in senso reale e allegorico, «una già potente bandiera» ormai in fiamme, «la parola è in chi resta / nella volgente era... / da lui a te e a me... in me / miserere». Affiora qui un altro elemento costitutivo della poesia di De Signoribus: il passaggio personale della parola, il passaggio del testimone «da lui a te e a me»: catena comunicativa da intendersi non dall’uno ai tanti, ma da soggetto a soggetto, racconto vivo e storico ad personam. Memoria da perpetuarsi di singolo in singolo, perché ogni singolo non resti una monade. La parola, passaggio e legame, è essa stessa tradizione per le sue valenze strumentali quanto semantiche. La poesia di De Signoribus non tace compartecipazione storica e politica: le immagini sono di immediatezza basilare e di esemplare rappresentatività: «per tutto il tempo dell’1 sul calendario è segnato così: / piantati più semi di piombo che alberi, soppressi più / umani di quanti liberati... / tanti, sorgenti dal fango o / dalla sabbia, annunciano la resa appena aperti gli occhi: / viaggiano da un pozzo all’altro dentro le tracolle / materne... e in quei cullamenti è premiata la loro nascita... poi, messi a terra, offrono a chi li guarda / le loro antiche pupille». Per tutti i vinti ogni nascita è una capitolazione incondizionata, con l’eccezione, unica e forse ancor più dolorosa, di primarie cure materne presto frustrate. In questi versi in cui tutti i visi degli oppressi, come del resto le loro pupille, sono e resteranno «antichi», il tempo e la cronaca riescono a farsi assoluti senza perdere la contingenza. E il tono si fa compostamente tragico quando le singole, particolari sofferenze sono colte in un disegno vasto in cui un ostile e infernale battesimo di fuoco accomuna popolazioni diverse: stride la letteralità, stridono insopportabilmente i rimandi figurativi in un testo come Popoli sotto il fuoco, là dove De Signoribus sigilla insieme, ossimoricamente, moto e stasi – «ogni corsa inerte» – fine da mattanza e principio (o possibile nuova, albale accoglienza) – «correnti da un macello a un asilo». Ogni salvezza è negata, anche a chi non soccombe immediatamente: «e non tornano i conti, le identità, / tra i morti scontorti e i sopravviventi / anch’essi dissolti». Il furto più grave è quello dell’essere e dell’identità personale e collettiva: i bambini, sotto il fuoco, dopo il fuoco, in un moto insensato «cercano un pezzo di sé / tra fine e principio» e l’animo «è ancora / senza essere più». Struttura e voce del libro si presentano complesse, stratificate. Massimo Sannelli ha osservato, nell’articolazione delle sezioni, un rimando purgatoriale: queste, tolte la Premessa-Promessa e il Congedo, sono sette e una, la terza, è intitolata Quadri della penitenza. In questo libro che congiunge nel titolo vigilanza militare e nuova quanto umilissima religiosità, indubbiamente esiste un’aspirazione forte quanto delusa all’espiazione. Espiazione impossibile, data la vastità e la pervasività del dolore: «tutto era dolore». L’oggi non è che un «unico ingorgato presente». È l’«eternopresente». La dinamica penitenziale implica anche la promessa, una terra e/o una libertà promessa come luogo, annota l’autore, non solo «geografico-religioso», ma come terra «della politica, della fraternità, della poesia». L’ultima sezione prima del Congedo, la VII, alterna a sei ‘terre’ – Terre Sante, Il nuovo Abele (che pure «alfine dell’orrore approda / alla terra che riconosce sua»), Terre basse, Terre bruciate, Terre alte, Terre di mezzo – sei Cori in una dialogicità testuale che scandisce emblematiche tappe di un viaggio storico e spirituale, una dialogicità che tocca toni sapienziali. Questo sarà dato proporre, forse: che la poesia di De Signoribus ha ancora fede nella parola. Che poi la parola possa essere «miserere», o altra parola di pathos e di dolore, questo è dato materiale emergente dalla lettera del testo che non deprime, tuttavia, quella fede. La parola ha ancora senso, e senso sapienziale. Con quanto di storico (di concretezza storica) ciò può significare. Parola e terra (santa), anzi, possono rivelare uno stringente legame, come rivelato da una spia testuale: la ricorrenza di un emblematico participio dall’arcaico smantare – ‘denudare’, ‘togliere il manto’ – in due luoghi lontani e diversi del libro: «parole smante» e «sante sono le terre / ai pellegrini smante». In primo luogo, dunque, Ronda dei conversi sembra dire che vale ancora la pena cercare con umile disposizione, e poi pronunciare, scrivere la parola. Anche, e soprattutto, per dire delusioni storiche e guasti, tragedie e traumi sia collettivi che individuali. Il portato civile della poesia di De Signoribus è principalmente in questa fede, che per l’autore deve essere, sospettabilmente, una Anànke. Ovvero la necessità e l’urgenza del dire, e del dire storico, non neutrale. Per questo De Signoribus si serve di una lingua e di forme metriche niente affatto neutrali. La compromissione, è, nel suo modo di intendere la pratica della poesia, non solo irrinunciabile, ma costitutiva, consustanziale, si direbbe, se non suonasse troppo eucaristico. Anche per questa non neutralità nel precedente libro, Memoria dal chiuso mondo, dominava una musicalità immediata e d’infantile memoria, «l’ottonario del signor Bonaventura scandito in sestine» privo, però, di «alcun fine parodico, e meno che mai sarcastico» (Paolo Zublena, Ottonari per gli inermi, «Alias», 7 settembre 2002). Ora, in Ronda dei conversi, il dettato civile appare più mediato e la musicalità fondata, spesso, su tramature foniche aspre quando non stridenti. Così nel Congedo, là dove dichiara «ora devo deviarti / lingua di nostalgia / lingua di lunga scia / ancora è un lusso amarti», nella quartina centrale si accampa un sinistro «nell’atro ventre strina / l’opera del sudario». Il Congedo, luogo oltremodo sensibile del libro, può essere condensato, in emblema, nella semplice, eloquentissima successione dei rimanti – deviarti : amarti, nostalgia : scia, anteprima : strina, sipario : sudario, sosta : sposta, attiva : passiva –, quasi tutte esemplari di una contiguità analogica o di una opposizione di contrari entrambe inquietanti, culminanti nel rapporto, di classica ascendenza, tra otium e negotium. In Ronda dei conversi il negotium è la compromissione del poeta e della sua lingua. Sintomatici di un livello linguistico di alta caratura retorica, di un rifiuto alla cedevolezza del trito privo di connotazione, sono i caratteri della sua lingua poetica: non disdegna l’anastrofe, De Signoribus – «l’esule di ceneri cosparso / dei fratelli nell’opera interrotti» –; spesso antepone l’aggettivo qualificativo al sostantivo – «una bellica soffitta», «l’inconosciuto corpo / della scritta parola», «quell’armato dio», «i planetari schermi» –; ricorre, nei sintagmi, ad accostamenti inediti che fanno un uso niente affatto ovvio della sinestesia e dei significati figurati – «pungente odore verbale di pelli malconciate»; «giacimenti corporali»; «nell’aspro terremoto / che sfaglia il dì morente»; «sfoltire l’amarezza»; «sopra la sabbia verbale». E soprattutto si serve di inusuali declinazioni aggettivali di sostantivi – «la scena filospinata ora contempla / la variante del valico» –, di univerbazioni dal notevole portato emotivo – «terramadre», «pienaluna», «mezzacroce», «eternopresente», «altrocuore», «vitamorta» –, di neoformazioni che possono avere o meno basi colloquiali o dialettali – «sbruccicoso», «vetrenga», «sgranito», «smelina», «semiselci», «ultrafede» –, di forme rare letterarie o antiche – «brumaia», «incugnarsi», il già citato «smante». Se l’impiego di parasintetici – «s’invasta», «inciurma», «ammuschia» –, impiego letterariamente attestato da Dante all’ermetismo, e l’adozione di toni non privi di sostenutezza – «lacrimate l’ora / o ferite dolorose» – possono suggerire un certo preziosismo, De Signoribus, nondimeno, fa talvolta precipitare la lingua in colloquialismi come «azzoppato» o in dialettismi come «pipinara», voce romanesca, ben nota da Pasolini in poi. E inscrive nel segno di una determinata negazione di neutralità l’accostamento sfaldato tra parole diverse per gerarchia – «i resti dei duoli, gli orli / l’età dei lenzuoli» – e soluzioni retoriche disancorate dalla loro consueta solennità – «fumanti vene spiccioli tinnanti / nella scatoletta di pastiglie» – attacco ritmicamente solenne e in chiasmo subito smorzato dal livello quotidiano del linguaggio. Del resto la voce di De Signoribus è mutevole e plurale; Ronda dei conversi è libro stratificato ed elaborato tanto nell’architettura quanto nei minuti dettagli: tratta la lingua con la medesima accoglienza – e i medesimi filtri critici – con cui tratta la storia. E la parola e i versi vengono ad essere gravati della fredda crudeltà della morte, della guerra, del male; così avviene, ad esempio, mediante l’asciuttezza inesorabile dell’asindeto che spesso falcia il dettato poetico con sequenze di privativi: «(intorno il fosco vento sterra / nel mare l’onda nera sbrulla / i duci inventano la guerra / che slampa sconcia snulla)»; «il male stecca tutti gli accenti / sballa le riconnesse rime / sgobba il vocabolo reale...». La poesia di De Signoribus non è e non è mai stata, finalmente, narcisica e ombelicale. La materia che costituisce i suoi versi non è data dal corpo del poeta, né intero, né smembrato; non è data neanche dall’io, né riconosciuto e assimilato, né estraniato e rinnegato. L’io c’è, e denudato o smanto – «ma sono qui... e la mia nudità / valga per la tragedia che è» –, nondimeno la materia è data da un esterno attraversato e fatto decantare soggettivamente, certo, ma pur sempre, e in primo luogo, un esterno storico e politico, collettivo. C’è una priorità morale, nella poesia di De Signoribus: il dolore altrui precede quello del poeta. E forse ne costituisce il nucleo più resistente e scandaloso.

Cecilia Bello Minciacchi

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