« indietro NINO DE VITA,Cùntura,Messina, Mesogea 2003, pp. 288, € 13,50.
Nel 1950, quando Nino De Vita vi nacque, a Cutusìo, una delle cento contrade di Marsala, la luce elettrica non era ancora arrivata, e nemmeno i giornali. Il paesaggio raffigurato nell’attacco proemiale del suo primo volume di versi in dialetto, Cutusìu («Timpuni assulazzatu Cutusìu: / ciari ggiannuffi, rrunzi /.../ quarchi olivu / turciutu / e ’u cardu / viola»: ‘Altura desolata Cutusìo: / sciare calcaree, rovi, / .../ qualche ulivo / contorto / e il cardo / viola’), introduce il lettore in quell’affaticato universo di vite oscure che compongono anche l’agreste mosaico di Cùntura (Racconti), il libro più recente di questo singolare cantafavole dei nostri giorni. Legato per radici e cultura al mondo di Verga e a quello di Pirandello e Sciascia, questo poeta sa staccarsi dai modelli canonici per rappresentare il suo angolo di terra secondo una prospettiva insolita, utilizzando la parlata di Cutusìo, «quasi ad esemplare l’indicazione tolstojana ‘descrivi il tuo linguaggio e sarai universale’» (L. Zinna, «Diverse Lingue», VII, 13, 1994, p. 184). In questa raccolta, la voce narrante organizza e scandisce con sapienza le sue quindici ‘favole’ in versi liberi, attingendo all’oralità di tempi remoti e disponendo attorno a un immaginario fuoco, nelle veglie, uomini e animali. Questi ultimi rappresentano una natura perseguitata e oppressa dalla presenza quasi sempre violenta dell’uomo, che il narratore fa risaltare sequenza dopo sequenza senza esprimere giudizi, perché i suoi «cùntura» non hanno una morale consolatoria, ma raccontano la vita com’è. Scorrono sotto i nostri occhi le immagini de ’i carcarazzi, le gazze ladre a cui vengono... rubati i piccoli. Vana è la ricerca dell’agreste Cerere bianca e nera, che fruga «nnê tani e ammezzu ê rrunzi, / nn’a cassia, nnê ggiummari, / ammàtula nnê bbuca / rintra ô muru / ri petri...» (‘nelle tane e in mezzo ai rovi, / nell’acacia, nelle palme nane, / invano nei buchi / dentro il muro / di pietre...’). La dolcezza dello strumento espressivo, con i suoi impasti di suoni, di onomatopee, di musiche cantilenanti, contrasta visibilmente con la crudeltà cui soggiacciono creature indifese e innocenti. Solo a tratti l’armonia antica tra l’uomo e gli animali viene ristabilita da un gesto infantile e fraterno verso i piccoli esseri, come la «vucciardedda», la lucertola, che popolano l’aia («’A nica, letaleta, / cci rririu; e abbuccannu / r’a spadda ri so’ patri, p’accarizzalla cci allungau / ’a manu»: ‘La piccina, lieta, sorrise; e sporgendosi / dalla spalla del padre, / per accarezzarla allungò / la mano’, ’I vucciardi: Le lucertole). Al centro del libro s’impone allo stupefatto lettore la storia del maiale (Cc’èrano tutti â mmezzu ri l’ariuni: ‘C’erano tutti nella grande aia’) e del suo incontro improvviso con la bellezza: la coda di un pavone, dischiusa a formare un’immensa ruota. Il maiale corre incontro a quella visione caleidoscopica creando sconcerto e paura nell’aia. Poi, tre notti nel suo buco con la porta sprangata, fino alla ‘logica’ conclusione. E nessuno può dire «s’a ’ntisi / – ’nchiuvatu ô tavulazzu: / cu’ ll’occhi sbarrachiati, / prima ri cannaliari – ’a lama chi azziccusa / r’u coddu cci circava / ’u cori» (‘se l’avvertì / – inchiodato al tavolaccio: / con gli occhi sbarrati, / prima di morire – la lama che insistente / dal collo gli cercava / il cuore’). La pietas del poeta avvolge sommessamente esistenze e creature della cui sofferenza nemmeno abbiamo la percezione: un riccio solitario e insonne; una volpe, imprigionata con l’inganno dell’amore e impazzita per la disperazione di non poter più «cacciari, / cùrriri, smicciuliàrisi / ô ventu chi dda fora / ciuciava» (‘cacciare, / correre, arruffarsi / nel vento che lì fuori / soffiava’); i passeri di nido catturati – e la loro madre presa a tradimento col vischio – dall’incoscienza crudele di un bambino, che «taliau l’aceddi – tutta / dda cialoma – priatu. ‘Ora mi manca sulu / ’u patri’ rissi, mentri / firriatu si nni stava / ennu» (‘Guardò gli uccelli – tutto / quel trambusto – contento. / ‘Ora manca solo / il padre’ disse, mentre / girate le spalle / se ne andava’). Il Canto di un pastore errante dell’Asia, ricordato da Vincenzo Consolo nella sua prefazione a Cutusìu,el’alba annunciata dalla Puddara, che spunta sull’ultima pagina dei Malavoglia, fanno da sfondo a queste microstorie di creature per le quali, nei confronti di un destino incomprensibile, non sembra esistere alcuna via di fuga.
Anna De Simone
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