« indietro ALESSANDRO FO, Corpuscolo, presentazione di Maurizio Bettini, Torino, Einaudi, 2004, pp. XII + 134, €11,80.
Dapprima antologia della passata produzione, infine silloge di stravaganti, Corpuscolo sembra derivare il titolo dal carattere non unitario di un libro a struttura complessa: preceduto da un’affettuosa presentazione di Bettini, seguito da un fondamentale appunto dell’autore, e incorniciato fra una poesia di prologo e tre di congedo, esso è infatti diviso in tre parti, a loro volta composite. La prima consta di due raccolte, 15 componimenti per Le cose parlano (1987) e 11 per Il giallo e il blu (1990); la seconda è interamente occupata dalle 11 Bucoliche (al telescopio) del 1996, fra cui una prosa esplicativa; la terza, più complicata, divisa fra Bozze e bizzarrie (Due di bozze e sei di Bizzarrie) e Album di progetti, contenente appunto una serie di raccolte in embrione: i dieci pezzi narrativi di Donna in una patata (1992), gli altrettanti, ma sciolti, di Donne in corriera (1992-1999), gli otto, di nuovo legati, di Carta da balene (1999), i tre de Le scarpe di Emma (2000) e infine gli otto di Libro d’oro (2004). Il corpuscolo è tuttavia forse anche quello dei semplici oggetti che, sotto luce diversa, innescano la scrittura: non solo i libri, un lume ad olio, dei pupazzetti di gomma, una stecca di cioccolata, una scatola di biscotti, della prima raccolta, relitti leziosi di passati più o meno remoti e cose «che escono al mondo rabbuffate e scontrose» o costituiscono il bell’Equipaggiamento di un cavaliere virgiliano («l’ombra era quella di un cavaliere / con la cartella, / e, per lancia, l’ombrello»), ma anche gli eteròcliti oggetti scompagnati dal maggiore dinamismo delle ultime, passando per il microcosmo del presepe nella seconda parte. Un materiale anche linguisticamente prosastico, il cui innalzamento poetico è affidato non alla preziosità del lessico (se si eccettua il catalogo zoologico di una ‘bucolica’), che solo nella terza parte sembra risentire negli astratti (afrore, professura) di una nuova spiritualità, quanto intanto all’accumulazione nominale e aggettivale retoricamente disposta in dittologie e sintagmi trimembri, magari col polisindeto ad attenuarne la classicità. Più che di una serie di accensioni, tuttavia, si tratta di un commento ad occasioni che sono testuali in un certo senso anche quando appaiono esistenziali («il commento residuo d’un poema / perennemente disperso», per dirla con una poesia di Magrelli cara all’autore), e via via sempre più chiaramente cresciuto a ridosso di testi allusi quando non direttamente convocati, si tratti di classici (da Orazio alle Bucoliche, dalle preghiere cristiane a Edipo) o di moderni più o meno noti (da Flaiano a poeti come Antonio Pane e Tiziano Rossi), a cui Fo presta addirittura la voce narrante in ricostruzioni à la manière de («parla Garboli», «parla Giorgio Strehler») quasi a compensare, in un dialogo asimmetrico, le numerose apostrofi agli interlocutori della propria memoria. Né gli ipotesti sono necessariamente scritti, ma anche orali (le dichiarazioni della Archibugi in TV) o visivi (la Cartolina di Katharina Botzaris), magari mimati (Partenza di ali con cartelli) in una poesia che tende a farsi, secondo modelli alessandrini, carme figurato. Ne discende comunque un dettato ‘secondo’ e stratificato, una poesia-matrioska in cui il testo vero e proprio si dispone intorno al suo pre-testo includendolo materialmente (non solo in esergo o in calce) o ne appare silenziosamente circondato in un continuum senza soglie (esordi in medias res senza maiuscole, explicit grammaticalmente sospesi); ma anche una più pervasiva tendenza parentetica, a spezzare, à l’aide di iperbati e soprattutto enjambements (che lasciano in ‘esponente’ preposizioni anche semplici, articoli e congiunzioni), i sintagmi («Eppure anche fra quelle luci amare / senza (se non di / fantasia) consistenza») e a obbligare i versi, sovente dislocati, a ricomporsi su più linee, in un movimento che sembra avere il suo corrispettivo nelle immagini del vortice, del mulinello, della scala a chiocciola affioranti nella terza parte. Allusività e centralità della dispositio si riverberano d’altronde anche su altri piani: quello metrico, in cui misure varie, classiche anche solo tendenzialmente, talora costanti, spesso disperse soprattutto fra versi lunghi, si dispongono, specie nella prima parte, a mimare forme chiuse per lo più liberamente interpretate (la sestina, il sonetto anche rinterzato, il madrigale, forse anche la ballata) o almeno quelle che sembrano loro porzioni; e ancor più chiaramente quello rimico, la cui insorgenza, spesso ostentatamente non ricercata (con evidenza di rime facili se non grammaticali), assume sì talora l’aspetto dimesso delle assonanze e delle rime interne (qua e là promosse al mezzo), ma sovente anche il tono naïf delle baciate e delle alterne, mentre l’identità tende ad estendersi all’intero lemma e ad assumere la forma dell’equivocatio o della parola-rima, di cui sono espressioni massime la sestina regolare El portava i scarp del tenis, preceduta dalla ‘prova’ eterodossa di Biciclette a San Vito (ambedue ne Le cose parlano), con una tendenza che tuttavia sopravvive nelle rime inclusive delle ultime raccolte, ma che sintomaticamente sembra eludere il piano puramente fonetico delle ricche. Il complesso contribuisce a segnalare come l’emergenza di una vena ritmica e musicale, se non ludica, sia trattenuta, per non dire soffocata, dall’atmosfera malinconica di una poesia irrimediabilmente riflessa, senza slanci che non siano «amore d’altro amore», i cui esiti migliori si verificano forse dove la stratificazione si condensa nell’uso accorto di una metaforica felice («la vena rilevata, / azzurra, lungo il collo, / vegetale teso a una corolla / di luce nell’ovale»), corre i rischi dei toni profetici e sentenziosi di futuri e imperativi («Anche la mia corte rifiutata / non resterà arenata nell’inutile. / La mia ricerca pura sarà amata / anche da te, mostruoso desiderio, /...»), o si distende nelle serie narrative in cui la condizione ‘postuma’ dell’io si dimensiona anche ironicamente al cospetto di epiche maggiori, Achab, i miti greci o la liturgia cristiana: «Fu allora che alzai lo sguardo. / E apprezzo questo silenzio che non si turba / di parole, né lamenti, né preghiere. / E la dimenticanza che non disturba fiori / perché velino un resto coi profumi. / Amo la dissolvenza, / di me, della mia scia, di tutti quelli / che, annacquati affetto e gratitudine, / potranno fare senza / di me, serenamente» (della nostra morte).
Attilio Motta
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