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ROSARIA LO RUSSO, Lo Dittatore Amore. Melologhi, Milano, Effigie 2004, ‘Stellefilanti 1’, con uno scritto di Marco Berisso, pp. 86 + CD, € 15,00.
 
Si potrebbe iniziare dal CD prima che dal libro. La cosa più notevole è che il disco contiene, oltre alla gustosa esecuzione di Musa a me stessa, corrispondente alla prima sezione di quanto è stampato (certo, con in più il materializzarsi delle voci, degli inserti rossiniani e stornelli del folclore toscano), una composizione dal titolo Nastro – un tape non molto beckettiano ma collage «di brani poetici e non tratti dal Canzoniere di Gaspara Stampa, da Dino Campana e dalla beata Angela da Foligno». Lettura poetica gravida dei propri antecedenti (Carmelo Bene, Piera degli Esposti), intento del centone, un cui orizzonte di manovra plausibile è negli Epigrammi ferraresi di Pagliarani, è di realizzare una lunga stringa di scrittura vocale, dove, tra accordi di organo, la voce diviene corpo eucaristico della tradizione (accidenti mistici sono il lessico di recupero, gli accenti a nudo, pura spinta della colonna d’aria). La stuzzichevole mania vellicatoria del verso sembra realmente ‘possedere’ chi qui recita-scrive, l’«indiata speciale», così che il riflesso di omaggiare ancora una volta la macchina estetico-menadica (se mai c’è stata), l’io-scenico-femminile stratosferico, la baccante col microfono, è destinato a un misero flop. Qui «in maschera», e stiamo parlando ormai anche del libro, c’è soltanto la voce. Il falsetto, non è una novità nella poesia di Rosaria Lo Russo, artificio ‘debole’ dei cantanti, promosso dai poeti a contraffare il codice quando gli scappa. Soprattutto è da notare che è lo scritto più che il recitato ad ammettere tutti i trucchi, non solo i più complessi: il neometrico (la collana, «piuttosto una cavezza, una gorgiera», di sonetti), il poematico (il Trittico figurativo il cui primo pezzo è nientemeno che le Grazie), il madrigalistico (o giù di lì, come la parodia rinforzata di «Sempre caro mi fu stare qui chiusa / e questo speco ch’è camera oscura» etc.), ma anche meno gloriosi «esercizi gassmaniani di respirazione per imposto verbale». E insieme con questi, entrano in forza gli espedienti guitti, l’uso del vernacolo, rumori, linguacce, jingles di un futurismo vecchio come le sorelle Materassi: infanzia dell’arte e ‘pòlemolalia’ della donna, condannata alla terra dei Padri (sono un magico viatico le parole misteriosissime, amuleti scacciapericoli, della nonna calabrese), all’attacco dei medesimi (di quello vero, psicanalista all’ombra del padre-Freud, e il padre Dante, il padre Foscolo, il padre Carducci). In fondo ad ogni de-formazione ci sono gli inseguimenti, secondo umore, della voce chiamata a gestirsi in relazione alla doppia natura dello scritto («Col mito platonico della scrittura, ci pensi che figura?»), abbandono ai codici e abbandono della fiducia nei medesimi. A questo punto, nella circolarità della procedura di saturazione, o non ci sono più citazioni o ci sono perché la voce, nella poesia, è dappertutto. Così è nella tautologia dei mistici, l’erotico-retorica di Dio. Rimane attorno a quella, salda l’unità della funzione-soggetto, per cui si ricorre volentieri all’immagine trovata da Marco Berisso nel saggio che accompagna il volume. Dice Berisso, citando Hermann Broch, che l’immergersi a capofitto nel Kitsch permette di «trovare un compromesso tra la propria puritana e ascetica concezione dell’arte e il proprio amore per la decorazione», perché «la dea della bellezza artistica è la dea del kitsch». E quindi, perché è la voce che ha deciso di prendere la penna: «sarà anche D’Annunzio, quello della Lo Russo [...] però D’Annunzio scritto dalla Duse». Tutto qui, e siamo nel cuore stesso del meccanismo. Sembrava barocco, nella pienissima ostensibilità della scrittura, ed era, a suo modo, classicismo (a parte ultimi sbuffi rococò). Lo Dittatore amore, grande burattinaio del poetricio stilnobbista, ancora annoda e spira, come nella nostalgica gotica di L’adorazione dei Magi, davanti all’affresco di Gentile: «[...] Grossi cavalli testicoluti montati da cieche madonne godeane / E vecchi fiorentini lividi e olivastri e arcigne parapissere ciane / Quello che mi fa più male è non avermi conosciuto di persona / In persona in costume storico tra tonitruanti grancasse smarimettendo / In scena un afrore di sacro lungo la strada del mio lungo addio [...]». Sembra una parabola di come dovevano perdersi, in margine alla tradizione, le prime illusioni stilistiche e poi quelle, più tenaci, sul nesso poesia/vita. Espulse queste, è praticamente impossibile, ripetendo, ripetersi. L’ultimo melologo in ordine di composizione è nel libro il primo: convivono la nota figura dell’autrice in scena, sfinitissima egeria di se stessa, viso biaccato etc. «a cavalcioni di una sedia come l’Angelo Azzurro» etc., di fronte a un pubblico di «Padri spaparanzati nei primi ordini dei Predicatori [...] tardivamente pentitasi, che anche lei fu a lungo connivente degli avventori» e alcune possibili reincarnazioni tra cui la straordinaria evocazione della badessa del parmense monastero di San Paolo, committente di un arcano ciclo correggesco (al visitatore, in raccoglimento, ficcano tra le mani uno ‘spiegone’ con le teorie di Longhi e di Panofski): «o come quell’altra signora, / Giovanna Piacenza / che c’aveva la stessa credenza // – Hi hi, suorine New Age! // – Fui io proprio io – io fui proprio io nella stanza di Giovanna accanto al caminetto accovacciata / (Abbadessa Diana) / – hho hho hho Abbadessa Diana!» (nell’angolo, la querula vocina «qual goffa sibilla vecchina»). La badessa «... mimò le sue gesta mondano-diplomatiche su quelle mitologiche della famosa dea del Femminismo» (Diana). Chissà se Lo Russo conosce lo scritto del drammaturgo berlinese Heiner Müller che negli arcani piedoni senza corpo dipinti dall’Araldi nella seconda contigua stanza della badessa, vedeva, con sinapsi classicista brechtiana, i poveri piedi piagati di Wozzek. Ma i piedi ai Padri e alle vittime dei Padri; qui invece, la voce-poetessa, appagata di sinapsi, di accelerazioni in arsi, nel pensiero del libro a venire, riposa: «Nella magnifica sua stanza ho provato un godimento estetico senza pari».

Fabio Zinelli

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