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DANIELE PICCINI, Terra dei voti, Milano, Crocetti 2003, pp. 111,  12,00.
 
Le otto sezioni di cui si compone Terra dei voti, la prima raccolta organica di Daniele Piccini, sono improntate a una sofferta coesione di nuclei ispirativi. Lo svariare di occasioni e di pronuncia concorre a garantire al singolo testo un’innegabile specificità individuale, eppure, forzando speciosamente i dislivelli tonali e tematici, quasi ogni poesia potrebbe venire assunta come linea d’intarsio di una dissimulata forma poematica. Il poema della fedeltà e del disincanto, diremmo allora un po’ enfaticamente, che Piccini dedica a un passato di pienezza vitale estinta quando, come suole, la condanna della maturità (una «stralunata maturità») è caduta a ingrigire irreparabilmente il profilo della reale. E che il vero abbia i suoi diletti è un corollario che, lungi dal galvanizzare, strazia lo slancio verso il recupero delle atmosfere dell’infanzia e dell’adolescenza. La consapevolezza del presente è ormai incommutabile con la felice incoscienza perduta: sapendo, non si può non sapere, e la mano tesa già sospetta il niente che stringerà. Come si sarà capito, l’archetipo leopardiano funziona con cogente energia, e tracce testuali consistenti ne testimoniano la forza di attrazione, al di là del piano concettuale, anche nella disposizione delle immagini. Tuttavia, con l’intento di fornire qualche appoggio sulle fonti di questa lirica, sarà utile riferirsi a vicende di più immediata verificabilità timbrica: in primo luogo quella del Luzi di mezzo (per precisare, punteremmo sull’autore di Onore del vero), che offre spunti d’ambiente – e non solo – molto pronunciati; la stagione più sfiduciata e matura di Parronchi, aperta a una fede problematica; la dizione ferma, dagli accenti definitori, e l’appropriatezza di lessico di Cardarelli; la scabra ricerca del «segno» di Montale. Nomi, a cui molti altri potrebbero essere affiancati, che servono appena a suggerire il terreno culturale su cui s’innesta la poesia di Piccini, tematicamente ambiziosa, intimista ma con balenanti aperture sul mondo (spesso inteso, amaramente, in senso giovanneo), pertinacemente comunicativa. Abbiamo alluso a una coesione di motivi che sembra quasi tracciare il diagramma di un dissimulato poema. Dobbiamo aggiungere che se il disegno generale permette una tale lettura, è riduttivo collocare interamente Terra dei voti sotto le insegne dell’assiduità rammemorante e dell’acerba disillusione. Si commetterebbe l’arbitrio di trascurare un filone vitalissimo come quello amoroso, che pur intrecciandosi spesso con i due principali (amore come pulsante giovinezza emotiva e amore come severo inganno), mantiene un rilievo autonomo e fertile. E poi il diffuso pessimismo – che detta conclusioni come questa: «Non è un bel posto / nuovi nati a venire, / (...) / il cielo non esiste, gli occhi sono / ancora interni, inermi, / disegnano terrestri figure / del non andare, del buio restare» –, lo stesso pessimismo conosce la via di fuga verticale, l’ipotesi divina: «Che cosa ti tiene su / che non è l’acqua e non è ardore o niente / di nominato nel tempo, / se non una tenacia. Io non lo so che cosa, mentre chiedo al Padrone / della storia di darmi ancora fuoco / per scoprire la prossima venuta / oltre il nido caduto giù, divelto». Si tratta di un cristianesimo che non ha niente di consolatorio; l’intuizione d’un ente superiore viene il più delle volte associata a un tormento d’inadeguatezza: «Non avessi impazienza, non avessi, / la sentirei la compagnia di Dio / in quest’attimo stesso». Di nuovo, i momentanei scoraggiamenti del credente si mescolano con le amarezze dell’uomo, con una memoria accanita e con una un’attitudine mentale che non riesce a sottrarsi all’attonita meraviglia della transitorietà: tempo che scorre e danneggia, sul fondale di una terra dei voti popolata di presenze quasi inghiottite dall’indistinto e di assenze che non smettono di tenersi alla luce.

Paolo Maccari

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