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EMILIO RENTOCCHINI, Giorni in prova, Roma, Donzelli 2005, pp. 107,  11,00.
 
Letteralmente a un «Corpo a corpo» (titolo della prima delle quattro sezioni del libro), non già fra prosa e poesia semplicemente, ma fra prosa in italiano e poesia in dialetto sassolese sembra dar vita Giorni in prova di Emilio Rentocchini, opera di fronte alla quale è difficile, a un primo impatto, sapersi decidere per la lettura in forma di un testo di poesia intervallato da racconti brevi, piuttosto che per un testo di novelle alternato da componimenti poetici. Invece, il ‘corpo a corpo’ non ha né vinti né vincitori, non è neanche uno scontro, e neppure un confronto fra due generi linguistici e stilistici, i quali, viceversa, viaggiano su due binari paralleli e indipendenti, perfettamente autonomi, che convergono a creare, ciascuno con le proprie modulazioni, una struttura d’insieme compatta e coerente. Storie sintetiche, folgoranti come cortometraggi cinematografici – solo talvolta oltrepassano di qualche riga la lunghezza di una pagina – dalle trame definite e dai finali precisamente compiuti e spesso disorientanti, comunque mai scontati, vanno a curiosare in particolari della vita degli altri – forse nei sogni degli altri direbbe Claudio Lolli – dentro esistenze esaurite o in via di esaurimento, oppure ai margini: quella, ad esempio, di un ex promotore finanziario divenuto clochard per debiti di gioco, che vagabonda assieme alla madre («una grande insegnante [...] Come mamma però ha sbagliato tutto»), alla quale è legato da un complicato rapporto affettivo, morboso e frustrato, fino alla morte di lei («Come avrei fatto senza quell’odore in cui s’era crogiolata la mia pigrizia, che lei chiamava tenerezza, e teneva come una perla rara tutta per sé»). Sono anche storie di esistenze comuni, con alcuni spunti autobiografici, nei cui ingranaggi qualcosa si è comunque incrinato, o è andato fuori sincronia, o si è perduto per sempre. Giustapposte ai racconti stanno le ottave scritte nel particolare dialetto emiliano di Sassuolo, le quali fungono da scenografia, da ambientazione, da ‘atmosfera’. «La vétta in linea d’aria l’an sa ’d gnint / perché la mort l’as dev tuchèr se no / adìo speransa in fènda al labirint, / ma al fiê de ste tramount do ’t pèins, ve’ mo’, / dre a dèr da bèvr ai fiòur apèina a vint / chilòmeter da chè mèintr al falò / al sghèssla in nòt, l’è apnea, profonditê / d’aqua in la tèra, forsa ed gravitê»: endecasillabi tronchi, i versi, come un compianto, stanno vicino al figlio errabondo che ha perso la madre: ‘La vita in linea d’aria non sa di niente / perché la morte ci deve toccare se no / addio speranza in fondo al labirinto, / ma il fiato del tramonto in cui ti penso / che dai da bere ai fiori appena a venti / chilometri da qui mentre il falò / sgocciola nella notte, è apnea, profondità / di acque nella terra, forza di gravità». In questo libro l’utilizzo del dialetto e il rispetto rigoroso di rima e metro all’interno dell’ottava rendono le poesie qualcosa di simile e a mezza via fra l’intermezzo musicale, con movimenti che di volta in volta hanno toni più o meno drammatici, allegri, andanti, scherzosi, venati di ironia, e il rantolo di una voce interiore autoriflessiva e sfasata rispetto al contesto. C’è un mondo complesso, multiforme abitato da esistenze altrettanto diverse fra loro, ciascuna un universo a sé, non all’altro capo della terra, magari a pochi metri di distanza l’una dall’altra; è fatica cogliere di esse qualche attimo privato, raffigurare qualche momento di queste vite, soprattutto di quelle più nascoste e isolate. È un filo sottile a tenere unite lirica e narrativa, sottile come «l’elàstigh di mudànt», vale a dire ‘l’elastico degli slip’, quando «at fa un silàch / vintài d’autùn dintòurna a la buséa / con l’alfabét dla piòmma sòuvra al spach / ch’la presta al vód la léngua dla marea» («ti lascia un segno / un ventaglio d’autunno attorno alla bugia / con l’alfabeto della piuma sopra lo spacco / che presta al vuoto la lingua della marea») e il segno di quell’elastico forma un solco, ossia ciò che resta poeticamente di un amplesso notturno percepito nel disagio e nella stanchezza di una coppia tormentata mentre vive l’atto come un «cedimento sempre più sterile (ancora più, previsto)» che «macchia come un peccato», anche se ad accenderlo bastano solo, appunto, le «mutandine lì appena intrise, senza colore al buio». La poesia, dunque, tocca il punto indescrivibile, inenarrabile di un senso di disperazione, indolenza, apatia, smemoratezza, routine quotidiane, echi ticchettii e suoni della mente ronzanti dentro di noi a volte in forme incomprensibili o ancestrali come la voce di un dialetto dal suono gutturale e monco, che messo di fianco al ben disteso italiano della prosa si sottrae al dilemma della sua morte o vitalità linguistica, galleggiando, con la consistenza di «piòmma», «ènda», «vèint» (piuma, onda, vento), nella stessa «aria», sotto la stessa «bachèda luna» (calpestata luna), nella stessa «aqua», in cui si muovono i personaggi, sul tipo ‘emiliano-spoonriveriano’, dei racconti (in questo senso l’identico risalto grafico concesso alla ‘comprensibile’ traduzione in italiano può disturbare il mistero di un testo dove stavolta, parafrasando Giudici a proposito della raccolta Segrè, il Gulliver delle parole lillipuziane, quasi loro zimbello, è la prosa, non l’homo loquens dei versi). Così trascorrono i giorni di tutti, ‘giorni in prova’, precari, senza un tempo indeterminato davanti ma nell’indeterminatezza del tempo, perché «la vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente».

 
Giuseppe Bertoni

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