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MASSIMO SANNELLI, Santa Cecilia e l’angelo, Borgomanero, Atelier 2005, pp. 54,  7,50.
 
Estatica, l’istanza poetica di Sannelli lo è sempre stata. Di estasi dolce, o perlomeno di estasi che esclude, emargina, sublima (rimuove?) la violenza si è sempre trattato: lo testimonia una volta di più l’immagine che questo ultimo libro si è scelto ad insegna, vale a dire il dolcissimo gioco di sguardi tra l’angelo e santa Cecilia nel quadro del caravaggesco Carlo Saraceni conservato alla Galleria Nazionale di Palazzo Barberini a Roma: scambio di sguardi che cerca di infondere coraggio di fronte all’enormità degli strumenti musicali che i due personaggi si trovano nelle mani. Gli strumenti rappresentano appunto la dimensione estatica della musica (della phoné) che sottrae (chiama fuori) l’umano alla sua soggettività: percorso dalla scrittura alla vocalità che già in passato la poesia di Sannelli ha rivendicato formalmente e tematicamente. L’estasi è coltivata nel silenzio, nell’isolamento, nella solitudine che pure essa contraddice e anzi nega, possibilmente supera. Ma il modo di questa estasi è una sorta di autoscopia ab externo che oggettiva un io pudicamente (nevroticamente) autobiografico. Lo stile è, del resto, in primo luogo questa forma di pudicizia – quindi una difesa (non, si badi bene, una riparazione in senso kleiniano). Difesa che circoscrive una storia dell’io mediante un trobar clus «sperimentato a partire da condizioni di vita realmente vissuta, quindi in vista di un contenutismo parafrasabile, almeno interiormente» (così un’autodefinizione dello stesso Sannelli, estesa per altro a una serie di sodali tra cui spicca Marco Giovenale). Non sfugga la limitazione della integrabilità in un orizzonte di discorso ‘realista’ al solo ambito di un’economia dell’Innenwelt. Ne consegue una certa irriducibilità al senso, che – stante la veste sia pur nobilmente feriale della lingua – confligge con l’universalizzazione allegorica cui una rappresentazione dall’esterno dell’io potrebbe dare luogo (come accade nelle figure in terza persona di Eugenio De Signoribus). Nella stessa direzione di opacizzazione del senso va d’altronde anche l’«esitazione» strutturale della testualità di Sannelli (così Giuliano Mesa – per altro autore assai presente in tutto il percorso poetico del più giovane amico – a proposito di un precedente libro, Due sequenze: e in questa definizione si può includere sia la continua variazione diacronica dei testi, sia i tanti piazzamenti sintattici e interpuntivi che creano dei lievi chocs semantici): mutabilità non certo tesa alla ricerca di una medusea perfezione, bensì appunto alla inperfezione (cioè la permanenza nella finitezza) della voce. L’anonimia della voce cercata dalla ritmicità indotta da un (angelico) corpo senza organi, depulsionalizzato (paradossale rovesciamento del corpo senza organi totalmente pulsionale di deleuziana memoria: forse non senza strizzata d’occhio alla coincidentia oppositorum), si trova quindi davvero a un periglioso crocevia tra nevrosi e psicosi, tra difesa e deflagrazione, tra identità minimale e corale (etica) disidentificazione. La tensione al legamento, stilistica e – nel contempo – etica (metrica, sintattica e, insieme, tematica) manifesta d’altronde un’inesausta tensione alla charitas: tutto è (l’)oggetto d’amore: con un investimento che sbaraglia l’estetica nell’etica, il buono e il bello sono naturalmente giusti, anzi sono la giustizia. Solo che questa bontà quintessenzialmente giusta, nella sua ricerca immunitaria dell’onestà, è – come in Pasolini, se si vuole – ambigua. Diciamo che l’embrione, l’uovo (tema centralissimo della poesia di Sannelli) cova un germe di regressione, per altro tematizzata nella figura del ritorno all’isolamento oscuramente ‘buono’ dell’utero («lo spazio neutro,  che vale come / cuna e culla […]»), del resto – con felice contromovimento – legato alla biologica continuità dell’umano. In scorciatissima sintesi: «gli atti sperimentali sono / la carità: la stessa in fioco, secco, / cotone, aria. Molto scritto, testo, consuma / il possibile da dire; ora ondeggia / in uno scatto di tasti, in una / visione di schermo e tastiera / che vale come una cuna, culla / bella. E nel fertile le giunture / si sono mosse, via corse». Anche in questo caso si verifica una crescita del testo al fuoco della carità, che esita però in un claustrofilico, difensivo rifugio nel témenos formale: (ne)uterizzazione che però viene in qualche modo ricondotta alla sua specie non identitariotombale, ma feconda, attraverso il cavalcantiano movimento delle giunture che – in qualche modo – saltano fuori dall’utero in cui ci si era appena chiusi. Di là dal pericolo dell’apologia della purezza – concetto inevitabilmente legato a una metafisica identitaria – (in che modo deve sostanziarsi l’agognata carezza della pietas, il politico partage della sofferenza? Necessariamente in una cancellazione esorcistica del male? E non ha questo male in filigrana troppo spesso il volto del diverso da sé?), la grande forza della poesia di Sannelli sta nell’abbinamento tra un discorso apofantico e una semantica opaca, non di rado aporetica. Come se il modus logico fosse continuamente contraddetto dalla sostanza di mode veçu del discorso, come se la logica venisse continuamente abitata da un’istanza profonda di promessa, di auspicio, a volte di preghiera e inno. Vocazione profonda al patemico che, appunto, trova forse in questa sua declinazione testuale la manifestazione più convincente. Queste poche righe, isolando poche questioni tra le molte di rilievo, non rendono davvero giustizia all’ennesima opera decisiva di quello che pare il poeta più talentuoso della sua generazione. Servano a riavviare un dibattito: cui tanto, tantissimo resta da aggiungere.

Paolo Zublena

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