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SERENA STEFANI, Caverne/Cavernes, Firenze, Gazebo 2005, s.i.p.

Prima raccolta di poesie (o, mutuando la definizione un po’ burocratica della nota bibliografica in fondo alla plaquette, «prima monografia poetica») di una studiosa fiorentina di letteratura e cinema trapiantata in Belgio, Cavernes/Cavernes denuncia dal titolo la propria programmatica sperimentalità. Il bilinguismo dell’intestazione corrisponde infatti all’esibita volontà, che ispira il volume, di accostare i testi italiani della Stefani alle loro traduzioni francesi dovute a Mirco Ducceschi (con l’attiva collaborazione dell’autrice) su un piano di perfetta parità. Se il poeta vive sospeso tra due mondi, la sua poesia deve vivere tra due lingue e anzi in due lingue, con pieno diritto di cittadinanza in entrambe. L’operazione, certamente non inedita, costituisce anche il più notevole motivo di interesse della raccolta, il cui nucleo tematico principale ruota attorno al problema dell’incontro e dello scontro tra due mondi – che parlano con le voci di due personae/mondo, la Donna Bianca e il Maschio Nero, cui si aggiunge la Moglie Africana a formare il lato più corto e soccombente del classico triangolo – di cui uno è portatore di cultura, decrepita ma tuttora egemone, e l’altro di natura, ancora feconda ma ancora sottomessa (forse, tuttavia, consapevolmente e ambiguamente, pronta adesso ad accettare di contaminarsi con il «veleno sottile» del Settentrione per poi alzare l’«ultimo scudo» in nome di un passato di sofferenze che non fa sconti). Ed è qui che si fa più scoperto il dialogo col nume tutelare del discorso poetico della Stefani, Pier Paolo Pasolini, alla cui opera cinematografica la stessa autrice ha dedicato gran parte della sua attività di critico (si veda la sesta e programmatica – fin troppo – delle Poesie della donna bianca: «Caro Pier Paolo, potessi vedere quest’Ospite nero / ricomporresti le membra al nuovo massacro. / Asceso nel tempio dal fondo di sterro / (con tutto il decoro che sai), / nell’evidenza tremenda di vecchi valori, / sventra e sventura i miti più cari. / Il nostro umanesimo come risponde? / Di nuovo le stigmate, il macero della coscienza, / la piega piccina del corpo»); con, sembra, un di più, un interessante di più, di riflessione gender, nel contrasto a distanza tra la donna bianca dall’utero/caverna, che con impazienza ma anche con inquietudine aspetta che si manifesti in lei «l’istinto oblativo che mi riempia le cave» (nella deformante ottica patriarcale dell’uomo venuto dal continente africano la stessa donna diventa la «sirena» autrice di «poemi», una di quelle «donne che hanno deciso da sole / di quale parte privarsi») e la moglie nera minacciata dalla «donna lontana che viene a scoprire i miei nidi» – ma la minaccia non deve essere poi irresistibile, se anche l’africano, come il più comune maschio italico, precisa: «Era venuta senz’armi, l’ho ammesso, ed io / le ho ceduto: come resistere a tanta bêtise? / Giuro, niente pozioni, rien che lo Spirito, / loro che ci credono, alcuni. / Ma tu, nera su nero, / sei la vivanda del mio ragionare, per l’autarchia / di domani, per una nuova alleanza intestina. / (Sempre che resti vivanda)». Si noterà che l’ambiguità sintattica di quest’ultimo verso, ambiguità che lasciava aperto uno spiraglio di speranza per la povera moglie africana, che cioè il soggetto della frase non fosse lei, condannata a docilmente nutrire di sé il marito fedifrago restando vivanda, ma il sostantivo «vivanda» stesso, e di vivanda ne avanzasse magari per tutti e due (ma forse anche questo fa parte del nostro credere nello Spirito) è brutalmente dissipata dalla didascalica traduzione francese: «Pourvu que tu sois toujours comestible». Proprio il controcanto che la traduzione francese fa alle poesie della Stefani, peraltro già frequentemente screziate in partenza di modi ed espressioni francesi, controcanto che il più delle volte, come spesso capita, va in direzione della chiarificazione e dell’autocommento, anche a costo di rinunciare a qualcosa – nel caso ad esempio dei primi versi della seconda delle Poesie della moglie africana, alla sottomessa oggettività della terza persona («Un giorno qualcuno ha bussato alla porta. / Era assetato. Voleva bere del nostro, fino all’ultima goccia. / Bene ha fatto il mio sposo a farlo morire di sete») in favore di un tu che dà alla prima parte del verso francese un sapore curiosamente d’antan («T’as bien fait, mon époux, a le laisser mourir de soif») – costituisce uno degli aspetti più stimolanti del libro; l’oltranza programmatica dell’opzione bilingue si allarga poi fino a includere il paratesto, la premessa di Mario Lunetta, la scheda bibliografica, perfino i ringraziamenti di rito.

Elena Parrini

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