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KGAFELA OA MAGOGODI, thy condom come, Amsterdam, New Leaf 2000; outspoken, Johannesburg, Laugh It Off Media 2005.

«Quel che conta è qualcosa di più della metafora»: il verso tratto dalla poesia che dà il titolo all’ultima raccolta di Magogodi (outspoken, ‘lo dico chiaro e tondo’) ne incarna la poetica, la quale non può essere disgiunta dall’attività performativa come ‘artista della parola detta’ che questo nuovo poeta sudafricano, uno dei più noti della generazione post-apartheid, porta avanti oramai da anni, anche a livello accademico presso l’Università di Witwatersrand, Johannesburg.
Nei lavori finora pubblicati troviamo le problematiche e la cifra stilistica tipiche della scrittura poetica che nasce per essere detta per un pubblico, piuttosto che letta tra sé e sé sulla pagina, vale a dire: stretta correlazione fonema-contenuto, livello semiotico in grado di alterare il livello semantico della parola; assonanze/rime iterate, versificazione che segue il dettato orale, nel caso dell’autore franta e nervosa, in assenza di maiuscole e punteggiatura. In tale scrittura, ciò che tiene insieme il testo non è più il verso scritto con l’inchiostro sulla pagina bianca, quanto piuttosto la voce delle parole creata dal poeta sull’ordito del suono. Il significante gioca seriamente di continuo con il significato, spesso modificandolo e arricchendolo di riverberi semantici, come ad esempio nei versi «fanno correre treni di virus nelle vene per farci la festa / nella testa / ma io sfuggo allo stupro del capo di buona speranza / prorompo-rompo gabbie di costole di pagine morte» (outspoken). Oppure nell’altra poesia che dà il titolo alla prima raccolta: thy condom come, in cui il «venga il tuo regno» (‘kingdom’) del Padre Nostro diventa un ‘profilattico’, operazione che alla pubblicazione aveva attirato critiche di blasfemia all’autore. Ma si evince chiaramente dai testi di Magogodi che non si tratta di mero gusto della provocazione: il tutto ha un fondamento nella sua poetica del corpo e nella storia, presente e passata, del continente africano. L’aids è davvero un flagello di proporzioni bibliche e augurarsi che arrivi ‘il regno del preservativo’ acquista quindi una dimensione tragica, per quanto blasfemo possa sembrare. Quando il poeta parla di «teschi spaccati per rilasciare onde cerebrali di schiavi» (outspoken), in un attimo ci piombano addosso millenni di storia coloniale, riletta in modo originale, e l’esperienza dell’autore che vede i corpi mutilati degli amici nella township al fine settimana.
Nella poetica della parola detta, per l’appunto, «qualcosa di più di una metafora», quindi, si condensa la poetica del corpo, di un corpo tragico, da parte dell’autore, che tesse una relazione tra musicalità del corpo e della parola: il corpo-parola della scrittura, che deve dare una ‘voce’ a un presente e a un passato difficilmente veicolabili dall’inglese di Sua Maestà e dall’esperienza che incarna. Come dare espressione, infatti, nell’inglese ben educato di Oxford a esistenze (come nella poesia Boemia) in cui si nasce e l’infante prende la poppata da una pinta di birra, «cavalca uno scarafaggio attraverso le cicatrici della storia» e, «già stufo di scopare», si «taglia il pistolino / lo getta nel mare» e ne esce solo un «diluvio di risate acide a corroderti l’anima»? «Mica scemo / appena imparato a parlare puro inglese / attraverso il naso bloccato». O quando il ciuf ciuf infantile del treno diventa un «chew chew», che mastica carne umana ed emette il fumo da gengive sanguinanti, che si fanno «schizzi di inchiostro rosso sulle prime pagine» dei giornali (chu chew train)? Come scrive il poeta ne la politica della volgarità in un mondo di fantasmi, «viviamo in un ordine sociale pornografico e quindi la mia poesia deve usare una lingua atta a manifestarlo». La sua poesia «parla attraverso il corpo»: «tu vuoi avvolgere i tuoi fantasmi con il tessuto di versi poetici profumati. Ma anche loro ti baceranno e ti denuderanno; vogliono pelle a gustare pelle; carne a battere carne; nell’emisfero australe del corpo». Citando il noto poeta guyanese D. Dabydeen, Magogodi afferma che la lingua della gente nera è «arrabbiata, cruda, energica» e «rispecchia il suo essere spezzata e la sua sofferenza, in questo essere cruda». Si tratta di un registro linguistico per necessità diverso e, rifacendosi a La volgarità in letteratura di A. Huxley, ricorda la sua «poesia del buon gusto», che tende a eliminare i dettagli apparentemente crudi del corpo dall’universo poetico, ma «la poesia del buon gusto esiste nel regno dei bei sogni e di rose profumate [...] notti belle e senza incubi»: Magogodi ha deciso chiaramente di raccontare gli incubi, ridefinendo il significato delle parole e quindi del modo in cui guardiamo il/al mondo. Una voce che si fa vieppiù solida, quasi corpo, al crescere letterario dell’autore, dalla prima alla seconda raccolta, in cui la complessità semantica è direttamente proporzionale alla precisione dell’affabulazione. Irrompe il personaggio shakespeariano di Calibano nella storia della schiava di fine settecento Sarah Baartman, da Città del Capo portata a Londra come fenomeno da baraccone a causa delle parti genitali particolarmente sviluppate, sepolta nella sua terra solo nel 2002, collegata grazie a un fulmine linguistico con la recente cronaca:«tornerà alla terra sarah baartman / come calibano o talibano»; o la storia del lungo trek dei boeri costretti in fuga dagli inglesi, a cui si aggiunge la lingua afrikaans: «conto sul microfono / per amplificare le mie liriche di vero iride / faccio a pezzi i diari dei voortrekker», oppure gli eventi epocali e il linguaggio da loro creato collegati a virus informatici: «riduco le storielle kak della storia a ground zero / ma mero scriba sono / e non un eroe ero». Ma l’autore non risparmia nemmeno il presente post-apartheid, alla cui generazione disillusa appartiene: se «a volte buttano delle briciole negli slums / capita solo con una spruzzatina di lacrimogeni / per i senza terra / loro gridano io dico loro gridano io dico» (tutte le citazioni da outspoken). Per arrivare a conga remix, in cui l’autore diventa strumento, si fa corpo-parola, l’iterazione si fa ritornello: «suonami sono un conga io sono il vero sontonga lirico i miei salmi sono inni sacri».

Giovanna Turrini

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