« indietro LES MURRAY, Un arcobaleno perfettamente normale, traduzione di Gaetano Prampolini, Milano, Adelphi 2004, pp. 504, 24,00.
LES MURRAY, Freddy Nettuno, traduzione e postfazione di Massimiliano Morini, Varese, Giano Editore 2004, pp. 840, 36,00.
La pubblicazione per i tipi di Adelphi dell’opera antologizzata di Les Murray, di cui «Semicerchio» aveva pubblicato la prima antologia italiana nel numero 22 del 2001, segue quella dei due grandi poeti che più gli somigliano, Iosif Brodskij e Derek Walcott. Con i due premi Nobel il poeta australiano condivide il radicamento alla propria personale periferia, il verso lungo e quella capacità, ad esempio, di sospendere la storia nell’attimo in cui si formalizza in simbolo, quando il presente non viene rinnegato ma si condensa in un tempo immobile e universale. Anche Murray coltiva l’ambizione di un progetto ampio, alto. Egli vuole scrivere «quelle non molte cose, di natura essenzialmente morale, che con le loro ramificazioni costituiscono ciò che sta a cuore a una persona». Per lui si tratta di celebrare l’Australia, «questa terra è la mia mente». Il senso dell’operazione quasi si spiega con un verso memorabile di Walcott: «O sono nessuno o sono un’intera nazione».
Poeta per certi versi georgico, trasporta il lettore nell’Australia del bush, nei «paesi delle segherie, nudi villaggi fatti di assi / uno spaccio, forse, / forse un ponte più avanti», territori piccoli dove «le verande fanno vela verso casa sui colli / finché il giorno imminente si allontana bruciato dal sole», là le persone sono chiamate per nome, come succede nei piccoli centri dove tutti si conoscono.
Nello spazio che si trova tra questa realtà e l’immaginazione del poeta, accadono cose memorabili. Come quando «un tizio sta piangendo a Martin Place. Non c’è verso di farlo smettere» (Un arcobaleno perfettamente normale). Il traffico si blocca, «la folla discute nervosa», c’è chi lo definisce ridicolo, chi piange. Come Cristo, l’uomo ha intorno «solo i pargoli / e quelli che guardano dal Paradiso gli vengono vicino / e siedono ai suoi piedi, tra cani e piccioni polverosi». Ma a un tratto smette il suo lamento e se ne va.
Alcuni versi sembrano incisi nel marmo, per freschezza e durata: «La profondità del loro matrimonio guarirà il ventesimo secolo» oppure: «Quel che dura è il viaggio delle famiglie lungo il loro nome», «le nostre vite sono rifinite dalle generazioni più remote». Si sente il senso di appartenenza al tessuto sociale, familiare, il desiderio di rendere omaggio a valori vivi, ormai quasi esiliati dalla poesia alta. Dietro Murray si percepisce Virgilio: le ferite non producono cancrena, rafforzano il coraggio.
«Siamo una specie linguistica», sostiene il poeta, persino «i nostri scienziati erano traduttori: / traducevano l’universo nella scienza, / credendo che altrimenti non avesse senso». Eppure, nonostante questa vocazione, «nel mezzo della vita, siamo impiegati».
I versi di Murray, a volte ironici, nascono da uno sguardo innocente, pietoso. Come nel testo dedicato ai grassi o nella Doccia, «esplosione d’estasi», «fumoso valletto che ti fa scivolar via l’impalpabile pigiama della notte» o nell’inno agli shorts, Il sogno di portare per sempre i calzoncini.
A volte è la semplicità che produce commozione. Il film «Violenza insensata, / niente trama, niente personaggi, solo spara brucia urla implora», fa desiderare a Murray di spostare «la leva / sulla retromarcia», per avere «sangue ri-invasato; combattenti rialzati e separati; orrore disfatto / e io uscirò in una città grande, vistosi pappagalli attorno agli stazzi del mercato / e le facce della mia gente guarite da questo amaro inganno». Il poeta può riscrivere il mondo con una parola, con un gesto.
Lascia inquieti il racconto del vincitore della lotteria che riceve per posta un numero infinito di richieste di donazione. Man mano che legge, l’uomo prova a bruciare nella stufa le lettere che gli arrivano, sempre più «annerito con la sua ricchezza» (Lettere al vincitore) e ci fa pensare al ricco Occidente circondato dalla distesa dei poveri.
Non mancano le punte visionarie, come quando, durante l’attraversamento dell’«ampia campagna color iuta», arriviamo a una casa padronale custodita solo da un cane, da un grande cavallo baio, una giovenca, una capra. In quell’universo di vita rupestre cogliamo un tratto dell’armonia che Murray intende fissare, ben poco fiducioso della possibilità che l’industrializzazione, la città, la globalizzazione, persino la scienza possano davvero essere le uniche carte da giocare per il futuro dell’uomo. La sua fiducia è nei dettagli che la molatura del progresso sembra spianare, egli crede nel linguaggio dei recuperi, nella valenza etica della poesia e nella sua potenza riproduttiva di realtà. Murray affida alla parola il compito di costruire il mito di un’Australia e di una civiltà umana che potrebbero perdersi.
Nell’ampio ‘romanzo in versi’, Freddy Nettuno, scritto da Murray nel 1998, è proprio Freddy, il protagonista, a trasportare fin oltre l’Australia la traccia del bush e i valori di una società non toccata dalla sbornia della modernità. Uomo semplice e poco colto, errabondo, Nettuno è un viaggiatore che porta nel suo stesso nome il dio ostile a Ulisse e al ritorno. Proiettato nell’Europa attraversata dalla Storia e dalla violenza della guerra, egli resta inevitabilmente estraneo agli eventi e al tempo stesso ne viene toccato. Dopo aver preso la lebbra, perde il senso del tatto, un evento simbolico che lo rende ancor più espressione di una non appartenenza. Freddy è un proletario che immagina una controstoria, un uomo pacifico che crede in percorsi tanto semplici quanto rivoluzionari, come quello del perdono: «Cominciai / anche quel perdono, con una smorfia, chiedendolo mentre lo concedevo. / Quando smisi di chiederlo, le città la smisero di bruciarmi nella testa».
Forse Les Murray non ha esiti costanti come Brodskij e Walcott, la cui capacità alchemica è evidente quasi in ogni pagina, ma possiede il potere di forzare la lingua all’affresco, di renderla rivelatrice, l’ambizione di utilizzare la parola come chiave di volta del proprio tempo, oltre che un talento evidente e una somma rilevante di questioni necessarie da mettere in versi. Segno che la poesia è viva e potente anche ai nostri tempi, quando è alta, rigorosa, animata da progetti solidi.
Paola Malavasi
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