« indietro Esiste la poesia europea? Non esiste lingua poetica universale che non sia prima lingua particolare, anzi direi individuale: una lingua che individui nell’io individuante una particola necessaria a che il tutto sia il tutto. E la parzialità che lo individua e che in esso si inscrive come il misterioso e sorprendente movente di un tutto possibile, di un tutto concreto. Altrimenti il tutto è un’astrazione della mente e non una realtà percepibile. Il tutto è sempre “in arrivo” da situazioni locali, da momenti irripetibili, e non viceversa. La poesia è uno stato di effabilità continuamente alle prese con l’ineffabile, così come il visibile è continuamente alle prese con l’invisibile. Non si dimentichi che ogni dizione è possibile nell’ambito e in rapporto con la propria contraddizione, di cui ogni dizione non elimina l’esistenza, ma di cui anzi avverte la presenza antipodica sussistente in ogni movimento di scelta del proprio campo d’azione. Altrimenti l’arbitrio della scelta, in tale condizione bipolare, non avrebbe ragione di esistere come libero arbitrio umano in cui si esercita l’azione della responsabilità dell’io in ogni situazione ambigua. Non si dimentichi che ogni motivo poetico è un elemento che muove, ma è anche qualcosa che è mosso. L’oggetto, e la ragione, di ogni poesia è qualcosa che è scelto nell’ambito della propria ambiguità sostanziale. Quella che si suol definire come forma poetica non è altro che l’esito di una scelta, nel campo della propria probabilità espressiva che si svolge a tutto campo, di quella che io chiamo la sua raggiunta improbabilità: cioè la lectio del proprio testo, che mette fine da parte dell’autore al gioco del probabile linguistico ed espressivo della sua elaborazione nella raggiunta e impossibile ulteriore manipolazione del testo. Si chiude l’enjeu delle probabilità da parte dell’autore, un vero e proprio spossessamento delle sue attribuzioni specifiche e della sua responsabilità di creatore, divenendo egli non altro che il lettore, forse anche nemmeno il più autorizzato, di un testo più oggettivo ormai che soggettivo, mentre il campo ermeneutico del probabile insito nella polisemia di quel testo si apre a ventaglio nel lettore. Voglio dire che il testo continua nella sua azione pragmatica interna trasferendone gli impulsi, a fare e cioè ad essere, nel ricevitore del messaggio. E lì che la polisemia del senso poetico diventa pluralità ermeneutica ed emotiva: cioè di nuovo motiva situazioni diverse. Lo stato di attività del testo si traferisce in una nuova decisionalità e responsabilità individuale. L’ethos implicito di quel testo diviene un’etica del comportamento del suo fruitore. L’àisthesis, il movimento percettivo, è compiuto.
II
Esiste la poesia “europea”? mi si domanda, e io rispondo che la poesia, senza aggettivi, esiste dove esiste la poesia, a Firenze come a Berlino o a Tombuctu. Hölderlin è mio come Leopardi. Non credo tanto alla poesia come espressione del paese globale quanto come destino salvifico dell’uomo come tale, uguale dappertutto, ma diversificato dalle sue condizioni storiche e dalla sua diaspora primordiale dopo la confusione delle lingue di Babele. Occorre ritrovare nella diversità qualche segno e forse l’eco di una perduta lingua divina, nei cui accenti forse irritati Adamo pure udì pronunciare la sua condanna. I rapporti tra una poesia che nasce in un luogo e una poesia che nasce in un altro luogo sono rapporti tra una singolarità e un’altra singolarità in cui l’indirizzo di partenza è diverso, ma quello di arrivo è lo stesso: l’uomo, la cui sofferenza e la cui felicità può essere, anzi è, diversa, ma per raggiungere, seppure in condizioni diverse, una sofferenza e una felicità comune, che è quella inderogabile dell’uomo sulla Terra, in qualsiasi parte della Terra egli, l’animale aristotelico, viva, a qualsiasi etnia e a qualsiasi diacronia storica appartenga. E semmai la storia, nella sua perduta sincronia, che ne diversifica le ragioni, più che la stessa geografia.
Alla constatazione di Flaubert: «Madame Bovary c’est moi», rispondo la constatazione di Pessoa: «Io sono Europa», ma Pessoa può dirlo trasferendo e nascondendo la propria calcolata eterogeneità nei propri eteronimi. Cambia il nome dell’io, di un io scisso, in una disseminazione delle proprie qualità apprensive e inventive, per raggiungere la propria identità nel diverso. Perché è il diverso che identifica quello che è l’unico destino dell’uomo, quello di essere se stesso nelle varie apparenze e nelle varie condizioni in cui il proprio operare mira a raggiungere quello che l’uomo è, il segreto se stesso della propria evidenza. L’uomo è un evento unico e irripetibile sulla Terra, al di là delle varie somiglianze che possono avvicinarlo diversificandolo a ogni altro suo simile: la vera ragione della poesia è questo atto continuo di identificazione di quello che altrimenti l’uomo non saprebbe di essere.
E l’incontro tra poeti diversi e tra poesie diverse è un continuo confronto tra identità irripetibili. L’incontro con l’altro, e con l’altro da sé, è possibile solo se esiste questa possibilità di scambio tra identità irripetibili. Il dono, che è il proprio della poesia, consiste in questo atto di «alterazione» dell’io in presenza dell’altro: che è una forma, la più vera, della riconoscenza e del riconoscimento reciproci. Anzi io arrivo a dire che l’uomo dona quello che non è, e che non ha, per arrivare ad essere quello che è, e per possedere veramente, nell’altro, quello che non ha. È allora che egli vede quello che altrimenti non potrebbe vedere. La visione è strappata all’invisibile e, come mi è già capitato di dire, è in questa operazione quasi furtiva nella verità, che è invisibile, che il visibile, cioè la realtà, prolunga o accresce le proprie possibilità di essere quello che è, di divenire quello che deve essere. Il concetto stesso di realtà altrimenti è destinato a consumarsi con l’uso quotidiano che ne facciamo. Mancherebbe la sorpresa che aiuta a vivere il sorprendente insito in questo rapporto tra il visibile e l’invisibile, tra il reale e il vero, tra il rapporto perturbante e il promettente; che non è detto sia promesso a priori. L’uomo deve metterci qualcosa di suo.
Anche l’Europa è qualcosa che, più che essere, avviene, è qualcosa che deve essere, attraverso la tragicità della storia che ha attraversato nei secoli e che noi, suoi cittadini futuri, abbiamo conosciuto, nel nostro secolo, nei suoi aspetti più drammatici e inaccettabili di offesa alla persona umana. La storia si è fatta tanto più veloce nella sua ambiguità di fondo, nei suoi meccanismi deterministici, e all’ingiustizia e all’orrore che abbiamo vissuto non possiamo che apporre la nostra bona voluntas, ed è la poesia il mezzo misterioso a cui attingere questa aqua fontis rigeneratrice, nel mistero del suo battesimo tra innocenza e colpa.
E concludo queste mie brevi e forse stravaganti diva- gazioni su quello che potrà o potrebbe essere la poesia «europea», di cui i semi sono ancora preda del vento, seppur nati dai fiori, e dai dolori multipli, radicati nella sua storia, nelle sue divergenze, trascrivendo una mia poesia originata negli anni Ottanta durante una visita a Dresda, quando ancora il Muro separava innaturalmente le due Germanie e l’Europa stessa languiva nella minaccia atomica della guerra fredda, oggi che l’Europa è la nostra speranza. E la terza parte di un trittico intitolato Tristezza di Europa, e che ha come sottotitolo A Dresda, cogliendo una margherita per E. sul prato digradante verso l’Elba. Ricordo ancora questa bellezza straziata che aveva l’aspetto, e la suspence innaturale, di una città metafisica, con alberi cresciuti come un giardino surreale che si intravedevano fitti dalle finestre all’interno dei suoi palazzi sventrati dalle bombe delle loro viscere architettoniche, e di cui pur tuttavia si innalzavano ancora i muri perimetrali delle facciate, quasi a racchiudervi e preservarvi la visione di ciò che può la follia umana, quando poi vidi sulla riva erbosa e digradante dell’Elba intatto il Palazzo Giapponese pensai che quello che c’è di assurdo nella stessa sopravvivenza umana è proprio la sua più strana promessa dell’indistruttibilità della speranza. Credo quia absurdum...
L’Elba sotto il Palazzo Giapponese
scorre cupa come erba, indistinguibile carezza che dirupa l’uniforme col diverso delle orme che calcarono
l’incerto della storia incespicando, riprendendosi informe, quasi in maschere
e ghigni che ora ghignano, al passato o al futuro?, se l’oggi è questo, maschera è appoggiato su amore: lo corrode il peso che non pesa, il grido che non piange, e non piange perché nemmeno grida. la morte che più a lungo lo accompagni e dimentichi il passo che diviene acqua, l’Elba, erba, quanto non trattiene che avviene, o non avviene, e non diviene, ¬ top of page |
|||||
Semicerchio, piazza Leopoldo 9, 50134 Firenze - tel./fax +39 055 495398 |