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Poesia afroamericana 
di Carolivia Herron


Filologia sovversiva: il caso dell’Afro-America

Filologia è amore della parola letteraria dell’origine, amore del linguaggio culturale da cui derivano le arti letterarie contemporanee. Filologia è sovversione, è il metodo più efficace e penetrante per convincere i classicisti, e gli anglisti, e i sostenitori dei canoni letterari, e perfino i radicali teorizzatori letterari francesi, che è venuto il momento di includere scrittori afroamericani come Richard Wright e Toni Morrison nel mondo letterario di tutti.

Per l’Afro-America esistono due fonti per il philologos, due fonti della parola letteraria originaria, due linguaggi culturali da cui deriva l’arte letteraria afroamericana: il mondo dell’Africa e il mondo dell’Europa. Lo studio di queste parole procede sotto due grandi afflizioni: il mondo dell’Africa è sostanzialmente sconosciuto, e quello europeo è sostanzialmente disconosciuto e inaccettato. Nella mia recente visita in Africa centrale, a Lubumbashi e Kinshasa in Zaire e Brazzaville in Congo, ho scoperto il fondamentale e incontrovertibile livello psichico delle interconnessioni culturali fra Africa e Afro-America: interconnessioni che ripetutamente mi era stato detto che non esistono. Eppure per molte serate in villaggi fuori da Lubumbashi io sono stata colpita dai modi in cui l’attacco e la caduta di discorsi che non potevo capire, la maniera in cui i giovani stavano in piedi accanto ai muri delle loro case e parlavano la sera, il movimento delle loro espressioni facciali mi trasportavano improvvisamente in estate, alla casa di mia nonna nei sobborghi di Washington D.C. Sono convinta che c’è una profonda connessione fra quella scena in Zaire e le serate afroamericane negli Stati Uniti, ma nessun antropologo o profeta ha finora spiegato questa connessione – perciò, molti di essi non ammettono che esista. Queste interconnesioni africane ispirano la letteratura afroamericana contemporanea, ma al philologos, la parola Africa è sconosciuta.

Il philologos d’Europa è disconosciuto e inaccettato. Phillis Wheatley (c. 1754-1784), la giovane schiava africana portata a Boston nel 1761, la cui poesia fondò la letteratura afroamericana, aveva una profonda familiarità con l’epica omerica. Presa come un compagno per Susannah Wheatley, educata a leggere e scrivere sia inglese che latino dalla figlia della famiglia, Mary, Phillis Wheatley mostrò una precoce affinità per l’epica omerica tradotta in inglese da Alexander Pope, e lesse poesia latina nell’originale, e perciò realizzò numerose traduzioni dalle opere di Ovidio. I poemi omerici erano il suo libro preferito, e mediante il suo dialogo con loro ella espresse il suo iniziale desiderio di creare un’epica africana o afroamericana. Una delle prime poesie di Wheatley, To Mecaenas, assume l’epica classica greca e romana come il contesto in cui rivelare il proprio desiderio di creare grande poesia epica africana.

Il desiderio di raccontare le storie epiche dell’Africa nel Nuovo Mondo e di affermare delle interconnessioni con il philologos dell’Europa è un aspetto fondamentale della letteratura afroamericana ma è praticamente disconosciuto e inaccettato. Sembra non esserci nulla di più sorprendente, per classicisti e afroamericanisti allo stesso modo, di una dimostrazione degli effettivi rapporti classici con la letteratura e cultura afroamericane. Mentre i sovvertitori più radicali dei canoni letterari tradizionali insistono sul loro diritto di studiare la periferia della letteratura – le esclusioni delle letterature del terzo mondo, le donne, generi irregolari come la narrativa degli schiavi – per la letteratura afroamericana l’istanza più radicale che possiamo avanzare è che a Phillis Wheatley piaceva leggere poesia latina, che l’epica di Melvin Toson, A Gallery of Harlem Portraits, è sviluppata strutturalmente come i poemi omerici, che nel poema di Derek Walcott l’eroe Gregorias ha ricevuto il suo nome greco a causa dell’ammirazione di Walcott per Omero, che esiste un intero sottogenere di letteratura afroamericana che ha la Commedia di Dante come modello, che c’è un genere postbellico di epica afroamericana modellata su Milton, Shelley e altri, che se la letteratura appartiene a chi la usa e la ama, allora Omero, Virgilio, Dante e Milton – questi simboli del philologos dell’Europa – appartengono all’Afroamerica. Inoltre, la mera descrizione delle interconnessioni filologiche fra classici europei e letteratura afroamericana è un metodo politico per avvicinarla all’interesse e alla considerazione di chi detiene il potere degli elenchi di letture canoniche.

Io non posso persuadere i miltonisti a leggere epica africana saltando sopra e sotto la tavola e gridando che dovrebbero leggere Mwindo o Sunjiata. Ma con strumenti filologici posso dimostrare che l’epica orale africana Ham-Bodêdio fu composta in un modo che illumina quello in cui Milton scrisse in suo Paradise Lost. I miltonisti sono troppo curiosi di Milton per non partecipare a ricerche erudite come questa – sono spinti dal proprio amore per Milton a prendere in considerazione l’epica africana.

Questo è il mio metodo filologico per unire il piacere con l’impegno politico negli studi letterari. Io leggo l’epica perché mi piace – classica e africana, afroamericana e latinoamericana e rinascimentale. E leggendola, identificando e analizzando i rapporti nel linguaggio, nella psicologia, nelle convenzioni, nelle fonti sono in grado di sviluppare una ricerca che metta di fronte l’avere e il non avere della letteratura. Il metodo con cui Ishmael Reed nel XX secolo discute la tradizione europea del Rinascimento presenta delle affinità col metodo con cui Apollonio, ad Alessandria nel III secolo a. C., altera gli assunti fondamentali dei poemi omerici. L’inclusione di un elemento radicale femminile, da parte di Gloria Naylor, in Linden Hills, il suo racconto che prende a modello l’Inferno di Dante, presenta una discussione stimolante e – voglio insistere – estetica- mente attraente sulla natura dell’arte occidentale.

La lista delle opere interconnesse è inesauribile e profonda e induce a chiedersi: «E dopo?». Il dopo per la letteratura afroamericana è per tutti noi il considerare che rapporto ha avuto con noi in ogni tempo. Se si vuole una letteratura contemporanea con profonde e ineludibili interconnessioni con la filologia classica, la abbiamo. Se si vuole una connessione letteraria completamente nuova con le culture letterarie extra-europee, la abbiamo. Le due parole, Europa e Africa. Come scrive Derek Walcott in Un grido lontano dall’Africa,

 

Io che sono avvelenato dal sangue di entrambi, 

Dove devo rivolgermi, diviso nelle vene?

Io che ho maledetto

il funzionario ubriaco del governo

                  [inglese, come scelgo

fra quest’Africa e la lingua inglese che amo? 

Tradirle entrambe, o render quel che han dato?

 Come guardare un simile massacro e

                 [rimanere freddo?

Come lasciare l’Africa e vivere?

 

(Derek Walcott, Collected Poems, 1948-1984, New York, Farrar, Straus, and Giroux 1986, p. 18).


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