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«How beautiful it is… (?)». Epifanie del lavoro nella poesia italiana di oggi
Di Fabio Zinelli

 

“Questo sterrare è un lavoro che potrei fare
sempre. Per questo lavoro è necessario
resistenza e costanza alla fatica, è necessario
lavorare sempre all’aperto e tanto l’odore della
terra scavata e quanto i colori della terra nuova
mi portano una grande tranquillità”.

Luigi Di Ruscio, Palmiro

Cominciamo con questo passo di Luigi Di Ruscio (1930-2011), un po’ come omaggio al protagonista di una vita irripetibile che vede il bracciante di Fermo, diventato operaio metallurgico in Norvegia, diventare a Oslo anche scrittore e soprattutto poeta. Da un lato c’è l’opera di Di Ruscio che, come scrive Massimo Raffaeli, mette in scena il conflitto, tipico della Modernità, tra Storia e Natura, in cui, «all’origine della scrittura sta la sensazione di una rovinosa caduta nel mondo». La sconfitta del poeta, la cui condizione è quella di «un individuo escluso e assoggettato», è dunque pur sempre riscattabile come figura di un mito novecentesco di lungo corso (la Caduta). Quando però per l’uscita dal Moderno più di un mito è rimasto parcheggiato sull’autostrada del Novecento, il poeta ci ha perso forse più di tutti. Anche all’interno del proprio campo di azione: da aristocratico delle lettere ne è diventato (in termini editoriali) il proletario. Perché tocca l’insieme dei punti di vista formulati nelle pagine che seguono riguardo il tema sociale per eccellenza, quello del lavoro, è essenziale tenere presente qual è oggi la posizione sociale della poesia. I poeti hanno da sempre, ma oggi in particolare, un rapporto diretto con la natura precaria dell’oggetto lavoro. Non tutti i ventotto poeti che si leggono nelle pagine seguenti hanno una collocazione ‘sicura’ nel campo delle professioni culturali/intellettuali. Alcuni lavorano poi al di fuori queste talvolta non hanno una qualsiasi situazione di stabilità. D’altra parte, se abbiamo citato il passo di Di Ruscio è perché illustra una situazione chiave che abbiamo voluto mettere in evidenza nella preparazione di questo numero della rivista. Con una sintassi non levigata, cocciutamente primitivo-francescana (per la funzione strutturante di è necessario, la prima volta con accordo ‘sbagliato’ rispetto al sostantivo femminile che segue; per la coordinazione ‘iperscolastica’ tanto ... quanto) il passo può servire come perorazione in favore dell’aderenza di una frase scritta alla bellezza liberatoria di un gesto reale. Il gesto dello sterratore sorpassa quella che è (aristotelicamente) la sua causa finale, cioè lo scopo e il fine pratico in vista del quale si svolge un’azione produttiva. Il fine dello sterrare di Di Ruscio è la felicità propria di chi tale gesto compie nel momento di compierlo. E dato che Di Ruscio è ‘anche’ uno scrittore, il fine ultimo di tale gesto è ‘anche’ la scrittura. Con la perfezione di un classico ha scritto, aristocraticamente, la stessa cosa W.H. Auden nelle sue Horae Canonicae (1949-55): «You need not see what someone is doing / to know if it is his vocation, // you have only to watch his eyes: / a cook mixing a sauce, a surgeon // making a primary incision, / a clerk completing a bill of lading, // wear the same rapt expression, / forgetting themselves in a function. // How beautiful it is, / that eye-on-the-object look» (Sext). How beautiful it is… Auden celebra un elogio dell’attenzione. L’occhio che aderisce all’oggetto trasformato dal proprio lavoro parla di una serietà che è data come un valore immutabile ma che si trova a brillare nel buio di un mondo in cui non esistono più le ‘ore canoniche’ che misuravano il tempo cristiano nell’operosità delle città medievali prima che – lo ha ricordato Jacques Le Goff – l’invenzione dell’orologio contribuisse alla nascita del tempo del capitalismo e al sistema di cronometraggio della fabbrica fordista. Il comunista Di Ruscio e il ‘conservatore’ Auden descrivono gesti che prevedono la possibilità di una realizzazione di sé. Sono gesti ‘etici’, corrispondenti cioè a un valore ben radicato in un sistema di valori storicamente dato (e parliamo qui di valori di lunghissima durata). Anche le poesie che seguono tentano di comporre una riflessione etica. Anzi, la loro forza, leggendole come un insieme, è di non sottrarsi alla considerazione dei limiti e delle possibilità di realizzazione del bene individuale e del bene comune. Ma, in parte perché la situazione delle professioni è assai degradata coinvolgendo e a volte avvicinando chi svolge i mestieri più ‘umili’ (più esattamente: quelli per cui il diritto di compensazione dovrebbe essere più alto) e chi si trova nel precariato anche dopo una lunga formazione all’esercizio di una professione ‘intellettuale’, in parte perché tra le funzioni storiche della poesia c’è quella di testimoniare del bisogno e della sete di giustizia, succede che in alcuni testi è chiara la tensione ad uscire dalla sfera argomentativa dell’etica per richiamarsi, senza mediazioni, ai fondamenti stessi della vita morale, alle condizioni non negoziabili del bene, alle uscite verticali della lotta e dell’utopia. 
 Invitando un certo numero di poeti di generazioni diverse e di ispirazione anche lontana a confrontarsi con la riflessione proposta in questo numero di Semicerchio, la regola numero uno era di non servirsi di metafore prese al mondo del lavoro per parlare frontalmente della propria scrittura, ma di parlare invece del lavoro di per se stesso. Insomma, si trattava di occuparsi dello sterrare di Di Ruscio e non del digging di Seamus Heaney con la pur memorabile descrizione dello scrivere come uno scavare con la penna (ad imitazione del gesto del padre curvo a scavare in giardino con la zappa sancendo così una sorta di patto tra i mestieri e le generazioni). Naturalmente, siccome perfino lo sterrare di Di Ruscio è, davanti ai nostri occhi, prima di tutto un gesto scritto, è normale che passino per le fessure dei testi molti riferimenti alla scrittura. La penna è stata veramente un attrezzo da lavoro, e tanto di più lo è il computer oggi, attrezzo e insieme ‘luogo’ di lavoro. Diamo qui di seguito una traccia di lettura dei testi raccolti, servendoci, talvolta, di considerazioni rubate agli scrittori stessi nella breve corrispondenza seguita all’accettazione del nostro invito. La serie è aperta da un sonetto di Mariano Bàino: perché è un testo in ‘bianco e nero’. L’effetto di straniamento tra la scena descritta (scugnizzi alla Sciuscià si tuffano in acqua alla ricerca di una preziosa monetina), che ha luogo circa negli anni ’50 ma si svolge insieme all’interno di una dimensione mitica legata alla rievocazione della leggenda napoletana di Colapesce (il giovinetto che diventa una creatura marina), ‘colora’ l’evocazione del lavoro marginale e minorile di un’ambigua nostalgia. La patina neorealistica allestisce la trappola perfetta e dialettica tra un romanticismo della memoria e l’anacronismo di un rapporto classisticamente orientato: l’incontro impossibile tra le classi è infatti in quell’elemosina tutta da conquistare e dall’apparenza ludica. Passiamo ad uno spazio testuale non solo tutto al presente ma perfino ‘in diretta’ con la poesia di Andrea Inglese. La misteriosa (ma non ambigua) «zona di sicurezza», quella del lavoro oltre il tempo contato per il lavoro, spazio privato invaso dal lavoro che continua e in cui ci segue come un’ombra l’alienazione, è una zona in cui domina un presente senza uscita. L’effetto è potenziato dall’incipit illusionistico del testo: «In questa poesia / avvenimenti accadono alle persone», dove le parole spostano le cose (come in Perec). La meditazione bilingue di Elisa Biagini sui diari tenuti da Simone Weil durante la sua esperienza di lavoro in fabbrica nel 1934-35, considera i sintomi dell’alienazione (la spossatezza che abrutisce fino a togliere la forza di pensare), e soprattutto i danni del taylorismo che nella frammentazione della catena lavorativa priva l’operaio del senso e della gioia della creazione. Se lo spazio del racconto è tutto implicito in queste poesie allucinatorie che scavano fino a conservare soltanto la forma concava dell’esperienza, il racconto è invece tutto alla luce del sole (il sole mediterraneo) nella prosa che Franco Buffoni ha costruito attorno a poesie già pubblicate (in Noi e loro, Roma, Donzelli, 2008; Roma, Parma, Guanda, 2009). Il lavoro è catena di situazioni storiche e ‘epifanie’ che vanno dallo scavo delle rovine di Fregellae (secondo la mappa di un’archeologia identitaria alla Heaney che diventa qui archeologia del desiderio) ai lavori degli immigrati nell’Italia di oggi. Sono i generous days, la liberazione di una forza che in poesia diventa whitmaniana, liberazione del desiderio. E non va dimenticato che in tutto questo l’autore stesso lavora, e duramente, tenendo corsi universitari con il suo pesante amplificatore all’interno di un capannone. Il tema della migrazione è al centro della poesia in cronaca di Flavio Santi, viaggio nel ghetto di via Anelli a Padova (a tutti noto dalla costruzione nel 2006 di un ‘muro’ che isolava dal resto del quartiere le palazzine degli immigrati), viaggio negli umori e nel linguaggio. Vi si trova uno sguardo sul Terzo mondo che ormai abita in Italia messo a fuoco in un modo che non può non richiamare Pasolini: per la forma della poesia articolo, per la presenza ossessiva dello sfondo ‘indigeno’/cattolico delle pasque, per la mimesi delle voci, per l’impasto linguistico «di merda e gemme d’onice», cioè di sublime e di creaturale. Qui il riferimento al lavoro è nell’importazione della manodopera edile la qual manodopera però, con una punta di salutare ironia tutta dalla parte dell’immigrato, se ne sta, di fatto, inerte a consumarsi nelle catapecchie e nella ruggine del ghetto. Cambia brevemente il quadro con la poesia di Luciano Cecchinel dove in un provinciale negozio/museo americano si esibiscono e vendono vecchi attrezzi da lavoro, resti di un’epopea palpitante ma nemmeno del tutto cancellata nell’azzurro irresistibile del nuovo mondo. Sono oggetti che testimoniano ‘di quando gli immigrati eravamo noi’, della manodopera, anche italiana, che ha costruito gli USA e già raccontata da Cecchinel in Lungo la traccia (Torino, 2005), libro con accenti ‘pascoliani’, alla Italy. Voci dei migranti di oggi in Italia, a Genova, tornano nei testi di Massimo Sannelli, spostate però su un piano di scrittura in grado di grammaticalizzare temi come la spossatezza dei muscoli (si torna dunque a Simone Weil altrimenti importante per la poesia di Sannelli), la dialettica hegeliana del servo/padrone, la migrazione, il desiderio creaturale, le beatitudini evangeliche, insomma un fitto insieme testuale riguardo il quale non è sbagliato parlare di una forma di ‘mistica civile’ che tiene insieme, ammorbidisce i contrasti nel gesto inglobante e circolare della scrittura. La descrizione di un gesto è atto fondante anche nella poesia in prosa di Giulio Marzaioli, autore che da Cavare marmo, 2008 (dove si legge un’illuminante parallelo tra scrittura e ingegneria, nella comune «intenzione, appunto, di attraversarla [la realtà] e conoscere così nuova realtà») al recente Quattro fasi (per cui si rimanda alla recensione di Massimiliano Manganelli in questo numero) ha spesso posto il lavoro al centro della propria attenzione. Nell’avvolgente intreccio tra l’opera (infamante) di cancellatura nella citazione svetoniana in esergo, l’opera di chi con miscele pericolose lava (cancella) le cisterne della petroliera e chi scrive con inchiostro nero come petrolio, la funzione lavoro è perfettamente ripartita tra gli attori che abitano la pagina. Il ‘resto’ comune è l’ironia per cui comunque «le cisterne le lavano loro» e che sancisce che l’accadere del lavoro ‘nel testo’, sia pure per perfetta identificazione col lavoro ‘del testo’, non porta in sé tutto il recupero del dato reale. È invece un gesto che suggerisce dall’esterno, un gesto per analogia quello delle due brevi poesie di Italo Testa: ludico e pedagogico, mimesi e realizzazione del lavoro, quest’ultima, in classe, quasi con effetto di incantamento per un mestiere di cui si crede sempre (a torto) di sapere già tutto.
Da qui iniziano testi che (per propria definizione degli autori) si pongono come in parte diagonali rispetto al tema proposto. Luigi Socci, che di mestiere fa il rappresentante di commercio, mette in scena un’opera-sogno, dove impiegati, consumatori/clienti sono tutti insieme caratteristi e (modesti) protagonisti. La dicotomia ossessiva e dialogica tra saper fare/poter fare, che attraversa la sequenza di quartine modulari di Alessandro Broggi allude, rimossa ogni traccia di contesto, al bivio forse di una conversazione o di un’intervista invisibile (Broggi, in Nuovo paesaggio italiano, Milano, 2009, ha composto una serie di testi che funzionano quasi come altrettanti script per brevi video-interviste a schema fisso in cui un personaggio, uomo o donna, descrive in poche frasi la propria vita professionale o sentimentale). L’apparente realismo, di stampo quasi ‘lombardo’ dei primi due testi di Alessandro de Francesco, è annullato dal terzo dove del tempo di lavoro abbiamo riflessi percettivi, segnali in una visione che si arresta al di qua del sentimento del presente: è invece forse il ricordo di una visione del tempo dell’infanzia marcata dal vuoto di un’esperienza (l’esperienza della vita adulta, cioè del lavoro) che ancora non le appartiene. Da una raccolta in preparazione intitolata al pittore surrealista belga Paul Delvaux, ai suoi giochi moltiplicativi, Marco Giovenale offre due testi che si possono immaginare, appunto, con effetto di eco: la voce in corsivo, declamando implacabile la realtà commerciale del ‘mondo reale’, commenta una scena in cui pare di vedere una baraccopoli notturna che riunisce persone di culture e antropologie lontane. Per la lettura dei tre testi di Laura Pugno una traccia fondamentale è fornita da un’osservazione dell’autrice: «Il lavoro forse è più il mezzo che il fine, visto che l’idea, lo sfondo, è quello di ‘comunità’». Il trittico appare infatti come una storia del mondo contadino: da una scena si direbbe preistorica e rituale (la caccia), si passa alla scoperta dell’agricoltura e alla sua affermazione in un mondo pienamente contadino. Siamo di fronte alla rappresentazione mitica di un ciclo da cui l’uscita è un gesto di congedo con annesso senso di una perdita («quello che è donato e che è perduto»). Non si tratta necessariamente di alienazione di qualcosa ma significa che un’armonia, un tesoro di conoscenze deve essere portato con sé altrove. Dalla corrispondenza con l’autrice, che per anni ha lavorato ai servizi culturali dell’ambasciata italiana a Madrid, risulta che l’abbandono di una ‘comunità’ è la condizione di una comunità in viaggio, quella dei giovani ricercatori e artisti che cercano lavoro fuori dall’Italia. Il bilancio può essere questo: «con gli anni comunque subisci una vera e propria mutazione, è più forte l’idea che la vita abbia se non un senso una struttura, il che è generalmente un bene». La tematizzazione del lavoro è in collisione verticale rispetto al piano referenziale nel testo di Vito Bonito che pare alludere a una situazione di lavoro minorile (come forse sancisce il riferimento a «i bambini di polvere»). Di fatto, la sacralità senza tempo delle invocazioni di una delle voci del testo, combinata con la formula giuslavoristica del titolo, ricade con forza sulle immagini più ‘pure’ e ‘a-referenziali’, che diventano così polisemiche, toccano una punta di disturbo e di intensificazione altissima della referenzialità. La sestina di Giovanna Frene (così battezza il suo testo l’autrice), innesca infine un’ars combinatoria dove ritorna ossessivamente un accadimento naturale come la pioggia, pioggia che non lava ma appesantisce il paesaggio e che, in fuga dall’occidente, allude a scenari geopolitici e economici di delocalizzazione industriale («fabbrica bene chi fabbrica ultimo»).
Il ritorno all’alveo dei mestieri con il cameo endecasillabico di Nicola Gardini, applica un velo di classicismo sul tema omerico-virgiliano della necessità (che ancora ossessivamente percorre le pagine di Simone Weil, che non solo cita in proposito l’Iliade, VI 458, ma ripete di continuo la frase delle compagne di lavoro: «parce qu’on a besoin de gagner sa vie»). E i mestieri sono quelli che troviamo nelle prose di Franca Mancinelli: dal semplice annaffiare il giardino, atto reale decostruito e rimontato pezzo a pezzo nel testo, al ‘flusso di coscienza’ della donna delle pulizie e di un’estetista, esempi opposti di odio/amore di chi fa mestieri ‘minori’ nei confronti dei propri clienti/padroni. La discesa nel corpo mimata in questi testi, il corpo che in poesia è un io soltanto un po’ più ‘fisico’, ha un’applicazione particolare nel testo di Franca Grisoni. Qui il corpo è un soggetto un po’ naif (si prenda, per es., l’esclamazione aca – ‘vacca, porca vacca!’ –, alleggerita nell’autotraduzione, e incontriamo così di nuovo la maschera del personaggio della böba, la stupida-intelligente della prima raccolta della Grisoni) che indistintamente, quasi senza scegliere, si prende quel che c’è da prendere di piacere e di lavoro (lavoro domestico nella fattispecie), al punto che, abituato a pensare tutto in termini di sensazioni, non riesce a immaginare la propria morte. Il campo percettivo del lavoro domestico e del disfacimento del corpo (del corpo del ‘padrone’) è al centro dei due testi di poeti diversissimi tra loro, Gabriele Frasca e Edoardo Zuccato, che hanno scritto della figura del/della badante. Asessuato è infatti il protagonista della ‘prosa’ di Frasca, ‘tavola’ secondo la definizione dell’autore, dove in un regesto di immobilità grammaticale ‘alla Pizzuto’ è evocato magistralmente anche l’‘altro geografico’ del paese di origine («rimpatriava con chi spartiva almeno dei pronomi. E un afflusso di lemmi che pareva li s’impiegasse a prova in un regesto»). Metafore consone alla poesia dei Methaphysical Poets compongono per l’anglista che è Zuccato una distopia dove vediamo soccombere definitivamente il gruppo dei padroni (noi). Si passa quindi al registro dell’invettiva con il testo di Jolanda Insana dedicato ai morti sul lavoro, alle morti bianche. Una controllata invenzione linguistica, per fuggire la semplice didascalia, e una crescente furia della lingua trasmettono un liberatorio movimento di indignazione. Restano invece molto vicine alla didascalia, alla lingua di una notizia d’agenzia, le poesie della serie Prec’arie di Alessandra Carnaroli che però con uso di anafore anche banali, ripetizioni proprie del parlato, sa imprimervi una pronuncia sentimentale e netta. Le immagini sono di una fisicità «tattile e minuta, casalinga e sinestetica; sceglie un piano metaforico che deve essere elementare nella sua originalità». Diventano così monologhi taglienti questi referti di morti bianche (e tale la si può considerare quella morte ‘per vergogna’ raccontata nel primo dei due testi), naufragi di barconi e altre miserie in un percorso a sud dell’Europa e dell’Italia, a sud del lavoro.
Cambiamo passo con il testo di Giancarlo Majorino che vale come ‘frammento’ vicino ai poemi Prossimamente e Viaggio nella presenza del tempo (Milano, Mondadori, 2004 e 2008). Contro la non troppo misteriosa allegoria della ‘Forbice’ sociale e della disuguaglianza, in un’atmosfera da resa dei conti con sfondo di grandi movimenti di massa, c’è spazio ancora per un gesto corale in direzione dell’Utopia. Sulla strada della lotta si pone la ballata brechtiana di Lello Voce, testo ‘da combattimento’, scritto e attraversato da impulsi (i versi di soli verbi, i cambi di ritmo) che quasi forzano a una lettura ad alta voce. Le riprese interne al testo instaurano un effetto polifonico, quello delle voci per una rivoluzione che spinga oltre le morti sul lavoro, oltre la morte del lavoro («hanno accecato il lavoro tagliato la lingua»). I resti al di qua di questa rivoluzione, mancata o a venire, sono apparenti negli haiku romagnoli di Giovanni Nadiani che valgono come cartelli di chiusura di altrettante imprese, da leggere insieme al rumore di conversazioni e riflessioni (dalla raccolta di aforismi dal titolo La Pipa di Flaiano) volutamente al limite del pensiero dell’‘uomo qualunque’, il cui ‘sale’ sta nello snidare la verità nascosta nelle evidenze banali espresse nella lingua di sempre. Il piano ‘antropologico’ è circa lo stesso che attraversa la poesia di Gian Mario Villalta che si pone come sobrio ripensamento di alcuni versi editi in «Semicerchio» 41/2 (2009) ma non ripresi nel volume successivo Vanità della mente (Milano, Mondadori, 2011). La diagnosi di quei versi, secondo i quali la radice del male, del disagio etico e della infelicità portata dal benessere, investe individualmente il soggetto, pare a Villalta ancora troppo ottimistica. Lo si poteva credere quando contavano ancora qualcosa i resti di un’antropologia passata (che aveva, tuttavia, ancora tutti i suoi anticorpi a disposizione), come quella che emerge nei Colloqui di Zanzotto con il ‘poeta-contadino’ Nino Mura dove le radici sembrano ancora sopravvivere anche alla distruzione ecologica e antropologica del cronotopo veneto. Quanto invece è realmente accaduto è stato l’arrivo della crisi e il dissolversi di questa possibile mediazione, la fine insomma «del contratto con la realtà». Dal nord-est ridotto a un paesaggio di non-luoghi ci parla la voce di Fabio Franzin, con i suoi testi in dialetto trevigiano (si noti che l’uso del dialetto non serve a ricercare effetti di mimetismo linguistico, è invece quasi psicosomatico: la lingua si ammala, come le persone). Franzin viveva della fabbrica come operaio, questo prima che la crisi lo portasse alla disoccupazione il cui dànno esistenziale (lasciamo stare quello materiale) non lo risarcisce nemmeno la poesia. Franzin si concentra dunque sull’antropologia di quella crisi, parla degli effetti sugli operai (i-non-più-lavoranti come efficacemente li battezza in una sua prosa Eugenio de Signoribus), colpiti (come i ‘padroni’ e naturalmente peggio di questi), non solo nel portafoglio ma, molto più crudelmente, nell’etica del lavoro. Persa quella, si perde perfino il senso delle generazioni e dello stare al mondo. Se fosse un film di Ken Loach, la storia finirebbe magari male ma ci sarebbe un po’ di vecchio sano moralismo per cui quello che resta è una solidarietà tra i lavoratori, sconfitti ma non umiliati nella dignità. Qui assistiamo invece al disfarsi del gruppo degli operai. I testi di Franzin sono accompagnati da una prosa e da una poesia di Fabio Pusterla che raccontano l’incontro/dialogo tra i due amici poeti e gli studenti di un Istituto Tecnico nel novarese. In versi lunghi e eloquenti, formalmente quasi un omaggio alla poesia meticcia e insieme classica di Derek Walcott (rappresentata quel giorno dal suo traduttore italiano Matteo Campagnoli), Pusterla tenta di salvaguardare, come in tanta poesia del Novecento, una disperata speranza, ricorrendo efficacemente a immagini dell’epica e di avventure per mare (il mare del poeta caraibico, che è emblema della Storia).
Con questo, l’enciclopedia dei temi non è completa. Manca, per esempio, il punto di vista del ‘padrone’, cioè quello vero che comanda, non, per esempio, il fatto che siamo tutti noi i ‘padroni’ di fronte ai lavoratori immigrati (che sono diventati i ‘servi’ hegeliani di cui non solo non possiamo fare a meno ma che diventano parte necessaria alla costruzione della nostra autocoscienza). Abbiamo pensato a quali autori potessero, in parte, soddisfare le esigenze rappresentative di un tale punto di vista, ma alla fine abbiamo rinunciato. Sarebbe stato forse impossibile trovare qualcuno che lo rappresenti in maniera genuinamente antagonista e autorevolmente. Dove si parla di crisi poi, varrà che quanto si legge anche in queste poesie riguarda in buona parte tanto l’imprenditore che l’operaio. Se c’è invece una cosa che emerge con una certa coerenza dai testi proposti è che ‘lavoro’ e poesia (al di là del fatto che poesia è ‘fabbricare’ con le parole) sono due mondi avvicinabili attraverso la condivisione di un numero importante di lemmi comuni. In entrambi contano infatti campi di azione e di riflessione quali lo studio e la gestione delle emozioni, la conoscenza del corpo umano (nella sua forma di corpo-energia lavoro e dunque anche di corpo che conosce, che soffre), e ancora, il rapporto tra gli altri e il soggetto, la dialettica tra dono e cooperazione. Sia in ‘lavoro’ che in ‘poesia’ è poi centrale il ruolo del linguaggio. Ciò avviene naturalmente, per la complessità delle reti di codici che questo è chiamato a reggere. Ma soprattutto avviene per la capacità che ha la lingua di creare potere, per il suo essere in bilico tra la sua infinita capacità generatrice e la tentazione o il sogno dell’esercizio di un potere assoluto. La poesia stessa, del resto, ha servito e può sempre passare a servire il potere. Qui, nei testi che proponiamo, poesia sta invece per una soglia di compensazione, aiuta a vedere chiaro in una zona conflittuale della realtà. Promette di dare le parole per pensarla quando anche noi rischiamo, nonostante tanta immersione nel reale, di trovarci come gli studenti di cui parla Pusterla che «non hanno detto le cose che volevano dire»

 


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