« indietro Denaro, lavoro e la bellezza impossibile Di Umberto Carpi
In: Semicerchio LV (02/2016) “30 anni”, pp. 208-210.
Dante non indirizzò le sue invettive contro le altre monete, bensì precisamente contro il fiorino: contro la moneta che si faceva denaro in senso moderno, non semplice mezzo di misura e di scambio, ma perno della circolazione, valore di riferimento per tutte le merci, dunque tendente ad assolutizzarsi e ad autoriprodursi. Il fiorino come Valore, come merce universale: aveva dunque ben intuito Dante (ma quanta spietata competenza e diretta esperienza già nel banchiere-poeta Monte Andrea!) la sua micidiale carica dissolvitrice dei legami che avevano tenuto salda la comunità dentro le mura della cerchia antica, restando vera l’osservazione di Marx per cui «l’avidità di denaro o brama di arricchimento significa necessariamente il decadere delle antiche comunità. Di qui il suo contrasto con esse. Esso stesso, il denaro, è la comunità, e non può tollerarne un’altra che gli sia superiore». Il medesimo Dante, del resto, con una delle sue più memorabili intuizioni poetiche – la forza disidentificante del denaro risolta nella condanna all’anonimato di prodighi, avari e usurai – aveva in certo senso divinato un assioma della futura critica dell’economia politica, l’esser cioè il denaro, in quanto ricchezza generale e risultato puramente sociale (e a differenza delle merciricchezze particolari, il cui possesso sviluppa aspetti specifici dell’individualità possidente, connotandola attraverso una sorta di sua oggettivizzazione nella determinatezza della cosa posseduta), interdetto alla relazione individuale. Forza disgregatrice, dunque, il denaro nella dantesca comunità antica: ma, al contrario, forza motrice di sviluppo materiale e intellettuale, forza unificante (sostanza per tutti e prodotto di tutti) in una moderna comunità caratterizzata dal lavoro diviso e salariato. Denaro-dissoluzione nelle società precapitalistiche e preindustriali, denaro-produzione nella società capitalistico-industriale: quel che al sofocleo Creonte risultava distruttore di città, al giovane Hegel dell’abbozzo jenese di filosofia dello spirito il denaro – pur in un contesto inquietante e angosciato – appare trionfalmente come la cosa universale che rappresenta tutte le cose, come forma dell’unità dell’infinita massa dei bisogni e dei lavori e dei loro sempre più complessi e inafferrabili rapporti di interdipendenza: il denaro insomma («tutti i bisogni sono riassunti in questa unità») è una grande invenzione. E d’altronde, se per il ceto dei borghesi «il valere e l’avere diventano sinonimi», per il ceto dei mercanti «il valore è moneta sonante».
Possibile una Bildung estetica, la formazione al bello, di un protagonista di questa fase storica, senza occultarne i dati strutturali di ceto e le Gesinnungen, i relativi modi-di-sentire improntati a «durezza dello spirito» e «totale spietatezza»? Non altra, a guardar bene, era stata la strenua scommessa ideologica dei Lehrjahre, non altro il rovello estetico ed etico della deutsche Klassik nell’ultimo scorcio del XVIII secolo con Moritz, von Humboldt, soprattutto con Schiller. Ma il punto di contraddizione non stava nell’onnipotenza del denaro: era bensì aperta una questione del vendere e del pubblico posta nei suoi termini essenziali, per esempio, da Goethe nel faustiano Prologo in Teatro con la richiesta di una vera e propria poetica del botteghino, e poi risolta comunque dallo Hegel delle Lezioni di estetica con l’autorizzazione all’uopo di un Talent im Schlechten (un «talento del brutto» comunque non più sensazionale almeno a far tempo dallo Schlegel di Über das Studium der griechischen Poesie, dove das Hässliche, il brutto, era stato legittimato come inscindibilmente correlato ad ogni moderna teoria del bello). Ma, a dir vero, il problema del produrre forme belle atte ad essere vendute e a suscitare il desiderio dell’acquisto – che è il vero porsi moderno del rapporto fra arte e denaro, cioè la natura dell’arte come specifica merce particolare – era stato perfettamente impostato dallo stesso Hegel, nei soliti decisivi frammenti jenesi, nei termini di moda e di bellezza eccitante, non più libera. Di ciò, comunque, ancora un cenno più avanti. E però ripeto, in conclusione, che il denaro poteva in sè apparire allo stesso Schiller, per altro severo censore della Brotwissenschaft (una sorta di versione scientifica dell’estetica reitzende Schönheit), come l’autentica divinità regnante sulla terra in un contesto apologetico del mercato capitalistico mondiale.
Wohl von größerm Leben mag es rauschen, Wo vier Welten ihre Schätze tauschen, An der Themse, auf dem Markt der Welt. Tausend Schiffe landen an und gehen, Da ist jedes Köstliche zu sehen, Und es herrscht der Erde Gott, das Geld.
Si può ben raccontare d’una più grande vita, dove quattro mondi scambiano i loro tesori, sul Tamigi, nel mercato del mondo. Mille navi approdano e salpano, c’è da vedere ogni meraviglia, e a dominare è il dio della terra, il denaro.
Certo nell’età greca a signoreggiare sul mondo degli uomini era stata ben altra divinità, la bellezza: malgrado fosse sopravvenuta – dopo il tempo aureo di Saturno – la fatalità del lavoro, si era trattato pur sempre delle fatiche di eroi e di semidei nella fase mitica, e nella fase storica delle fatiche di cittadini totali. Dunque, le condizioni per il regno della bellezza, per il primato delle Muse:
Drauf kam die Arbeit, der Kampf begann Mit Ungeheuern und Drachen, Und die Helden fingen, die Herrscher an, Und den Mächtigen suchten die Schwachen, Und der Streit zog in des Skamanders Feld, Doch die Schönheit war immer der Gott der Welt.
Aus dem Kampf ging endlich der Sieg hervor, Und der Kraft entblühte die Milde, Da sangen die Musen im himmlischen Chor, Da erhüben sich Göttergebilde!
Sopravvenne il lavoro, cominciò la lotta con mostri e con draghi, e cominciarono gli eroi, cominciarono i tiranni, e i deboli cercarono il potente e la contesa si accese nelle terre dello Scamandro: pure, la bellezza era sempre il dio del mondo.
Infine la lotta si sciolse in vittoria, e sulla forza fiorì la mitezza: fu allora che le Muse cantarono in coro celeste, fu allora che si alzarono le statue degli dei!
Ma, in questo 1803 dell’apologia della più grande vita londinese e del rimpianto della grecità, c’è un dio moderno che non ammette le deità antiche della bellezza e delle Muse: «l’età della divina fantasia / è scomparsa e non ritorna». E come potrebbe accadere altrimenti, se non è più concepibile quell’essere totale del cittadino, quella identità popolo (cittadini)-governo che era la condizione sociale ed etica su cui si fondava la bellezza classica, ma che aveva a sua volta, come condizione storico-materiale, il modo di produzione schiavistico, il lavoro degli schiavi? Qualcuno, è vero, pretenderà un giorno di identificare negli operai dell’industria gli schiavi dell’oggi e dunque la condizione per una moderna produzione-fruizione di libera bellezza: senza capire la sostanziale differenza per cui il denaro comprava sì lo schiavo e però il lavoro schiavo non poteva comprare denaro, mentre il denaro compera l’operaio il cui lavoro salariato può a sua volta comprare denaro. L’inettitudine estetica al bello classico è dunque originata dalla medesima scissione che trova nel denaro la sua storica chance ad un valore unificante (e, se vogliamo, ad una sua propria estetica, ma irreparabilmente del brutto, dunque rovesciata come vuole appunto la natura del denaro-valore in quanto inversione di ogni cosa, mondo sovvertito, non verrà d’altronde di lì a poco sancita la moderna morte dell’arte, fatta salva quella espressa dai commercianti olandesi del Seicento?): la scissione, ripeto, imposta dall’estrema, ottundente o parcellizzante specializzazione delle facoltà, cioè dal lavoro diviso e salariato. Il libero gioco, lo Spiel schilleriano che nel tempo di non lavoro dovrebbe consentire all’uomo moderno (in effetti ad una rara élite privilegiata di moderni classici non già separati, ma come concentrati e asserragliati nella esclusiva «società della Torre» immaginata da Goethe) di recuperare in libertà ed unità quanto l’individuo stesso ha perduto a vantaggio dei progressi della specie, è virtualità impotente rispetto alla realtà del lavoro: «gioca, che presto verrà il lavoro, macilento e cupo». La divisione del lavoro, la specializzazione per la produzione, il mercato, la moda, ecco l’intima forza disgregatrice degli individui, l’individuo mutilato e fatto a pezzi di Hölderlin, l’individuo inibito allo Spiel di Schiller: il quale da par suo già nel 1785 (ben prima dunque delle Lettere sull’educazione estetica così crucialmente postkantiane e prehegeliane, un autentico snodo nella storia del pensiero dialettico) aveva intuito, nella stesura originaria dell’Inno alla gioia – l’An die Freude poi così celebre e da lui però poco amato –, che la gioia «bella scintilla divina», vera prefigurazione di quel che sarà lo Spiel ovvero sua condizione necessaria, riunisce ciò che è stato separato, compone ciò che si è frantumato, insomma «i suoi incanti riannodano / ciò che la spada della moda divide». Il tempo di lavoro deforma a prescindere dalle ingiustizie sociali: nel sistema del denaro (dove col denaro si apre e si chiude il cerchio), ben oltre l’ossessione schilleriana per l’unilaterale specializzazione delle abilità meccaniche, viene infatti a sua volta prodotto come merce disumanata se, mi pare, resta più che mai convincente quella sentenza di Marx per cui «la produzione produce l’uomo non solo come una merce, la merce umana, ma lo produce, conformemente a questo carattere, come un ente disumanato sia spiritualmente che fisicamente. Immoralità, mostruosità, ilotismo degli operai e dei capitalisti. Il loro prodotto è la merce autocosciente e automatica, la merce umana». Nel tempo del lavoro diviso e salariato si formano belle le merci-cose, si sforma brutta la merce-uomo. Tutto ciò naturalmente va ben oltre la consapevolezza di Schiller: e però Schiller, con la sua ricerca di uno Spiel nel tempo di non lavoro su cui imperniare una moderna dialettica del bello, tentava una risposta estetica alle crude sentenze dell’economia politica di Ferguson e Smith. Altra cosa, di lì a pochi anni, la moda e la bellezza eccitante argomentate da Hegel come produzione di forma organica all’età vertiginosa del lavoro diviso e del lavoro di macchina, del mercato e del consumo, della suscitazione di bisogni artificiali in un contesto di non soddisfacibili bisogni reali, come arte dell’età dell’universale circolazione della merce assoluta: dove sono già, in nuce, le essenziali questioni estetiche dell’Otto-Novecento, le arti-non più-belle, la produzione di serie, il consumo e la deperibilità, cioè l’arte – ripeto – come merce parziale. È la grande via della riflessione classicista, che dalla Sehnsucht per i Greci giungerà fino al neoformalismo di alcune avanguardie, sulla possibilità di produrre forme belle nell’età deformante della forma denaro e del suo universale rovesciamento dei valori. Un’estetica strenuamente del bello, laddove l’epoca pareva fornire materia solo di contenuti brutti, pareva legittimare solo una registrazione del brutto: e in fondo, se l’economia politica contemplava il produttore solo rispetto al tempo di lavoro, ignorandolo come soggetto del tempo di non lavoro e affidandolo come tale a medici magistrati preti poliziotti, allora l’arte poteva ben venir tentata di aggiungersi alla schiera di questi sociali antidoti e di assumere, come contenuto descrittivo denunciante ma alla fine gratificante, l’infinita fenomenologia dell’orrido, dell’osceno, del ributtante, del grottesco, insomma del Brutto sociale. Sarà la laideur di Hugo e del romanticismo e del realismo, sarà la materia riassunta da Rosenkranz nella sua Estetica del brutto. Un’altra via, discendente da un rifiuto ‘romantico’ del capitalismo in apparenza radicale e in effetti regressivo, incapace di misurarsi coi meccanismi reali: dove il denaro è equivocato come bruttezza particolare fra le altre, non come il mobile motore dell’età della forma capitalistica di produzione, della universale mercificazione. ¬ top of page |
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