« indietro JACCOTTET-UNGARETTI, Jaccottet traducteur d’Ungaretti, Correspondance 1946-1970, Édition établie, annotée et présentée par José-Flore Tappy, Paris, Gallimard, «Les Cahiers de la NRF», 2008, pp. 245. Alla pazienza, che significa «aver resistito» con modestia, senza rivolta né indifferenza, è dedicato un recente scritto di Jaccottet su Morandi (Le bol du pèlerin, Morandi, 2001; trad. it. di F. Pusterla, La ciotola del pellegrino, Morandi, Bellinzona, Casagrande, 2007). La pazienza del contadino, del monaco, o del pellegrino, ivi evocata, assurge a paradigma di quella, talvolta dimenticata, del poeta e del traduttore. Se è vero, con il Kafka qui citato, che all’impazienza si deve la maggior parte dei nostri errori (e questo è quanto mai attuale, in una cultura dominata dalle molteplici sollecitazioni), la poesia e la traduzione, intese come vocazione alla conoscenza del sé e dell’altro, ben illustrano il lento e periglioso viaggio verso il riconoscimento e la comprensione, la cui mèta è l’itinerario stesso. E lo vede bene chi cura il volume: «le chemin, incertain et en constante évolution, importe autant que le résultat» (p. 18). Il viaggio simbolico è illustrato, in questo caso, dal duraturo sodalizio tra due poeti- traduttori, interamente segnato da un instancabile lavorìo sui testi: intorno ai problemi della traduzione francese della poesia e della critica di Ungaretti ad opera del giovane Jaccottet ruota infatti ‘pretestuosamente’ l’intera corrispondenza. Questa ha inizio, infatti, con il primo viaggio in Italia del ventenne Jaccottet e, segnata da numerose difficoltà logistiche, dovute ai continui spostamenti e cambiamenti di residenza di Ungaretti, non ha termine se non con la morte di quest’ultimo, instancabile viaggiatore, sopraggiunta al ritorno dagli Stati Uniti. È suggestiva allora la metafora della ciotola del viandante ad evocare, misticamente, la parola come symbolon: cibo condiviso, tra poeti in tempo di povertà. Pare esser questo, d’altronde, lo spirito profondo di una corrispondenza talvolta laconica, segnata dall’umiltà e la ritrosìa, quasi esclusivamente segnata da una paziente applicazione ai testi, e costantemente mossa dal rovello della ricerca del senso della parola. Se questi documenti «apparaissent au premier regard – nota la curatrice – dans leurs tâtonnements et leurs ratures – austères et dissuasifs», «derrière la rigueur du travail, on découvre deux créateurs aux prises avec la langue, qui partagent la meme quête de la justesse, une même conception éthique de la littérature, un même engagement dans l’écriture» (p. 18). Ed è proprio in seno ad una mistica poetica che Jaccottet evoca, nella Ciotola del pellegrino, la prefazione ungarettiana alla prima grande edizione francese dell’opera poetica Leopardi (1964), laddove si riconosceva, in due uomini profondamente segnati dal male del mondo, Leopardi e Pascal, un «uguale cuore». E la parola «cuore» – commenta Jaccottet – «che qui può sorprendere, può anche illuminare. Illuminare, soprattutto, la rapida allusione che ho fatto alla voce, all’accento della voce nell’uno e nell’altro [...]. Ciò che Ungaretti designa con la parola «cuore» voglio intenderlo come l’ardore percepibile appunto nella voce di questi due scrittori» (p. 20). Si tratta di un ardore che, quanto mai vivo nella sobrietà e nel pudore, fa della parola cerimoniale della poesia un fuoco capace di trasformare la vita in spirito; e l’esistenza in silenziosa e viva ‘resistenza’. Convinto del primato dell’applicazione sull’ispirazione, e certo di condividere questo principio col suo interlocutore, Jaccottet esita di fronte ad espressioni che rinviano in qualche modo all’intuizione poetica. Ci sia d’esempio un commento alla traduzione di Dunja di Ungaretti, quale appare nella lettera del 31 agosto 1969 (p. 201-202): «Indovinarlo: il me semble qu’en français, ‘deviner la stupeur’ ne peut signifier que, ou signifie d’abord, pour l’esprit: ‘découvrir tout à coup, sentir tout à coup’ [...] et que cela ne peut s’apprendre». La traduzione di «indovinare» con «interpréter» era stata corretta da Ungaretti – come ricorda in nota la curatrice – con «deviner», che non aggrada Jaccottet, donde il commento. Ungaretti, che redige l’intera corrispondenza nell’impeccabile francese appreso alla Sorbona durante gli anni di studio, e che segue il tutto con l’acume del poeta-traduttore quale lui stesso era, propone allora il verbo «saisir» (cogliere) e Jaccottet finirà per tradurlo, suo malgrado, con «frapper» (colpire). Incondizionata restò, in ogni circostanza, la fiducia di Ungaretti per il suo fedele compagno di viaggio: colui che non seppe intendere la poesia se non riflessa nell’anima altrui, elesse Jaccottet a suo testimone, incaricandolo di pubblicare in Francia la sua opera integrale. Ammirevole l’apparato critico del volume, ricco di notazioni e commenti. Preziose infine le introduzioni ad ogni nuova fase della corrispondenza, che coincide spesso con una nuova impresa traduttiva, di cui si precisano le circostanze e i pretesti.
Michela Landi (febbraio 2009)
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