« indietro Voce, voicing, corpo e testo-immagine: tra performance e installazione nell’epoca dei media digitali di Gilda Policastro In: «Semicerchio», LVII (2017/2), Uncreative poetry, pp. 8-12 I. Da quando esiste la stampa, leggere è un’attività silenziosa e solitaria: leggere un romanzo, ad esempio, è operazione che si compie nella nostra testa, con la voce interiore o quel suo “effetto” che i teorici americani chiamano voicing. Vi sono esperienze di letture collettive, ad esempio in occasioni celebrative, ma di solito la lettura avviene in solitaria, anche se non necessariamente nella cameretta tradizionalmente deputata. La poesia, viceversa, è costitutivamente orale, ci ricordano i più strenui sostenitori della spoken word in Italia, da Lello Voce alle ultime generazioni (il poeta veneto-albanese Julian Zhara, il performer veneziano Alessandro Burbank, il collettivo Zoopalco di Bologna, tra gli altri): nasce orale e ritorna ad esserlo anche dopo l’invenzione della stampa, in particolare con la diffusione dei media elettrici, in quel nuovo regime che si definisce di «oralità secondaria» a partire, in Italia, dalle teorie esposte da Gabriele Frasca ne La lettera che muore e arrivando a esperienze molto recenti, che si rifanno alla scena francese o angloamericana (ma anche alla poesia sonora italiana degli anni Settanta). La lettura ad alta voce non è solo un rito, ma una modalità intermediale, che convoca le arti più diverse, dal teatro alla musica alla videoarte all’installazione. Per un periodo, ricordava in occasione di un dibattito Sara Ventroni, in Italia hanno circolato «più performance che dattiloscritti». E qual è questo periodo? Grosso modo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Zero, in cui ai poeti era richiesto di saper leggere, stare sul palco, portare il proprio corpo sulla scena e renderlo disponibile all’incontro diretto col pubblico, anche nelle forme controverse (fischio libero e lavagnetta in pugno) dei famigerati poetry slam. Si era ancora prigionieri, in qualche modo, della retorica di Castelporziano, del poeta mescolato fisicamente con gli ascoltatori, proprio come nel festival-feticcio tenutosi sulla spiaggia laziale nel ’79, che nel suo farsi aveva provato a smentire la tesi di uno dei suoi stessi organizzatori, Franco Cordelli: ovvero che il pubblico della poesia coincidesse, alla fine, con i poeti stessi e che di una lettura poetica non potesse darsi un ascolto esteso e generalizzato come per la musica o altri tipi di esperienze artistiche. Quella che fu invece la scommessa di Simone Carella, anche con qualche sotterfugio da organizzatore trickster qual era: ad esempio invitare sulla spiaggia della Woodstock nostrana, tra un Allen Ginsberg e un’Amelia Rosselli, proprio una rockstar internazionale come Patti Smith. 2. La poesia, tralasciando Omero, gli aedi e i menestrelli, la poesia, intendiamo, pensata e scritta per un supporto cartaceo (o digitale, ormai) ha sempre avuto bisogno dell’interpretazione-matrice, ossia della lettura ad alta voce del proprio poeta-autore? O a partire da quando si è diffuso l’obbligo del reading, degli slam, della lettura come esecuzione del testo, quasi si trattasse di una “partitura”? E, soprattutto, se la tesi del testo come partitura può essere considerata una delle più innovative della neo e post avanguardia (del Gruppo 93 e di Tommaso Ottonieri in particolare), ha senso che in tale concezione il testo si leghi indissolubilmente all’esecuzione personale del singolo autore o non sarà, piuttosto, tanto più inverata, tale definizione, quanto meglio il testo riesca a svincolarsi dal suo interprete primario? Leggevano le loro poesie i poeti del primo Novecento, da T.S. Eliot a Ungaretti a Montale: le leggevano con un’intonazione variamente teatrale, una retorica pronunciata, un’attitudine generalmente estroflessa. Leggeva teatralmente Elio Pagliarani, nel secondo Novecento, con quei gesti che scandivano e modulavano la ritmica del testo, leggeva in modo altrettanto studiato, pur nella scelta il più possibile neutra della pronuncia e della scansione, Edoardo Sanguineti, che lavorava volentieri coi musicisti (da Luciano Berio a Stefano Scodanibbio a Andrea Liberovici a Aureliano Cattaneo), cui offriva i suoi testi perché ne facessero «ciò che volevano, rispettando la lettera delle parole», così Nanni Balestrini e tutti i poeti delle generazioni a seguire. È solo dalla fine degli anni Novanta, però, che si diffonde l’idea obbligatoria della performance come sapiente gestione della voce e del corpo da parte del poeta, ed è nei primi anni Novanta che, curiosamente, tale attitudine viene esibita soprattutto da poeti-donne. Vado a offrirne tre esempi, tra i più interessanti della scena performativa di quel periodo, tre esempi che sono, tra l’altro, emblematici di una tendenza ritenuta ormai storicizzata dalle stesse protagoniste, che hanno sempre più asciugato la loro lettura in pubblico, mutando, in contemporanea, la stessa scrittura. Sara Ventroni è poco più che ventenne quando inizia a partecipare a festival e a collaborare con musicisti (jazz o elettronici) non solo in Italia (Roma, Torino, Catania, Civitanova, Macerata, tra i primi e i tanti che si succedono negli anni), ma in diversi paesi europei: dal Festival internazionale di poesia di Zagabria a letture e incontri a Vienna (dove conosce la sua traduttrice tedesca Julia Dengg e l’artista Gertrude Moser Wagner), a Berlino, Lubiana, Rotterdam, Belgrado. «Ho ascoltato voci e lingue diverse. Ho ascoltato ogni genere di poesia. Ho osservato la presenza, la voce, i testi», ricorda Ventroni, che non è un’attrice e non interpreta se stessa sul palco (come accade ad esempio a Patrizia Valduga, a partire dal caratteristico abbigliamento di scena): la dizione è scandita, precisa, aderente, la voce allenata e modulata, ma non si tratta di recitazione o di esibizione spettacolare, semmai di una verifica del testo, della sua solidità e delle possibili risonanze, al di là della gabbia tipografica, costitutivamente limitata (e limitante). «Non sentivo sempre corrispondenza tra i versi e la voce. Provavo e capivo che l’estetica della pura vocalità non mi corrispondeva. Capivo anche che per scrivere, per finire di scrivere, avevo bisogno di ascoltarmi e sentire quanto di troppo c’era in quello che scrivevo. […] Per ogni mia ispirazione avevo bisogno di trovare una voce. Non mi esaltavo e non mi vergognavo. La scrittura non poteva fare a meno di una prova». Rispetto a quel periodo la posizione di Sara Ventroni non è sostanzialmente mutata, anche se il suo modo di leggere si è progressivamente adattato a un testo divenuto nei contenuti sempre più epico, sebbene formalmente meno poematico rispetto agli esordi del totemico ed eliotiano Nel gasometro (uscito per le Lettere nel 2006, dopo anni di letture in pubblico). Al movimento delle voci risponde ora una dizione più asciutta, meno modulata sulla teatralità intrinseca agli scambi dialogici presenti, ad esempio, nell’ancora inedito Le relazioni o nell’ultimo libro, La sommersione (Aragno, 2016). «Le letture sono state e continuano a essere il principale contatto con il pubblico e il più efficace strumento di ascolto del testo durante la composizione di un’opera: aiutano a essere impietosi, a togliere, a definire, a formare. Le letture fanno parte del processo di composizione piuttosto che di esibizione. Ma c’è chi intende il contrario. E non è un peccato mortale». 3. Anche Lidia Riviello esordisce in contesti precocemente performativi (sia pur non espressamente e nominalmente), antesignani della nuova modalità di lettura dal palco, molto diversa dalla dizione estroflessa di un’ampia tradizione novecentesca: «performammo tutti, appena fu possibile alla nostra generazione entrare nelle dinamiche e nei contesti della poesia sonora, della poesia visiva o elettronica e interagire con queste esperienze, in cui la componente della nascente fibra performativa era già in embrione. La mia “teatralità” nell’interpretare i testi era allenata da un tour sostanzioso di reading e improvvisazioni, tra cui le Sfide in versi tra giovani e poeti che si tenevano presso il locale Tuttifrutti su iniziativa di Filippo Bettini alla fine degli anni Novanta. Ma penso anche alla redazione, con Carlo Bordini e Giancarlo Ferretti, di una rivista elettronica bilingue (così si chiamavano allora), “Italian Poetry” (1995), in cui oltre ad accogliere e pubblicare testi di poeti italiani sperimentavamo nuovi modi di “leggere” in pubblico, tra linearità spezzata e performance». Quasi controcorrente rispetto all’emersione e all’esplosione della scena più propriamente performativa, anche Lidia Riviello tenta (e in misura forse maggiore rispetto a Sara Ventroni) una via diversa di scrittura, prima che di lettura, a partire dalla consapevolezza della distinzione tra voicing (inteso come “effetto di vocalità”, giusta la definizione di Culler) e testualità primaria (mentre lo slam, per sua natura e tradizione, tende a privilegiare l’improvvisazione o l’esecuzione con ampio margine di variazione, oltre a escludere dal campo delle possibilità performative l’accostamento ad altri strumenti espressivi, come il video o la musica): «negli anni ho pensato alla performance come verifica “in diretta”, cercando quasi di “riscrivere oralmente” con prove, studi e ricerche personali di esperienze (soprattutto statunitensi: Kennet Koch, uno per tutti), spezzando, minando e sfidando la tenuta del testo nel tempo attraverso il colloquio col pubblico, complice e non testimone passivo entro una dimensione tradizionalmente frontale». Anche le esperienze “vocali” di Riviello nei festival e in contesti italiani e internazionali sono numerosissime, da Romapoesia (di cui è curatrice e coordinatrice per diverse edizioni) a InVerse al Mulino di Bazzano (2009) al carcere di Volterra a Radio Tre fino alla Emory University in Georgia, ma a sorprendere, oltre alla varietà, è la precocità di tali esperienze, favorita probabilmente dalle ascendenze familiari: «sono figli di un poeta “performer” che ha molto lavorato sulla “messa in scena” e sull’“improvvisazione” e ho conosciuto e ascoltato fin dall’infanzia grandi voci, da Rosselli, Costa, Spatola, Pagliarani, Sanguineti a voci più giovani nel loro nascere come Frasca, Ottonieri, Bàino. Questa varietà di ascolto mi ha influenzato moltissimo, con la fatica conseguente di trovare una mia voce». Fatica passata attraverso esperienze e contesti non esclusivamente poetici, con quella fertile mescolanza di ambiti che è tipica della sperimentazione e delle aree di ricerca (ancor prima che la teoresi contemporanea le perimetrasse in luoghi e pratiche talvolta eccessivamente rigide e discriminanti con quella che altrove ho definito “sindrome di Albinea”, dalla città emiliana in cui si sono svolti gli incontri del gruppo Ex.it): «a partire dalla fine degli anni ’90 tutte le forme di “avances spettacolo” si nutrirono di pratiche e procedimenti solo in parte (e non nella massima) provenienti delle tradizioni delle neoavanguardie italiane e dalle loro ramificazioni e periferie. Penso a quello che è forse il festival dei festival e cioè Romapoesia (anno di nascita: 1997) che memore dei precedenti esperimenti di Milano Poesia (Festival Internazionale di Poesie e Performance, 1982) ospitò i più grandi interpreti e performer della scena italiana e (soprattutto) internazionale, finendo per declinarsi negli anni in Indiapoesia, Giapponepoesia, Russiapoesia, Poesia del Mediterraneo e aprendo le porte, nel 1998, a tutte le forme, lingue, tradizioni e interpretazioni della “parola performata”». Riviello propone infine una distinzione interessante tra performance pensata come tale e performance percepita: «le mie letture sono state ritenute performative (con una declinazione più o meno marcata e affermativa) per anni: dai primi inediti letti in pubblico al primo libro, Aule di passaggio (1988), all’ultimo di quella stagione, Neon ‘80 (2008). A partire dal 2012, ovvero dalle prime stesure e riscritture che hanno preceduto il mio ultimo libro, Sonnologie (2016), l’impianto testuale si è fatto più simile a quella che si viene definendo installazione che alla performance in senso stretto». La scrittura e la dizione acquistano in questo nuovo corso un senso che si distanzia dalla piacevolezza connessa alla dimensione performativa propriamente intesa: «le mie primissime letture erano già ‘disturbate’ interferite da quella scienza inesatta che era la performance. La voce e la performance non avevano l’obiettivo di assalire il testo ma di mediare, di spaesare, di disturbare: ecco, il gusto della mia performance sta nello spaesamento, nello straniamento, oggi raffreddatosi non per congelamento ma per “conoscenza” di nuove possibilità e modalità di esecuzione». 4. Anagraficamente di poco precedente è Giovanna Marmo, vera pioniera della lettura performativa in Italia, in alcuni dei contesti già nominati, dai grandi festival alle piccole o medie realtà su base inizialmente locale (come gli slam del collettivo torinese Sparajurij, da cui poi si sarebbe staccato uno dei più vivaci e innovativi performer della scena italiana e internazionale, Sergio Garau, tra i fondatori della LIPS – Lega Italiana Poetry Slam). L’opera di Marmo nasce da subito nel segno dell’intersezione tra le arti, interpretando in modo precoce e originale quella tendenza all’iconotesto volentieri poi percorsa da poeti coetanei, da Marco Giovenale a Laura Pugno a Alessandra Carnaroli e oggi quasi “di tendenza” (anche grazie all’uso e abuso delle immagini nei romanzi contemporanei, a partire da Austerlitz di Sebald). Occhio da cui tutto ride (No Reply, 2009) è tra i primi libri di poesia di questo ventennio a corredarsi di disegni, di mano della stessa autrice, che replicano la natura comica e infantile di una testualità scabra e apparentemente favolistica, con un segno straniato e perturbante che la dizione ad alta voce (e a memoria) rende nella sua pienezza espressiva: ciò anche attraverso il ricorso a inserti di vocalità asemantica e col supporto di una precisa gestualità cui Marmo andrà rinunciando nei testi a seguire, pensati ancora su uno sfondo visivo che si trasferisce però definitivamente dal paratesto (e dalla messa in scena orale) al solo tema (come nell'ultimo libro Oltre i titoli di coda, uscito nel 2015 per Aragno). Più recente è invece l’esperienza performativa di alcune autrici nate tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, tra cui si segnala Jonida Prifti per l’originalità della scrittura e della performance. Se i testi si caratterizzano per bilinguismo (l’autrice scrive indifferentemente in italiano e albanese) e influenze dichiarate come la poesia sonora (da Stratos a Lora Totino) e la scrittura verbovisiva di Patrizia Vicinelli, la performance si fa davvero estrema, accogliendo le rivisitazioni o deformazioni sonore del noiser Stefano Di Trapani (con il quale Prifti ha fondato il duo Acchiappashpirt nel 2008) e altre interferenze come la musica elettronica, il crossover e soprattutto l’improvvisazione scenica, in una tenzone tra parola e suono che si propone di superare l’aspetto definitorio e prescrittivo delle categorie tradizionali. 5. In un segno molto più radicale rispetto al ripensamento delle performer della generazione degli anni Settanta avviene la dichiarata rinuncia e opposizione alla performatività da parte dell’area di “poesia di ricerca”, che storicamente muove dal Gruppo Gammm, attivo in rete dal 2006, e arriva ai più recenti autori di una testualità pensata primariamente per la pagina, e anzi, per la condivisione digitale. Pur con qualche oscillazione terminologica e conflittualità interna, la nuova messa in opera della poesia, la dimensione orale che si perpetua nei reading e nelle presentazioni singole o collettive di quest’area, ha preso a definirsi «installazione», sul modello delle arti visive. Il capofila di questa nuova tendenza è Christophe Tarkos, poeta francese morto nel 2004 poco più che quarantenne, padre ideale (o fratello maggiore, per anagrafe) dei poeti di Gammm, da Andrea Inglese ad Andrea Raos a Marco Giovenale a Michele Zaffarano. Pur essendo decisivo per la sua generazione e quella a seguire, Tarkos ha circolato fino a tempi recentissimi quasi clandestinamente ed è rimasto a lungo un poeta culto per i soli autori di “prosa in prosa”: è a quasi 20 anni dalla composizione che il traduttore Zaffarano riesce a pubblicarne, sia pur per un piccolissimo editore, I soldi (L’argent, 1999), testo in cui, oltre alla postura ironica già apprezzabile nei materiali finora disponibili online, della scrittura di Tarkos emerge un aspetto non meno rilevante di quello performativo o installativo, ossia la modalità di “vociferazione” del pensiero, nel superamento tanto di un’idea di impegno seriosamente avanguardista quanto della clownerie da messa in scena verbale dello sciocchezzaio quotidiano. Nella sua stessa formulazione teorica (dispersa in appunti e saggi ancora poco circolanti in Italia) la poesia non è un setaccio della vita, ma una rappresentazione che non debba eliderne gli aspetti miserrimi o apparentemente insignificanti, come un barattolo sulla tavola con le sue deprimenti caratteristiche. Tarkos, lo ha ricordato Andrea Inglese, non è isolato in questa ricerca, ma si accompagna a un contesto fatto di riviste e di poeti che si riappropriano del concetto di enunciazione, ponendo in essere la centralità del linguaggio e delle forme (o del loro superamento) nella scrittura poetica e postpoetica, come avrebbe poi teorizzato Jean-Marie Gleize. È ancora Inglese a sottolineare come sulla pagina di Tarkos la presa di parola avvenga nel segno dell’enunciazione comune «quale affiora negli scambi più banali e elementari della vita quotidiana. Il terreno prediletto dell’invenzione poetica è […] quello dell’enunciazione, del passaggio all’atto di parola, che non è certo privilegio della poesia, ma condizione costante di ogni essere umano». 6. Quanto di questa idea sia passata ai poeti coevi, innanzitutto proprio al traduttore di Tarkos Zaffarano, è evidente dalla curvatura dell’iniziale rigetto della performatività come esibizione in favore di un suo rinnovamento o riproposta attraverso una nuova forma di interpretazione straniante del testo: la scansione metallica e comica di Zaffarano, ad esempio, aderisce perfettamente alla natura combinatoria e ontologica dei suoi testi, mentre Marco Giovenale è l’autore che mantiene più vivo (anche all’interno della sua stessa opera) il conflitto tra l’introversione della lettura in stile Novecento e l’esuberanza performativa, retaggio dei primi anni Zero. Un suo recente esperimento di action poetry prevede la lettura ansiogena (sebbene non enfatica) di un testo intitolato tautologicamente Phobos 2’34’’ (o è piuttosto la lettura nel tempo suggerito dall’indicazione posta a titolo a generare nello spettatore il timore ansioso che l’impegno annunciato venga disatteso). In realtà l’idea di installazione viene più propriamente riferita dal Gruppo Gammm a una serie di opere che hanno come sede naturale la rete, per la loro natura anomala, debordante quanto a dimensioni e testualità iperespansa, riprendendo la definizione ormai classica dei teorici americani, da Liz Kotz a Robert Smitshon, di words to be looked at (parole fatte per essere guardate – nemmeno più lette). Si tratta di una testualità verticale, di elenchi, serie di parole (come in Kervinen o Leftwich, tra gli altri autori citati da Giovenale), difficilmente riproducibili in un testo tipograficamente ingabbiato. Com’è evidente negli scritti teorici e nelle opere di quest’area, le scritture installative hanno perciò più a che fare con la videoarte che con la performance in sé, dunque con l’inafferrabilità del flusso di immagini più che con una determinante enunciativa o assertiva, con la totalità del mondo più che con la pretesa di decidere quali spaccati siano maggiormente degni di rirpoduzione. Non solo la poesia perde l’aura, ma anche la sua caratteristica brevità e configurazione grafica: poesia e testo non sono più un combinato di pratiche interpretative (vocali, attoriali, gestuali) ma un’ambizione di riassetto continuo e senza filtri. Non opera-mondo, ma mondo-opera: “.rar” o “expanded version”, non è ancora (del tutto) passato in giudicato. ¬ top of page |
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