« indietro Jack Spicer, A book of music (1958)
a cura di Antonella Francini In: «Semicerchio», LVII (2017/02), Uncreative poetry, pp. 18-25. Jack Spicer compose A Book of Music nel 1958, un anno dopo la pubblicazione del suo primo libro, After Lorca, quel testo centrale, e sicuramente il più conosciuto di questo poeta californiano, che diede avvio a una serie di sperimentazioni per lo più rimaste inedite fino al 1975. Fu allora che, a dieci anni dalla sua morte, ebbe inizio la riscoperta di uno dei maggiori protagonisti della cosiddetta San Francisco Renaissance con la pubblicazione di tutta la sua poesia in un’edizione curata dall’amico poeta Robin Blaser. I più recenti volumi The House That Jack Built: The Collected Lectures of Jack Spicer (1998) e My Vocabulary Did This To Me: The Collected Poetry of Jack Spicer (2008) hanno segnato la rivalutazione contemporanea dell’opera teorica e in versi di un autore sempre più studiato e influente negli Stati Uniti. Nato nel 1925 a Los Angeles, Spicer è stato insieme a Blaser e a Robert Duncan, con i quali formò un sodalizio fin dagli anni universitari a Berkeley, una figura di spicco dello sperimentalismo statunitense del secondo dopoguerra. Di quell’eccezionale ed eccentrico trio della Bay Area di San Francisco lui era il più ribelle, lontano sia dalla cultura ufficiale che dalla controcultura. Anarchico, omossessuale dichiarato, avverso a ogni establishment, era un erudito linguista e uno studioso delle variazioni vocaliche nelle città della California, una passione che lo accompagnò fino a poco prima della morte a soli quarant’anni, stroncato dall’alcol e da comportamenti autodistruttivi. La sua breve vita fu caratterizzata anche dal ruolo di docente e mentore dei giovani poeti iscritti ai suoi workshop che, grazie alla stima di cui godeva negli ambienti letterari e artistici, gli venivano di tanto in tanto affidati. Animatore della vita bohémien della Bay Area, insieme a cinque pittori californiani nel 1954 contribuì alla fondazione della mitica 6 Gallery dove, l’anno successivo, Allen Ginsburg avrebbe letto Howl. Ma dai Beat Spicer prese le distanze non condividendone la poetica, risentito, inoltre, per la notorietà che l’esposizione mediatica aveva dato loro oscurando l’opera dei poeti autoctoni. Dopo un breve soggiorno all’Est nel 1955, fra New York e Boston, si riconobbe profondamente californiano e rafforzò la sua decisione di pubblicare la sua poesia solo per piccole case editrici indipendenti e riviste della California, spesso accompagnata da illustrazioni di amici pittori. Il titolo del volume che raccoglie tutta l’opera in versi di Spicer - my vocabulary did this to me - riprende le sue ultime parole prima di spirare: ‘tutto questo è colpa del mio vocabolario’, di una passione assoluta e distruttiva per la lingua. Oltre alla poesia edita e inedita, Spicer ha lasciato un romanzo e dei testi teatrali, alcuni saggi e la registrazione di quattro conferenze fatte nei mesi precedenti la sua morte a cui si ricorre come a un testamento della sua originale poetica. Uno dei principi su cui essa si basa è il ruolo neutro del poeta che secondo Spicer, influenzato da W.B. Yeats, dalla scrittura automatica surrealista e dall’Orfeo filmico di Cocteau, scrive sotto dettatura quanto gli viene trasmesso da un’alterità aliena che chiama «Outside» o, ironicamente, «Martians», Marziani. Egli non è che una radio ricetrasmittente che diffonde messaggi provenienti da un Altrove censurando le «intermittenze», ovvero la soggettività del poeta. Il quale è un «empty vessel» che aspetta di essere invaso o visitato da fantasmi. Come è stato scritto, si tratta di una riformulazione della questione della Musa ispiratrice, ma Spicer l’attualizza con l’immagine tecnologica della radio e degli emissari dall’etere, allora esplorato dai primi viaggi nello spazio. In questa sua teoria dell’impersonalità, il poeta pretende di scomparire rinunciando a ogni diritto di autore sulle parole che il corpo-macchina trascrive per conto di chi parla per suo tramite. «I really honestly don’t feel that I own my poems, and I don’t feel proud of them», affermava in una delle sue conferenze rafforzando l’idea della lingua poetica come un mezzo autonomo non controllabile dallo scrittore. L’appropriazione di frasi o versi altrui per reinterpretarli, riscriverli o emularli – dai classici alla poesia medievale, a Dante, Whitman, Rimbaud, Cocteau e i poeti della sua generazione – è la tecnica privilegiata da Spicer. Il caso più noto è appunto quello di After Lorca, uno pseudo-epistolario con il defunto poeta spagnolo, il quale ‘introduce’ il libro ed è il ‘destinatario’ delle lettere in cui Jack gli espone la sua poetica alternandole a traduzioni, pseudo-traduzioni, riscritture e originali travestiti da traduzioni o composti alla maniera di Lorca o alla maniera dei poeti cui sono dedicati. Teoria e pratica si contrappongono e sovrappongono in un sistema di corrispondenze di voci che, come onde di stazioni radio, attraversano il suo corpo. «The poet / takes too many messages», scrive ricorrendo al linguaggio del pugilato in Language (1963- 65), il libro pubblicato poco prima della morte, «The right to the ear that floored him / in New jersey. The right to say that he stood six rounds with / a champion». Il concetto di corrispondenza, nel doppio senso di scambio epistolare e sensibilità affini, è altrettanto centrale in Spicer come espediente, di ascendenza baudelairiana, per definire anche cosa significhi tradizione. La tradizione, scrive in una delle lettere a Lorca, means generations of different poets in different countries patiently telling the same story, writing the same poem, gaining and losing something with each transformation – but, of course, never really losing anything […] Invention is merely the enemy of poetry. Il suo Altrove è dunque un luogo ben definito, addirittura letterariamente convenzionale: una comunità di poeti di ogni tempo assemblata secondo il suo gusto che si aggira in una città di morti i cui spettri («spooks») portano messaggi, aperti a più interpretazioni, da un aldilà infernale. In un’altra lettera ‘spiega’ a Lorca il suo processo creativo mediato dalla traduzione: When I translate one of your poems and I come across words I do not understand, I always guess at their meanings. I am inevitably right. A really perfect poem (no one yet has written one) could be perfectly translated by a person who did not know one word of the language it was written in. A really perfect poem has an infinitely small vocabulary. La ricorrente figura di Orfeo è una delle immagini letterarie più care a Spicer per raffigurare questo Altrove esoterico da cui nasce la poesia dettata da forze parassite e aliene, che per lui è un gioco intertestuale complesso e raffinato. Se la poetica di Spicer da un lato ricorda il concetto di impersonalità di T.S. Eliot e, per la traduzione, il make it new di Ezra Pound, dall’altro non si allontana molto dalle sperimentazioni delle avanguardie a lui contemporanee, a cominciare dalle teorie di Charles Olson sul processo creativo basato sul respiro dell’autore e sulla poesia come oggetto autonomo. Non è troppo lontano neanche dalle teorie di John Cage che nelle sue composizione di musica aleatoria sospendeva la volontà dell’artista per far entrare i suoni già esistenti nell’ambiente; oppure dalle sperimentazioni pittoriche degli anni Cinquanta e Sessanta di Robert Rauschenberg che coi suoi White Paintings, tele completamente bianche sensibili alle ombre dei visitatori e alle fasi del giorno, e coi suoi combine, fatti di materiali quotidiani, di radio e TV, cercava di mettere in pratica il concetto di pittore-reporter affinché oggetti e suoni avessero un ruolo paritario, se non superiore, a quello dell’artista. Nell’accogliere e ‘trascrivere’ le voci dei suoi Marziani come fossero onde trasmesse da una radio, anche Spicer sposta l’atto creativo nel mondo della comunicazione di massa e della nascente società multimediale del dopoguerra e crea collage lirici in modo apparentemente casuale. L’unico problema nel comparare un poeta a una radio, scrisse in Language, «is that radios don’t develop scar tissue». Con Robert Duncan, Spicer elaborò un altro concetto centrale alla sua poetica: il «serial poem» o «composition by book», cioè il libro come misura poetica minima composto per frammenti in serie. I singoli testi dovevano per lui «echo and re-echo against each other», come scrive a Blaser in una lettera inserita nel suo secondo volume di poesia Admonitions (1957); dovevano esistere in strutture a tema, creare ciò che oggi definiremmo degli ipertesti, elaborando delle corrispondenze all’interno di sistemi preesistenti. A Book of Music, di cui pubblichiamo la prima traduzione italiana, è costruito secondo questo modello e il tema è il rapporto fra musica e poesia. Le prime parole che il Marziano detta al poeta provengono da una riflessione di Edgar Allan Poe in Marginalia: «indefinitiveness is an element of the true music». Spicer se ne appropria e la riproduce nel primo testo di questa serie poetica per dare avvio alla sua composizione sulle contraddizioni e le corrispondenze fra le due arti. Come sempre nei suoi scritti, il linguista e il poeta si sovrappongono nella disquisizione di un argomento che, tipicamente, Spicer sviluppa giocando con strutture linguistiche idiosincratiche, etimologia delle parole, improvvisazioni e virtuosismi per giungere a una sua sinfonia. Gli ‘strumenti’ sono immagini ricorrenti nei suoi versi: Orfeo, il football, il gabbiano, l’oceano e la spiaggia, l’amore e gli amanti, gli scacchi, l’inferno, gli alieni e i fantasmi. Scrisse a Blaser nel 1958 a proposito di questo libro: The Book of Music was written by a poet (not myself any longer) who wanted to explore the way that the contradictions of words and sounds (“indefiniteness is an element of the true music”) make themselves felt in the twin worlds of the intellect and the emotions. The lines of the poem do not progress. One must be willing to read them forwards and backwards, to become trapped in them. E infatti si rimane intrappolati in un discorso statico, che si attorciglia su se stesso senza sciogliere il rapporto fra musica e parola. Ma la bellezza di questo ‘concerto’ in 14 parti svolte simultaneamente come fosse una sola esecuzione (una sorta di sonetto alla fine), sta negli strumenti propri del poeta – metafore, giochi di senso, allusioni, suggestioni e ogni altra risorsa che la lingua offre, quella «mobilia» facile da spostare, come diceva Spicer, che il Marziano o il fantasma trova quando entra nella stanza da allestire. Del resto, lui sapeva bene che la poesia è anche musica e il poeta è un Orfeo. Non sembri azzardato vedere oggi in Spicer un involontario precursore del fenomeno contemporaneo del plagiarismo creativo, dell’arte del taglia-e-incolla, dell’appropriazione e manipolazione più o meno originale di materiali altrui reperibili in internet di cui la Flarf poetry è l’avanguardia più recente del XXI secolo. Benché il suo serial poem fosse il sofisticato gioco di un linguista che amava etimologie, fonemi, grafemi e morfemi, e benché il materiale altrui che i suoi Marziani gli dettavano riprendesse la più canonica tradizione occidentale, il suo ironico uso della tecnologia e dell’astronautica segnarono un passo avanti nella poetica del frammento e del collage avviata dai modernisti. Come nella musica e nell’arte, anche in poesia la generazione di Spicer dovette fare i conti con il veloce sviluppo della comunicazione multimediale da San Francisco a New York, dove autori come John Ashbery e Frank O’Hara elaboravano i loro informali montaggi di voci e immagini riprese dai media e dalle conversazioni quotidiane trascrivendole sulla pagina senza un apparente coinvolgimento personale. Vale anche ricordare che una decina d’anni dopo, un’altra avanguardia, la Language Poetry, teorizzò la centralità della lingua come sistema di segni depotenziando il ruolo dell’autore e delle sue emozioni. Certo è che il linguista Spicer avvertiva già l’inevitabile impatto della tecnologia sulla creatività ed elaborò una poetica che faceva uso delle immagini nuove provenienti dalla multimedialità e dalla comunicazione di massa rifondando il rapporto fra autore e atto creativo, un rapporto che, a tre anni dalla sua morte, Roland Barthes avrebbe sviluppato nel celebre saggio La mort de l'auteur. Il fatto che oggi agenti esterni come internet e l’intelligenza artificiale abbiano finito per dominare l’immaginazione, minacciando di distruggerla, è una storia diversa che Spicer, forse, non avrebbe apprezzato. A BOOK OF MUSIC (1958) With words by Jack Spicer Improvisations on a Sentence by Poe “Indefiniteness is an element of the true music.” The grand concord of what Does not stoop to definition. The seagull Alone on the pier cawing its head off Over no fish, no other seagull, No ocean. As absolutely devoid of meaning As a French horn. It is not even an orchestra. Concord Alone on a pier. The grand concord of what Does not stoop to definition. No fish No other seagull, no ocean—the true Music. UN LIBRO DI MUSICA (1958) Con testi di Jack Spicer Improvvisazioni su una frase di Poe «L’indefinito è un elemento della musica vera». Il grande accordo di ciò Che non s’inchina alla definizione. Il gabbiano Solitario sul molo grida a squarciagola Per nessun pesce, nessun altro gabbiano, Nessun oceano. Completamente vuoto di significato Come un corno francese. Non è nemmeno un’orchestra. Accordo Solitario su un molo. Il grande accordo di ciò Che non s’inchina alla definizione. Nessun pesce Nessun altro gabbiano, nessun oceano –La musica vera. A Valentine Useless Valentines Are better Than all others. Like something implicit In a poem. Take your all Valentines And I’ll take mine. What is left is better Than any image. Un biglietto di San Valentino I Valentini inutili Sono migliori Di tutti gli altri. Come una cosa implicita In una poesia. Prendi tutti i tuoi Valentini E io prenderò i miei. Quel che resta è migliore D’ogni immagine. Cantata Ridiculous How the space between three violins Can threaten all of our poetry. We bunch together like Cub Scouts at a picnic. There is a high scream. Rain threatens. That moment of terror. Strange how all our beliefs Disappear. Cantata Ridicolo Che lo spazio fra tre violini Possa intimorire tutta la nostra poesia. Ci raggruppiamo come lupetti Scout a un picnic. Alto un grido. Minaccia la pioggia. Quel momento di terrore. Strano come ogni nostra certezza Scompaia. Orfeo Sharp as an arrow Orpheus Points his music downward. Hell is there At the bottom of the seacliff. Heal Nothing by this music. Eurydice Is a frigate bird or a rock or some seaweed. Hail nothing The infernal Is a slippering wetness out at the horizon. Hell is this: The lack of anything but the eternal to look at The expansiveness of salt The lack of any bed but one’s Music to sleep in. Orfeo Come una freccia affilata Orfeo Scocca laggiù la sua musica. L’inferno è là In fondo alla scogliera. Non risani Nulla con questa musica. Euridice È un uccello di nave o una roccia o un’alga. Non fermi nulla L’infernale È una carezza umida all’orizzonte. Inferno è questo: L’assenza di tutto eccetto l’eterno cui guardare La generosità del sale L’assenza di un letto eccetto la propria Musica in cui dormire. Song of a Prisoner Nothing in my body escapes me. The sound of an eagle diving Upon some black bird Or the sorrow of an owl. Nothing in my body escapes me. Each branch is closed I Echo each song from its throat Bellow each sound. Canto di un prigioniero Nulla nel mio corpo mi sfugge. Il grido di un’aquila che si tuffa Su un qualche uccello nero O la tristezza d’un gufo. Nulla nel mio corpo mi sfugge. Ogni ramo è chiuso Io Faccio l’eco a ogni canzone dalla sua gola Grido ogni suono. Jungle Warfare The town wasn’t much A few mud-huts and a church steeple. They were the same leaves And the same grass And the same birds deep in the edge of the thicket. We waited around for someone to come out and [surrender But they rang their church bells And we We were not afraid of death or any manner of [dying But the same muddy bullets, the same horrible Love. Guerriglia nella giungla Il paese non era granché Poche capanne di fango e un campanile. Erano le solite foglie E la solita erba E i soliti uccelli nascosti nella proda del boschetto. Aspettammo lì intorno che uscisse qualcuno [ad arrendersi. Ma suonarono le loro campane E noi Non avemmo paura della morte o d’un modo qualsiasi [di morire Ma delle solite pallottole fangose, il solito orribile Amore. Good Friday: For Lack of an Orchestra I saw a headless she-mule Running through the rain She had the hide of a chessboard And withers that were lank and dark “Tell me,” I asked “Where Is Babylon?” “No,” she bellowed “Babylon is a few baked bricks With some symbols on them. You could not hear them. I am running To the end of the world.” She ran Like a green and purple parrot, screaming Through the sand. Venerdì Santo. In mancanza di un’orchestra Ho visto una mula decapitata Correre nella pioggia Aveva la pelle d’una scacchiera E il garrese era liscio e scuro “Dimmi”, chiesi “Dov’è Babilonia?” “No”, urlò “Babilonia è una manciata di mattoni bruciati Con dei simboli incisi. Non li potresti sentire. Io corro Verso la fine del mondo”. Correva Come un pappagallo verde e viola, gridando Attraverso la sabbia. Mummer The word is imitative From the sound mum or mom Used by nurses to frighten or amuse children At the same time pretending To cover their faces. Understanding is not enough The old seagull died. There is a whole army of seagulls Waiting in the wings A whole army of seagulls. Mummer /Mimo La parola è imitativa Viene dal suono mum o mom Usata dalle nutrici per impaurire o divertire i bambini Allo stesso tempo fingendo Di coprirsi il viso. Comprendere non è abbastanza I l vecchio gabbiano è morto. C’è tutta un’armata di gabbiani In attesa dietro le quinte Tutta un’armata di gabbiani. The Cardplayers The moon is tied to a few strings They hold in their hands. The cardplayers Sit there stiff, hieratic Moving their hands only for the sake of Playing the cards. No trick of metaphor Each finger is a real finger Each card real pasteboard, each liberty Unaware of attachment. The moon is tied to a few strings. Those cardplayers Stiff, utterly Unmoving. I giocatori di carte La luna è legata a poche corde Che loro tengono in mano. I giocatori di carte Siedono là rigidi, ieratici Muovendo le mani solo per amore Del gioco delle carte. Nessun trucco di metafora Ogni dito è un dito vero Ogni carta vero cartone plasticato, ogni libertà Ignara di legami. La luna è legata a poche corde. Quei giocatori di carte Rigidi, completamente Immobili. Ghost Song The in ability to love The inability to love In love (like all the small animals went up the hill into the underbrush to escape from the goat and the bad tiger) The inability Inability (tell me why no white flame comes up from the earth when lightning strikes the twigs and the dry branches) In love. In love. In love. The In- ability (as if there were nothing left on the mountains but what nobody wanted to escape from) Canzone fantasma L’in abilità d’amare L’inabilità d’amare In amore (come i piccoli animali salirono tutti su per la collina nel sottobosco per sfuggire alla capra e alla tigre malvagia) L’inabilità Inabilità (dimmi perché nessuna fiamma bianca spunta dalla terra quando il fulmine colpisce gli sterpi e i rami secchi) In amore. In amore. In amore. La In- abilità (come se non ci fosse rimasto nulla sulle montagne eccetto ciò da cui nessuno voleva fuggire) Army Beach With Trumpets Rather than our bodies the sand Proclaims that we are on the last edge Of something. Two boys Who cannot catch footballs horseplay On the wet edge. Or if the sight of the thing ended Did not break upon us like a wave From every warm ocean. We call it sport To play on the edge, to drop Like a heartless football At the edge. Spiaggia militare con trombe Più che i nostri corpi la sabbia Proclama il nostro stare sull’ultima sponda Di qualcosa. Sarabanda di due ragazzi Che non riescono ad afferrare il pallone Sulla sponda bagnata. O se la visione della cosa finita Non si fosse franta su di noi come un’onda Da ogni caldo oceano. Lo chiamiamo sport Giocare sulla sponda, quel cadere Come un pallone inanime Sulla sponda. (traduzione a cura della redazione di «Semicerchio») Duet for a Chair and a Table The sound of words as they fall away from our mouths Nothing Is less important And yet that chair this table named Assume identities take their places Almost as a kind of music. Words make things name themselves Makes the table grumble. I in the symphony of God am a table Makes the chair sing A little song about the people that will never be sitting on it And we Who in the same music Are almost as easily shifted as furniture We Can learn our names from our mouths Name our names In the middle of the same music. Duetto per una sedia e un tavolo Il suono di parole mentre s’allontanano dalla nostra bocca Nulla È meno importante Eppure quella sedia questo tavolo nominati Assumono un’identità prendono il loro posto Quasi una specie di musica. Le parole fanno nominare le cose Fanno borbottare il tavolo. Io Nella sinfonia di Dio sono un tavolo Faccio cantare la sedia Una canzonetta sulla gente che non ci siederà mai E noi Che nella stessa musica Siamo facili da spostare quasi come mobili Noi Possiamo imparare i nostri nomi dalle nostre bocche Chiamare i nostri nomi Nel mezzo della stessa musica. Conspiracy A violin which is following me In how many distant cities are they listening To its slack-jawed music? This Slack-jawed music? Each of ten thousand people playing it. It follows me like someone that hates me. Oh, my heart would sooner die Than hear its slack-jawed music. They In those other cities Whose hearts would sooner die. It follows me like someone that hates me. Or is it really a tree growing just behind my throat That if I turned quickly enough I could see Rooted, immutable, neighboring Music. Cospirazione Un violino che mi segue In quante città lontane stanno ascoltando La sua musica stupefatta? Questa Musica stupefatta? Ognuna delle diecimila persone che la suona. Mi segue come uno che mi odia. Oh, il mio cuore preferirebbe subito morire Che lasciare la sua musica stupefatta. Loro Nelle altre città I loro cuori preferirebbero subito morire. Mi segue come uno che mi odia. O è davvero un albero che cresce proprio dietro la mia gola Se mi volto veloce abbastanza potrei vedere Piantata, immutabile, ravvicinata La musica. A Book of Music Coming at an end, the lovers Are exhausted like two swimmers. Where Did it end? There is no telling. No love is Like an ocean with the dizzy procession of the waves’ boundaries From which two can emerge exhausted, nor long goodbye Like death. Coming at an end. Rather, I would say, like a length Of coiled rope Which does not disguise in the final twists of its lengths Its endings. But, you will say, we loved And some parts of us loved And the rest of us will remain Two persons. Yes, Poetry ends like a rope. Un libro di musica Venendo alla fine, gli amanti Sono esausti come due nuotatori. Dove Era la fine? Non si può sapere. Nessun amore è Come un oceano nella vertiginosa processione di bordi d’onde Dove due possono emergere esausti, né un lungo addio Come la morte. Venendo alla fine. Piuttosto, direi, è come una lunghezza Di corda avvolta C he negli ultimi grovigli della sua misura non maschera I suoi finali. Ma voi direte, abbiamo amato E hanno amato alcune parti di noi E il resto di noi rimarrà Due persone. Sì, la poesia finisce come una corda. ¬ top of page |
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