« indietro Giorgio Caproni: un itinerario fra terra e storia nel paese guasto
di Francesca Valdinoci In: Semicerchio, LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 23 – 28.
L’itinerario poetico di Giorgio Caproni è segnato da una frattura per quel che concerne la rappresentazione della natura, protagonista indiscussa dell’intera produzione dell’autore. Se le opere giovanili inscenano quadretti lirico-naturalistici, nelle raccolte della maturità troviamo una rappresentazione di ecosistemi ibridi caratterizzati dall’accostamento di elementi naturali ed antropici in un perturbante scenario postapocalittico nel quale la storia si sostanzia di resti e detriti. Il trauma della guerra e le repentine trasformazioni economiche e sociali che investono l’Italia negli Anni Cinquanta e Sessanta costituiscono quel sostrato esperienziale a partire dal quale Caproni forgerà una ricorrente rappresentazione della natura minacciata, presente in nuce fin dalla raccolta Passaggio d’Enea e protagonista nell’universo in dissoluzione del Muro della terra. In Come un’allegoria l’autore contempla programmaticamente un’operazione di occultamento della realtà grazie alla valorizzazione della componente allegoricoartistica. Al poeta spetta il compito di inventare «l’erba / facile delle parole», operando una cancellazione della realtà all’interno di quadretti lirici che depotenziano la forza degli elementi naturali inseriti come frammenti all’interno di un paesismo di matrice impressionista. Spesso il paesaggio e soltanto lo sfondo sul quale proiettare le inquietudini dell’io poetico, come nel caso di A Cecco; mentre talvolta il soggetto tende a collocarsi in secondo piano, o addirittura ad annullarsi, nella descrizione naturalistica, come avviene in Prima luce. Anche se il Caproni delle prime raccolte non ha ancora sviluppato una riflessione organica che travalichi la componente impressionistica, il poeta mostra già le prime inquietudini poiché «presenta – come sostiene Alessandro Baldacci nel recente saggio Giorgio Caproni. L’inquietudine in versi – una vena in definitiva antilirica, in cui l’io è sempre al margine o sullo sfondo, intento nell’osservazione di un idillio che però non si fissa sulla pagina, ma svapora, si stempera, scolora, vola via». In Ballo a Fontanigorda l’ambiente bucolico lascia spazio a quello marino, cosi come in Finzioni, mentre a partire da Cronistoria il paesaggio idilliaco non domina più la produzione caproniana per lasciare spazio a quella natura ibrida e tormentata che diverrà motivo caratterizzante nelle raccolte della maturità. Già nel primo componimento della raccolta l’immagine del mare si ricollega ad un paesaggio dalle tinte infernali: «Il mare brucia le maschere / le incendia il fuoco del sale. / Uomini pieni di maschere / avvampano sul litorale». Negli ultimi componimenti della sezione E lo spazio era fuoco… appare in nuce la dialettica turbata fra terra e storia, che si risolve nella rappresentazione di un ambiente naturale sempre più contaminato dall’azione umana posta in relazione con il processo storico che la alimenta. Tuttavia, solo a partire dalla raccolta successiva, Il passaggio d’Enea, emerge un universo tematico che diventerà in seguito portante nell’opera caproniana: la rappresentazione della desolazione del paese guasto attraverso immagini ibride di devastazione e degradazione, affini a quelle presenti in The Waste Land di T. S. Eliot. Come sostiene Giuseppe Leonelli, è «qui lo spartiacque tra un passato di poeta dignitoso, ma un po’ qualunque, e il futuro, così prossimo, ormai quasi presente, della piena individuazione della propria personalità di artista». Enea rappresenta l’uomo solo che deve fronteggiare la catastrofe, ma diviene anche figura di speranza ed attesa. Il secondo conflitto mondiale ha prodotto ferite insanabili, rovine visibili ed invisibili che alimentano il presente e limitano le possibilità future. La seconda sezione, Le biciclette, rappresenta la presa di coscienza dell’impossibilità di un progetto palingenetico: in 1944, il sonetto d’apertura, è rappresentato il crollo di un mondo sintetizzato dal furore del «disastro dell’alba»:
Le carrette del latte ahi mentre il sole sta per pungere i cani. Cosa insacca la morte sopra i selci nel fragore di bottiglie in sobbalzo? Sulla faccia punge già il foglio del primo giornale col suo afrore di piombo – immensa un’acqua passa deserta nel sangue a chi muove a un muro, e già a una scarica una latta ha un sussulto fra i cocci.
Nella rappresentazione di questo episodio bellico è evidente la valorizzazione della portata poetica degli oggetti, attraverso i quali il poeta «non affronta direttamente l’orrore della scena di fucilazione, ma lo vede riflesso in un mondo di presenze subumane, – scrive Leonelli – persino tra gli oggetti della spazzatura che ingombra le strade. Si crea una correlazione straniante fra l’incubo e le cose di tutti i giorni, addirittura i detriti più squallidi della vita quotidiana». In un ambiente postumano sono gli oggetti derelitti ad impossessarsi di una scena nella quale, come afferma Giuseppe Leonelli, «il dolore sembra assumere per voce il fragore delle bottiglie che vanno in frantumi». Un analogo scenario dalle tinte postapocalittiche domina il componimento successivo, Le biciclette, elette ad oggetto-simbolo di una generazione defraudata della giovinezza ed ora invischiata in un’impossibile transizione verso il futuro. In queste stanze si susseguono immagini di frantumazione e distruzione in un’«armonia di disastri» che si susseguono nella «scialba / geografia del mondo che sgomenta», di uno spazio infernale costituito da «detriti funesti». Anche nella Genova ritratta in Versi, secondo componimento di Stanze della funicolare, possiamo rilevare queste tracce di disgregazione: «e d’improvviso / l’alba che sa di rifresco dai cocci / e dai rifiuti gelidi, e sul viso / scopre pei finestrini umidi un’urbe / cui marciapiedi deserti già i primi / fragori di carrette urgono. […] E lentamente, in un brivido, l’arca, / di detrito in detrito, entro la lieve / nausea s’inoltra».
Queste immagini, ancora abbozzate nel Passaggio, diventano l’universo tematico di riferimento nel Muro della terra, la raccolta della svolta, i cui temi verranno ripresi e variamente declinati fino all’ultima raccolta postuma, Res amissa. A partire dal Muro della terra «inizia il viaggio senza ritorno della poesia caproniana, il vertiginoso approfondimento della condizione postuma a partire dalla quale l’autore osserva il mondo circostante e i terribili messaggi di una società di massa in cui l’esistenza perde contenuto e la solitudine diviene sempre più lugubre e spettrale». Nel Muro della terra il meccanismo della citazione, già usuale nella produzione precedente dell’autore, assume un ruolo centrale fin dal titolo della raccolta, nel quale si fa riferimento al decimo canto dell’Inferno dantesco, in particolare ai vv. 1-2: «Ora sen va per un secreto calle / tra il muro della terra e li martiri». La condizione esistenziale dei due poeti è, però, molto diversa, come sottolinea Barbuto: «Mentre Dante, guidato da Virgilio prima e da Beatrice dopo, perviene alla visione ultima di Dio, l’approdo del viaggiatore del Muro e il fallimento, il naufragio, la sconfitta della parola di fronte all’orrore contemporaneo». Il poeta contemporaneo è perso, annaspa, cerca una guida che non trova, aspetta un messaggero; prova ad orientarsi, ma è solo, circondato da una natura solo apparentemente benefica («...Tutto / quel sole. Tutto / quel verde scintillio d’erba / per tutto il vallone»), ma in realtà indifferente se non ostile. L’esito finale non può essere che l’approdo ad una condizione di perdita della speranza: «Aveva / perso completamente, / con la speranza, ogni traccia». Dichiara lo stesso Caproni:
Io sono un razionalista che pone limiti alla ragione, e cerco, cerco. Che cosa non lo so, ma so che il destino di qualsiasi ricerca e imbattersi nel “Muro della terra”, oltre il quale si stendono i ‘luoghi non giurisdizionali’, dove la ragione non ha più vigore al pari di una legge fuori dal territorio in cui vige. Questi confini esistono: sono i confini della scienza; è da lì che comincia la ricerca poetica. Non so se aldilà ci sia qualcosa; sicuramente c’è l’inconoscibile.
Il sintagma dantesco assume quello che Lombardi definisce, sulla scia dell’analisi di Adele Dei, un «valore generativo», poiché da espressione letterale si trasforma in metaforica fino a costituire il fulcro dal quale si genera la costellazione di immagini fondamentali ricorrenti nella raccolta. L’espressione «il muro della terra», tratto da un verso del componimento Anch’io, è il primo dei numerosi esempi di ibridazione tra la componente naturale e quella antropica rintracciabili nella raccolta. All’esperienza biografica ed esistenziale del muro si accosta la rappresentazione della guerra, già presente in tanta parte della produzione caproniana, eletta in questa raccolta a metafora universale, «allegoria della condizione umana». In una costruzione del paesaggio che rimanda alla Val Trebbia, l’umanità viene collocata in una selva labirintica caratterizzata da condizioni meteorologiche estreme (gelo, neve, nebbia) metafora della guerra continua che attraversa la storia umana. In particolare, nella sezione «Acciaio» i ricordi autobiografici della guerra si trasformano per denunciare la tendenza naturale dell’uomo alla distruzione. La rappresentazione di un paesaggio postumano è motivo ricorrente cosi come la fine del mondo è denunciata fin da uno dei primi componimenti della raccolta, Falsa indicazione, e percorre interamente la produzione successiva fino a Res amissa. Il muro, inoltre, incarna simbolicamente una sopravvenuta estraneità ai luoghi, sottoposti ad un processo di desertificazione che invade gli spazi urbani e i territori naturali. Ed è proprio il deserto l’ambiente ricorrente più significativo di questa raccolta, la cui importanza viene sottolineata fin dalla citazione iniziale tratta dall’opera di Annibal Caro: «Siamo in un deserto, e volete lettere da noi?». Deserto reale ed esistenziale, luogo un tempo vitale ma ora abbandonato, come nel primo componimento della sezione «Il vetrone» dal titolo L’idrometra: «nessuna / libellula sorvolerà / nel deserto, intero». In questo ambiente estremo l’io poetico specchia la propria solitudine di uomo rinchiuso in una torre, accerchiato dalle mura della propria prigione, come nel Murato: «Fuori, / e il deserto del sole / e delle ortiche – il gelo / abbagliato del giorno / sul ghiacciaio». Nella sua accezione di luogo abbandonato (dal latino ‘desero’ ossia ‘abbandono’) e spopolato, quindi ridotto a deserto, ricorre anche in Lasciando loco: «il deserto, / la lampadina a carbone /lasciata accesa nel sole / sopra il deserto». Il deserto avanza intrappolando il poeta nella terra guasta del presente, un mondo ormai disintegrato entro il quale l’essere umano si sente postumo a sé stesso come i due personaggi beckettiani protagonisti di Fin de partie, sopravvissuti alla catastrofe ma confinati in uno spazio circoscritto, come l’«uomo solo / chiuso nella sua stanza. […] Solo in una stanza vuota, / a parlare. Ai morti», ritratto in Condizione. Quest’universo in dissoluzione e protagonista dei quattro componimenti contenuti nella sezione «Tema con variazioni», nei quali viene rappresentato il fenomeno dello spopolamento delle montagne, dilagante a partire dagli Anni Sessanta. Questi traumatici cambiamenti nel paesaggio montano si innestano nell’opera caproniana su quelli già provocati dalla guerra riprendendone e moltiplicandone gli effetti. Non sono poche le affinità a livello di rappresentazione tra Tutto, componimento inserito nella sezione «Acciaio», dedicata ai ricordi bellici, e Dopo la notizia, inserita in «Tema con variazioni»:
Hanno bruciato tutto. La chiesa. La scuola. Il municipio. Tutto. Anche l’erba. Anche, col camposanto il fumo tenero della ciminiera della fornace. Illesa, albeggia sola la rena e l’acqua: l’acqua che trema alla mia voce, e specchia lo squallore d’un grido senza sorgente. La gente non si sa più dove sia. […]
Solo la natura si salva e sopravvive alla distruzione, o almeno quella parte di essa che non ha subito un processo di antropizzazione. E quell’erba millenaria delle Biciclette che testimonia una leopardiana indifferenza della natura nei confronti dei rovinosi esiti ai quali giunge l’umanità. Anche in Dopo la notizia, a seguito dello spopolamento, la natura ritorna ad assumere un ruolo nuovamente dominante:
Il vento... E’ rimasto il vento. Un vento losco, raso terra, e il foglio (quel foglio di giornale) che il vento muove su e giù sul grigio dell’asfalto. Il vento e nient’altro. […] Il grigio del vento sull’asfalto. E il vuoto. Il vuoto di quel foglio nel vento analfabeta. Un vento lasco e svogliato – un soffio senz’anima, morto. Nient’altro. Nemmeno lo sconforto. Il vento e nient’altro. Un vento spopolato. Quel vento, la dove agostinianamente più non cade tempo.
In questo spazio desolato il foglio di giornale è un relitto, uno scarto abbandonato che indica il passaggio umano, ma anche la scomparsa dell’uomo, la cui presenza, ormai spettrale, è suggerita anche dall’asfalto privo anch’esso di ogni funzione. In Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia un vecchio, ultimo superstite, riflette sulla possibilità di andarsene: «Eppure, non mi risolvo. Resto. / Mi lega l’erba. Il bosco / Il fiume. Anche se il fiume è appena / un rumore ed un fresco / dietro le foglie». Il bosco e il luogo della terra nel quale vige un tempo altro, che si contrappone a quello della citta, il luogo della storia, nel quale il rischio d’inautenticità e disumanizzazione è ancora più elevato, come mostrano i componimenti della sezione «Lilliput e Andantino». In Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia il tempo della terra viene contrapposto a quello dell’uomo:
Meglio – lo so – e ch’io vada prima che me ne vada anch’io. Eppure, non mi risolvo. Resto. Mi lega l’erba. Il bosco. Il fiume. Anche se il fiume è appena un rumore ed un fresco dietro le foglie. […] (L’acqua, da quanti milioni d’anni, l’acqua ha questo suo stesso suono sulle sue pietre?) Mi sento perso nel tempo. Fuori del tempo, forse.
In Ottone, un altro componimento del Muro della Terra incluso nella sezione «Feuilleton», ritorna ancora una volta il bosco, come luogo della natura nel quale vige un tempo altro rispetto a quello delle vicende umane: «E là, / in quella conca dove / (raro) il fagiano appare / nel bosco, che ora / vorrei finir la partita. / Là dove la vita stagna / (o sembra) senza / spinta di tempo. Il tempo / senza spinta di vita». Un ristagno della vita, o una vita ridotta ormai a brandelli, come quella esperita dai ben noti protagonisti beckettiani Hamm e Clov alla cui vicenda esistenziale, interpretata secondo le mosse scacchistiche di un finale di partita, si fa riferimento in questi versi. Adorno, nel celebre saggio dal titolo Tentativo di capire Finale di partita, identifica lo scenario in cui si svolge il dramma con il rifugio che ospita i sopravvissuti alla Seconda Guerra mondiale. In questo mondo tutto è ormai distrutto e i pochi sopravvissuti vegetano in attesa della fine, poiché sono accadute cose a cui in verità non possono sopravvivere nemmeno i sopravvissuti. A differenza che Fin de partie, nel Muro della terra non si giunge fino alla constatazione definitiva della fine della natura, anche se risulta chiaro che il ritorno al tempo primigenio nei luoghi deserti e spopolati protagonisti della raccolta è un’utopia. Questa regressione impossibile che si accompagna a quel sentimento di solitudine e straniamento al quale abbiamo già accennato: «Amore, com’è ferito / il secolo, e come siamo soli / – tu, io – nel grigiore / che non ha nome. Finito / è il tempo dell’usignolo / e del leone. […] Il liocorno / orma non ha lasciato / sul suolo». Pur non potendo parlare di scomparsa della natura, la permanenza di quest’ultima viene altresì messa in discussione anche attraverso immagini ibride degli elementi naturali: «mentre a piombo / […] nere / fiatavano costellazioni / i Fossi – spazzava il vento / – vuoto – sulle Tre Terrazze / il mio petto: il cemento»; «si perdeva col mare / d’alluminio – col morto / fumo della ciminiera / della cisterna, nel lampo / fermo che fermo scuoteva / la lamiera»; «Il viso tagliato dai fili / d’acciaio della pioggia»; «sotto i rottami / del cielo»; «La luce sempre più dura, / più impura. La luce che vuota / e cieca, s’è fatta paura / e alluminio». Queste immagini concorrono a dare vita alla rappresentazione di una natura antropizzata e meccanica, non più dominata da movimenti ciclici, ma in perenne pericolo. Tuttavia, troviamo anche un componimento nel quale la rappresentazione della catastrofe giunge fino alle sue estreme conseguenze, ossia alla cancellazione della natura, contemplata come realistico presagio per il futuro. A tal proposito Pietro Citati, dalle colonne del «Corriere della Sera» del 16 ottobre 1975 scrive:
«Là, il mondo reale esisteva... Ora qualche terribile catastrofe ha colpito il mondo. Non sappiamo quale, e forse perfino il poeta lo ignora... Tutto ciò che possiede un corpo un peso una dimensione, uno splendore sembra scomparso». Nell’Idrometra, il primo componimento della sezione «Il vetrone», il soggetto poetico ci trasporta all’interno di uno scenario desolato, di un mondo postumano, abbandonato da ogni possibile forma, riflesso o prospettiva di vita.
Di noi, testimoni del mondo, tutte andranno perdute le nostre testimonianze. Le vere come le false. La realtà come l’arte. Il mondo delle sembianze e della storia, egualmente porteremo con noi in fondo all’acqua, incerta e lucida, il cui velo nero nessun idrometra più pattinerà – nessuna libellula sorvolerà nel deserto, intero.
Si tratta di un presagio apocalittico illustrato da un io poetico che vede nella sparizione del mondo, ormai senza più sembianza né forma, l’unica possibile conseguenza delle scellerate scelte dell’uomo. Scrive Bertone in Letteratura e paesaggio: «Alla denuncia della perdita definitivamente appurata [...], così inappellabile e statica nella compostezza dell’enunciato, risponde nella seconda battuta e strofa la dinamica della prescrizione di un compito: il confronto con il ‘velo nero’, da condurre qui […] con agilità, eleganza, precisione geometrica, la precisione e l’eleganza dell’idrometra e della libellula». Questa riflessione, insieme con l’osservazione del mondo ridotto a deserto, con la dialettica natura/storia e con i presagi apocalittico –palingenetici, è motivo ricorrente anche nelle raccolte degli Anni Ottanta, Il franco cacciatore e Il conte di Kevenhuller, e nell’opera postuma Res amissa. Nella raccolta del 1982 il soggetto poetico si trova ancora una volta nell’impossibilita di oltrepassare il muro che lo circonda, fermo all’ultimo borgo, luogo che «assorbe e vanifica il cammino di chi vi è giunto assieme al mondo stesso. Un tratto ancora segnato dal muro della terra, un’immensa Citta di Dite che coincide con la vita stessa e imprigiona deserto e squallore»: «Un tratto / ancora, poi la frontiera / e l’altra terra: i luoghi / non giurisdizionali». Alla speranza verso un oltre che si rivelerà specchio dell’aldiquà si accompagna una rinnovata tensione, anch’essa sempre frustrata, verso la natura come luogo di salvezza dalla storia: «Non / lo sopporto più il rumore / della storia... / Vento / afono […] Il mare in luogo della storia...». Il tentativo di «sfuggire dal labirinto di sangue e di gelo della storia», come scrive Leonelli, è votato al fallimento, poiché «La storia è un mostro che vanamente si cerca di scacciare, arginare. […] L’accecante luce apocalittica che illumina le pagine del Franco cacciatore preclude la facile speranza di una palingenesi». Questo rinnovamento, per quanto arduo non risulta per il momento impossibile per l’uomo, come viene dichiarato nel componimento dal titolo Palingenesi:
Resteremo in pochi. Raccatteremo le pietre e ricominceremo. A voi, portare ora a finimento distruzione e abominio. Saremo nuovi. Non saremo noi. Saremo altri, e punto per punto riedificheremo il guasto che ora imputiamo a voi.
Il palingenetico percorso dalla terra alla storia (Raccatteremo le pietre / e ricominceremo) non può, però, che trasformarsi in un nuovo percorso di caduta e ricostituzione del paese guasto al quale si fa riferimento nei Versicoli quasi ecologici. In questo componimento, inserito in Res amissa, si compie il definitivo ribaltamento nel rapporto tra uomo e natura, poiché la scomparsa degli esseri umani rappresenta l’unica possibilità di salvezza per l’ambiente.
Non uccidete il mare, la libellula, il vento. Non soffocate il lamento (il canto!) del lamantino. Il galagone, il pino: anche di questo e fatto l’uomo. E chi per profitto vile fulmina un pesce, un fiume, non fatelo cavaliere del lavoro. L’amore finisce dove finisce l’erba e l’acqua muore. Dove sparendo la foresta e l’aria verde, chi resta sospira nel sempre più vasto paese guasto: «Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra».
Nel sintagma paese guasto ritornano echi sia danteschi sia eliotiani, è probabilmente però nel raffronto con Eliot che possiamo rilevare, in questo caso, una più profonda affinità di intenti. In The Waste Land la poesia si origina a partire da un’ardita operazione di montaggio di immagini letterarie, un assemblage che si rivela essere non troppo dissimile da quello compiuto da Caproni stesso. Infatti, nei Versicoli trova espressione una prospettiva rintracciabile «nel quadro della cultura e della letteratura italiana del Novecento», come messo in luce dall’analisi di Scaffai in Letteratura e ecologia In particolare, sono marcate le affinità tra i versi conclusivi di questo componimento ed il capitolo finale della Coscienza di Zeno: l’uomo è colpevole di aver inquinato la vita, distruggendo l’ambiente con le sue azioni scellerate. La sola possibilità di salvezza del pianeta risulta essere, per Svevo come per Caproni, la scomparsa dell’uomo, colpevole di aver dato avvio ad un perenne stato di conflitto sulla Terra, a causa del quale ogni ambito ha subito devastazione e desertificazione. Come scrive Scaffai, il tema della scomparsa dell’uomo può anche essere messo in relazione con quello caro all’autore della rarefazione del soggetto, però appare meno isolato all’interno della sua produzione se letto in continuità con le immagini postapocalittiche presenti già a partire dal Muro della terra. Il tentativo di presa di distanza da un punto di vista antropocentrico per mettere in evidenza la relatività della posizione umana rispetto all’ambiente percorre, infatti, a nostro avviso, buona parte della produzione dell’ultimo Caproni. Seguendo questo fil rouge si può evidenziare una trama sottile all’interno di queste raccolte, che dimostra la profonda complessità e l’estrema attualità della riflessione caproniana. ¬ top of page |
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