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MARIANO BÀINO, Prova d’inchiostro e altri sonetti, Torino, Nino Aragno, 2017, pp. 96, € 12.00.



Il titolo di questo libro edito da Aragno si riferisce all’azione sulla lingua sperimentata dal poeta mediante la forma metrica tradizionale più riconoscibile, quella appunto del sonetto, inteso in senso comico come cliché. In una prospettiva di questo tipo non è privo di importanza che il focus della prova, rispetto ai lavori precedenti di Bàino, si sia ora rovesciato, spostandosi sull’asse dell’effetto metrico/stilistico di uno scanzonato classicismo moderno. Azione contraddittoria dunque, come vedremo meglio più avanti – al modo di questo notevolissimo autore votato alla qualità dell’opera singola, che mai si ripete, lavorata di volta in volta secondo il progresso della tecnica letteraria (e Bàino, occorre ricordarlo, è stato cofondatore del Gruppo ’93 e della rivista «Baldus»): azione qui condotta con la strumentazione del sonetto, che il poeta dichiara di aver sperimentato attraverso l’esperienza lunga di «un laboratorio aperto da quindici anni», come avverte la nota conclusiva del libro. D’altra parte: «Un formalista indignato è una definizione che una volta ho usato per me  [ha spiegato l’autore nel corso di un’intervista del 3 dicembre 2017 pubblicata online sulla rivista «alfabeta2» (www.alfabeta2.it), dove compaiono alcune dichiarazioni significative che utilizzerò come chiavi di lettura della raccolta (l’intervista è stata rilasciata a Patricia Peterle ed Elena Santi, italianiste dell’Università di Florianópolis in Brasile)]. Quindi [puntualizza Bàino], in qualche modo, oppositore del mondo. Non nella sistematica totalità brechtiana (mancherebbe in ogni caso il sostrato di un progetto [non sfugga l’importanza di questo particolare dell’intervista, che il nostro poeta sottolinea in una civile prospettiva autocritica]), ma per effetto della contraddizione, la legge che domina la realtà. La poesia – riconosce in conclusione l’autore alludendo qui alle prospettive originarie ancora aperte sul finire del secolo breve, e in effetti oggi nebbiosamente disattivate – non cambia il mondo, ma il poeta ha il dovere di capire, di non fare il sonnambulo di fronte alle cose. Benjamin parlava di giusta qualità e di giusta tendenza. Se anche vi è stato il toglimento della seconda nozione, resta un esistente da criticare, verso cui non essere acquiescenti (i corsivi sono miei)». La lunga citazione dall’intervista di Bàino, con i concetti correlati di giusta qualità e di giusta tendenza, allude certamente allo scritto politico di Walter Benjamin L’autore come produttore, un discorso serrato, tenuto dal filosofo di fronte all’uditorio dell’Istituto per lo studio del fascismo il 27 aprile 1934, a Parigi. È un’analisi sociologica in cui Benjamin sosteneva che «la tendenza di una poesia può essere politicamente giusta solo se è giusta anche letterariamente. E cioè che la tendenza politicamente giusta include anche una tendenza letteraria». In breve, col suo discorso parigino Benjamin superava il problema sterile del rapporto tra forma e contenuto, introducendo nella sua critica ‘rivoluzionaria’ lo strumento della prospettiva dialettica: attraverso cui l’oggetto poetico veniva tolto dal suo isolamento, per essere collocato nel vivo dei rapporti sociali. E poiché questi venivano dati nell’ottica della dimensione sociale condizionata dai rapporti di produzione, il problema della produzione poetica veniva posto da Benjamin in termini materialistici, come problema di produzione artistica sul piano della tecnica. «La tendenza letteraria – ecco le conclusioni stringenti di Benjamin – può consistere in un progresso o in un regresso della tecnica letteraria». In questo quadro va certamente letta anche la relazione introduttiva al 1° incontro del Gruppo ’93 (svoltosi in occasione della VII edizione di Milanopoesia, 3-4 febbraio 1990), nell’ambito del quale veniva affermato il medesimo «criterio della tendenza, in assenza di orientamenti gerarchicocronologici (o di genere) del campo letterario inteso come intertestuale e sincronico» – cito dal sito web di Lello Voce (www.lellovoce.it), cofondatore del gruppo sperimentale con Biagio Cepollaro e Mariano Bàino. Senza ripercorrere i punti della discussione su avanguardia e sperimentazione – a cui presero parte tra gli altri Sanguineti, Giuliani, Pagliarani, Balestrini, Leonetti, con i giovani poeti Bàino, Voce, Cepollaro, Ottonieri, e Frasca –, possiamo dire che le posizioni del Gruppo ’93 ruotavano attorno alle strategie della contaminazione, che ormai subentravano alla «dicotomia tra lingua ordinaria e lingua seconda: [nel senso che] alla contrapposizione tra norma e scarto – così si legge nella relazione introduttiva all’incontro  –, si preferiscono diverse strategie di contaminazione in considerazione del fenomeno dell’estetizzazione propria alla comunicazione sociale». Come si vede, si tratta di dichiarazioni fondate su alcuni concetti fissati da Benjamin con gli studi sulle avanguardie e sui fenomeni artistici nella moderna società di massa. Ma non è difficile scorgere dietro queste notevoli considerazioni una questione storica essenziale, di cui lo stesso Bàino parla nell’intervista apparsa su «albabeta2», ricordando il significato della sua esperienza col collettivo sperimentale e della collaborazione alla rivista «Baldus». Intendo il fenomeno storico che Bàino individua nel «venir meno di molte antitesi del moderno […], fra cui la coppia norma-scarto – punto fondamentale per il Gruppo ’93, come abbiamo visto, che ritorna qui nel discorso del nostro poeta –, con la perdita di forza della parodia [altro punto essenziale, questo, se si considera quale importanza abbiano avuto appunto per il gruppo le tecniche della contaminazione]. L’indebolimento della polarità avanguardia-tradizione l’avevamo recepito chiaramente», ha infine spiegato l’autore napoletano, aggiungendo inoltre che il suo gruppo era ben consapevole sia della funzione distruttiva, ma vitalistica, esercitata dalla neoavanguardia, sia di quella «costruttiva e autocritica» portata avanti dal Gruppo ’93. Rispetto a queste premesse, la novità di Prova d’inchiostro e altri sonetti è giocata allora su un piano del tutto eccentrico, messo in risalto con l’ultima sezione del libro, costituito da sonetti in settenari intitolati a un carnevale minore: specchio comico in allegoria, che ci restituisce alcune immagini veneziane della moderna società liquida di cui ha parlato Zigmunt Bauman. Ed è, quella di Bauman, una prospettiva di analisi avanzata, nei sui ultimi anni invocata come direzione condivisibile proprio da Umberto Eco, teorico maggiore della neoavanguardia. Sia lecito riportare buona parte di un sonetto carnevalesco, notevole anche per il rovesciamento allegorico della conclusione, con la dissacrante scoronazione di una maschera regale. «c’è un deserto assoluto, / non un’anima […] // […] in assoluto / niente c’è al mezzo – eccentrico // idealizzarsi d’onde / nella piazza san marco / – rotola di un monarca // la corona – nascondere / che è di plastica, no, / non lo so se si può». Ritorniamo ora alla questione iniziale. Come accade tipicamente in Bàino, il titolo di ciascuna opera rivela uno spessore metapoetico: attiva una narrazione attorno al laboratorio del poeta (di cui ora l’inchiostro sparso della prova è evidentemente figura). I titoli delle opere di Bàino, inoltre, sono in linea di massima il prodotto di un montaggio realizzato attraverso il principio dell’interruzione – «il pezzo montato interrompe il contesto in cui viene montato», ha spiegato Benjamin nel suo discorso politico –; si pensi ad esempio all’eccellente Pinocchio (moviole), dove la tecnica del montaggio agisce, nella prospettiva critica di Bàino, sul modello assoluto di un riconoscibilissimo capolavoro per ragazzi. Ancora, leggiamo in questo senso i seguenti versi, dove è facile individuare il tema dell’eros frustrato, trattato nel secondo dei quattro blocchi organizzati a compartimenti stagni, in cui sono sistemati i sonetti. «[…] noi adesso siamo i visi / senza incontro di un giano e sto da solo // con lo spaniel che invecchia sul mattone / tiepido […]». Il testo è stato realizzato montandovi all’interno alcuni versi tratti dalla raccolta Lettera da casa (1951) di Attilio Bertolucci, «[…] // A quest’ora meridiana / lo spaniel invecchia sul mattone / tiepido […]». Si noti che i frammenti dell’originale sono stati manipolati, presumibilmente con l’obiettivo di ricavare un effetto ulteriore di ossificazione. Con quale scopo? Ciò che probabilmente ha voluto fare Bàino realizzando un montaggio di questo tipo è rimettere in moto il tradizionale effetto novecentesco dell’inarcatura – l’enjambement dall’energica infilata ritmica alla Montale, per intendersi, che è precisamente il modello del testo di Attilio Bertolucci: inarcatura che nella prova sperimentale è conservata nella sua identica forma originaria. Leggendo il libro di Bàino è facile intuire che uno degli obiettivi del laboratorio è ridare smalto precisamente a simili soluzioni tecniche. In ogni caso occorre notare che nei versi del testo di Bàino che abbiamo preso in esame, l’interruzione del contesto, con il procedimento del montaggio teorizzato da Benjamin, agisce alla rovescia, nel senso che ad essere interrotto nel sonetto è il decorso poetico del libro. Ciò accade proprio perché non ha più peso la «dicotomia tra lingua ordinaria e lingua seconda», e la tradizione non costituisce più il bersaglio centrale. Possiamo invece ipotizzare – nel caso del titolo di questo ultimo libro di Mariano Bàino, Prova d’inchiostro e altri sonetti – che abbia agito, nel sommerso della memoria poetica, il fiero, metapoetico, indimenticabile attacco che si legge nel romanzo in versi di Elio Pagliarani La ballata di Rudi (1995), «proviamo ancora col rosso».

Daniele CLaudi

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