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Zanzotto dal simulacro all’oîkos

di Luigi Tassoni

 

In: Semicerchio, LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 30-35.

 

 Il tempo storico e il tempo geologico

«Fin dall’inizio c’è stata un’identificazione tra il mio ambiente dove parlo e il me che parla»: così Zanzotto sintetizza, in una conversazione degli ultimi anni, la proverbiale relazione di osmosi con il proprio scenario naturale. Inteso dapprima come locus amoenus, luogo impresso di forti memorie e suggestioni, l’habitat via via si scopre come rivelatore di realtà soggiacenti o imprevedibili, che portano il poeta a reinterpretare sia la naturalezza del suo Montello sia la storia in esso tangibile sia il proprio coinvolgimento fisico e psichico di soggetto incluso in quell’immagine. Il primo passaggio avviene dall’«ammirazione del paesaggio», connaturata nei primi due libri, al presagio degli irreversibili «deragliamenti» che orientano diversamente la primitiva percezione elegiaca e il senso dell’avventura in bosco. Ma un più decisivo mutamento avviene quando al poeta si rivela la totalità del luogo come grande contenitore del passato: l’ingens silva delle sepolture, dei cippi, delle osterie, degli ossari, degli anniversari, delle reliquie, si costella di monumenti riguardanti un tempo storico in essa sedimentato, e insieme corrisponde all’immagine di una sostanza psichica tangibile come manifestazione sinottica della variabilità ciclica del cosiddetto (così detto dallo stesso Zanzotto) tempo geologico. Il bosco come insieme e mosaico a vari livelli è il simulacro di vuoti, mancanze, annientamenti, perdite, catastrofi, e contemporaneamente è la dimora riconoscibile, è l’oîkos resistente, anche se materialmente traumatizzato. Per quanto la lode del cerchio magico nativo, agli esordi, non sia incondizionata e indolore, la spinta iniziale di questa poesia si concentra sull’abitabilità della dimora intesa come sede di equilibri psichici e climatico-ambientali, oltre che effettivamente come tetto, cemento e mattoni. Lo scenario però è destinato ad ampliarsi di pari passo con l’ascolto degli scricchiolii di questa casa Usher, e in sintonia con le incursioni sempre più patologicamente e biologicamente sensibili nel simulacro apparente (bosco-casa-io). Nel 1980, in una delle sue folgoranti prose autoriflessive, Zanzotto spiega che il «corpo-psiche conta qualcosa solo perché è […] posto di osservazione rispetto all’ecosistema di cui […] ‘esprime’, o ‘inventa’ almeno alcuni significati, o frecce di senso, che altrimenti resterebbero in latenza, e così produce testi». Basta confrontare questa constatazione della maturità con un eloquente racconto del 1963, intitolato Premesse all’abitazione, per avere sott’occhio, e bene in vista, il modo in cui lo specifico della scrittura poetica si forma in una concatenazione di corrispondenze, io-corpo-casa-bosco-mondo, percorribile nei due sensi, laddove il poeta descrive la necessità di un modo di essere, nemmeno secrezione o escrezione, è come un cemento […] che per sisma sbalzi da strati; è un dato che al fondo di tanto stare e muoversi arriverebbe allo spogliarsi lucido e completo di un grumo, di un nodo. O meglio, auto in bozzolo, ridursi a realtà filata ma compatta senza più nulla al centro, che tuttavia sarebbe un nulla «infinitamente definito». La condizione autocosciente di questo modo di relazionarsi all’oîkos, con il bagaglio delle proprie instabilità, è realizzata nella scrittura poetica come filatura in senso grafico-visivo e fonico, e racconto del movimento di introspezione entro il paesaggio. Paesaggio, silva e kaosmos, eletto a simulacro del trauma, dell’inaccessibilità, dell’interdizione al tutto unitario in sé, e dunque tale da mettere in crisi la piena riconoscibilità ontologica di colui che parla nel e con il testo. La manifestazione di questa immagine della biologia umana, proiettata e di ritorno restituita dalla mappa dei riferimenti, procede per deviazioni, depistamenti, intrecci e un presagio di fondo. Lo avvertiamo evidentissimo nelle reazioni oniriche di Microfilm alla tragedia del Vajont (la nascita come la morte e la fragilità del mondo), oppure a proposito della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (l’identità esplosa, la polverizzazione del corpo, la cancellazione del nome, la masticazione, la riduzione al bburp dei fumetti e del rutto), oppure riguardo all’incalzante consumo di abitudini surrettizie, fittizie, alla sparizione disorientante di luoghi tradizionali come i mercatini, letteralmente ridotti al silenzio, e il proliferare di iper o super-mercati che li hanno divorati. Il presagio porta il soggetto interno al testo a riflettere in sé e riflettere su un’ecologia intossicata, come parte di una catena, frammento inscindibile (esemplare qui il sonetto IV di Ipersonetto, detto del decremento e dell’alimento, che insiste sulla catena alimentare dal nutrimento al trogolo). Nell’energia di una tale osmosi con l’insieme, la scrittura trae linfa dalla lettura: molte delle pagine critiche del poeta nascono dalla corrispondenza fra singole poetiche e referenti di tipo biologico, chimico, geologico, meteorologico. Mi limito a pochi istruttivi accenni. Leopardi, per cominciare, spiegato con la «necrosi da capire subendola, con l’ammettere la degenerazione dell’anima in un’esplosione di sue imprevedibili ‘varianti’, psicosi e neoplasie; col regredire, sempre più giù, lungo i gradi di quella che era stata un’ascesa, fino a una vita di animali, di piante, di strutture unicellulari, di virus» ; e Ungaretti: «sa […] che è possibile il paradosso della parola che è se stessa e insieme corpo-pietra, fin dalle origini, perché partecipa del viscerale, del vissuto, come faglia intrinseca alla natura di esso»; fino a Montale di cui privilegia «la scoria, il detrito, il residuo, riscontro di certo modo del vivere che sente se stesso come abiezione», nonché i «resti minerali vegetali e animali» , tanto che per quest’uomo-cosa l’«inferno è il ritrovarsi tra gusci, fanghiglie e frammenti di terra e di pietra in cui viene a risolversi la sua umanità, il sentire che ogni storia finisce col coincidere con quella dei detriti fisici, con la geologia . Ma c’è di più: la percezione dei nodi e dei vuoti nel simulacro come bosco e nell’oîkos (come iomondo), la sua esplosione, la situazione al collasso, il vaneggiamento, la sillabazione, il coma, divengono altrettante dimostrazioni di un’inaccessibilità aggirata attraverso il marchingegno grafico-fonico e ritmico-narrativo del testo. I rilievi di Zanzotto riguardo alla poesia di Hölderlin confermano certe peculiarità dell’immaginario boschivo e geologico del nostro poeta trasferite semplicemente al percorso interpretativo di un saggio memorabile. Annotiamoli in rapida sequenza: il paesaggio montano capace di salvare chi vi si immerge; l’ethos biologico come ricorso a una biodicea minima, e «la ‘memoria del futuro’ o futuro in cui torna la forza della memoria»; «i percorsi profondi dell’‘essere qualche cosa’ vengono […] tracciati dai residui di questa ‘radiazione fossile’»; i freddi paesaggi lacustri che divengono «sopravvivenze preziose, ‘eternità’ dolorose, trafiggenti» in una «natura salvata e salvatrice».

Percorsi nelle selve

Echeggiate intorno al testo, così proficue sollecitazioni non possono che farci ripartire dall’insieme della poesia di Zanzotto, sin dal suo primo libro, Dietro il paesaggio (1951), che dimostra l’esplorazione di un spazio protettivo ideale divenuto, dopo un ventennio, la selva-hýle di Il Galateo in Bosco (1978), luogo caotico di stratificazioni, sepolture, fioriture, cippi, fughe, furti, erotismo, leggende, rivisitazioni. Ecco, ad esempio, che l’endecasillabo di Equinoziale, nel primo libro, «celeste dono del silenzio è il mondo», propone il lascito originario del mondo derivato dal grande contenitore del silenzio. L’equazione dono-mondo è però in sé enigmatica per ciò che nasconde con il gioco allitterante, suggerimento di un ascolto silenzioso, notturno, equinoziale del paesaggio addormentato nella visione di cauta lode nel corteggiamento del corpo-bosco. Diversa evidenza si pone in Vocativo (1957), in una poesia molto citata qual è Esistere psichicamente, che porta già l’attenzione sulla dinamica che ci interessa. «Da questa artificiosa terra-carne», attacca un incipit che si completa nell’individuazione già netta del simulacro riconosciuto come bosco di elementi e sostanze, che degenerano e rigenerano: «da tutto questo che non è nulla/ ed è tutto ciò ch’io sono: / tale la verità geme a se stessa, / si vuole pomo che gonfia ed infradicia»; «chiarore-uovo / che nel morente muco fai parole / e amori». Gradualmente il simulacro matura verso il disegno dell’oîkos, come avviene ad esempio in IX Ecloghe (1962); penso alla ecloga VI in cui si immagina il guardante davanti al mare di Jesolo: «un mare di scorie nascite delizie/ mare d’azzurro semifossile / febbricitante fabbrica d’organismi». Così che il primigenio silenzio del dono-mondo impone ora un confronto con «l’informe mondo» di Prova per un sonetto, produttore di sostanze promiscue, come succede nei testi di La Beltà (1968), là dove si racconta di insidiose prove del caos, come la vigna di Renzo, le fughe menzognere del barone di Münchhausen, la canzone delle mille bolle blu, gli alchechengi, le fucsie, gli eliotropi, un catalogo di ricorsi intertestuali che sono residui di citazioni motivanti il più ampio paesaggio interno e esterno, visivo e mentale: «dietro l’eterno l’esterno l’interno (il paesaggio) / dietro davanti da tutti i lati» (Sì, ancora la neve). Diffrazioni, rotture, sospensioni, tagli, nel periodo ritmico-narrativo di Zanzotto, ora più decisamente in Pasque (1973), corrispondono a oggetti non dotati di eguali caratteristiche, e sono una chiara risposta teatrale, tragica e autoironica, alla percezione dell’adeguamento all’oîkos che si trasforma, mimetico come i versi che lo raccontano. È questa una fase ulteriore di ciò che Zanzotto, leggendo Hölderlin, aveva interpretato come memoria del futuro: un mondo di cataclismi e catastrofi in cui tutto succede in quanto tutto è già successo, e l’aggressione parla già da sé, essendo rimosso il velo rassicurante del simulacro, già interrogato nella ricerca di certezze in Dietro il paesaggio. Esemplare in questo senso è chele, in Pasque, che racconta di una passeggiata zanzottiana «tra ragnatele e chele / tra gelsi sopravvissuti» (con ricorso al microscopio delle stratificazioni in bosco), e termina con l’esortazione per gli occhi a stare buoni, a non vedere troppo, e implicitamente lo stesso avviene per le orecchie orientate agli ultrasuoni, «In timpani, in labirinti / in infinita auricolarità», come in una sorta di «terapia totale / onnivoca / onnivora», che si riduce nel testo alla sillaba-cellula inscritta in una nuvoletta da fumetto: «ehi! / sic!». Siamo nel bosco produttore di potenzialità sollecitanti, di interferenze, di deviazioni, che anticipa lo spazio rumoroso, intossicato, promiscuo, «tra tanti segni di intrichi topologici» (Euganei 2, in Conglomerati), quando avviene il riavvicinamento alla «misura / di tutte le misure». Il riferimento in Pasque è a una considerazione globale, ad esempio, di ombre-luci cieli-terre «come in un sogno / di fortissimo ozono» (Codicillo), perché c’è corrispondenza e sintonia fra la dinamica introspettiva e quella proiettiva, che si articola nella scoperta delle distonie, dei grovigli, delle mescolanze, delle sparizioni inesorabili. Questo immaginario dell’ambiente, percepito per accumulo, raggiunge l’acme in Il Galateo in Bosco tanto che, suggerisce il poeta, «l’accumulo di stili presente in quel libro era icona del bosco stesso». Il fatto è che l’intrico di storie, nature, corruzioni, inquinamenti, manipolazioni, è avvertito come realtà comunque in atto, realtà tangibile di un simulacro possibile come effetto di natura, biologico, storico ed ecosistemico, come scacco alla norma, tradotto in luogo per la necessaria e tragica convivenza e sopravvivenza storica e biologica, fisica e psichica. Ritroviamo l’oîkos entro il quale traspaiono le corrispondenze fra corpo, psiche e mondo. Nell’ampiezza delle incidenze e delle declinazioni esemplari del libro, che qui non posso purtroppo ripercorrere in dettaglio, mi limito a segnalare la qualità del riferimento al luogo di tutti i luoghi, che è complementarmente «gnessulógo», ambiente del niente e dell’annientamento come del tutto e della sopravvivenza, della micro-introspezione come della macro-prospezione; qui, nel bosco di un martoriato galateo, dove si produce una memoria promiscua, proprio la memoria del futuro. Spiega Zanzotto in Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto, rivolto a padre e madre: «in quel grandore dove tutti i silenzi sono possibili / voi mi combinaste, sotto quelle caterve di / os-ossa ben catalogate, nemmeno geroglifici, ostie / rivomitate ma come in un più alto, in un al di là d’erbe e d’enzimi / erbosi assunte / in un fuori-luogo che su me s’inclina e domina/ un poco creandomi, facendomi assurgere a». Corpo-ambientetesto qui formano un organismo unico, essendo ciascuno fuori di sé, ciascuno dentro di sé, come dotati di una memoria, una psiche, una mente coincidenti. Rileggendo oggi il libro, mi accorgo che la trilogia, voluta dal poeta con i due libri successivi, ha confini labili, tanto che se ne potrebbe allargare l’effetto ramificato fino agli ultimi tre libri zanzottiani, per via di un frequente autocitazionismo, della ricaduta di premesse che si rincorrono dal Galateo fino a Conglomerati, facendo pensare a una inclassificabile doppia trilogia incrociata. In Fosfeni (1983) riemerge il tema dell’instabilità dipendente dalla mutabilità dei riferimenti: la percezione del sé, il soma ciondolante incerto sulla neve, la variabilità meteorologica, la percezione di immagini fosfeniche indotte e spontanee. Ne sono esempio eloquente i versi di (Anticicloni, inverni): «Dove si forma l’intorno e s’acclima / ad altri sottili doveri e diritti»; «Orientata da folli fierezze e deficienze / e cupi idiomi / precipitata entro l’idioma / a moltiplicare le spine i ghiaccioli». Se nel libro agisce una sorta di discorso della singolarità percettivo-sensoriale, «Logos non intimidente e non sorridente / ma vincente in tutti i singoli fosfenici DNA / di queste tante, attive solitudini» (Righe nello spettro), in Idioma (1986) la premessa porta al nome «scoppiato e disseminato» (Il nome di Maria Fresu), all’indistinzione della vocalità televisiva, ancora a «fosfeni a cascate, acufeni di gloria gloria e gloria» (Sfere), all’invisibilità delle figure disegnate in dialetto, Onde éli e Mistièroi, allo scollamento dei nomi sulle familiari lapidi del XXV aprile, con quel verso apodittico che si leva sull’immagine confine di prati e forre, «e il silenzio non dista dal grido», a significare che il trauma dell’invasività riguarda il corpo, il nome e la parola, sepolti ed esplosi, come l’habitat, la memoria, la psiche. Anche qui la ricezione è fosfenica, ovvero, come chiarisce il poeta: «Sono ghiacci, geli, nebbie, galaverne, nevi e colori […] in cui qualcosa trabocca, guardandolo, oltre la sua stessa presenza». Come in Fosfeni agisce una ricezione che impressiona, fotonica, da fotoricettori che impressionano la retina, interni alla palpebra chiusa o a occhi aperti, così l’oîkos che si configura anche nell’incertezza del riferimento, della nominabilità, accoglie l’indicazione dell’idioma, lo ha ricordato Cacciari, come «comunità (heilige Gemeinde, per Hölderlin) di io-noi e paesaggio, di segni e terra […] e germinante chaos». In linea con quanto dico, l’emergenza di Meteo (1996) è in bella vista, al posto d’onore nel testo d’apertura, per di più in versione autografa: «Sangue e pus, e dovunque le superflue / superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi; / un teleschermo, fuori tempo massimo, / Dirette erutta e Balocchi». L’immaginario riprende le antiche predilezioni, come in un progressivo avvicinamento all’adeguamento conglomerante dell’ultimo libro, e le inserisce nella centrifuga delle associazioni, delle evenienze, là dove il sublime e l’idiota entrano nella medesima catena evolutiva, degenerativa e rigenerativa. Meteo, naturalmente, riprende l’antica ossessione dell’instabilità climatica, e ne emerge la scelta di costanti che dimostrano la possibile ripetibilità dell’esperienza in bosco, la non completa dissoluzione della percezione. La vitalba, il tarassaco, il pappo, i papaveri, i topinambùr, ad esempio, che nuovamente compaiono fino all’ultimo libro, sono le presenze ritrovate con consuetudine familiare, e allo stesso tempo sono apparizioni minime, segnali di confini percepibili del paesaggio, ancora riconoscibile, e con esso di quel qualcosa sepolto sotto, «ricchissimo nihil» (Quanto mai verde dorme). Pensate alla contraddizione risolta con quest’espressione: il nihil che è come una sedimentazione piena nel luogo degli infiniti e delle demenze-dimenticanze, cioè il bosco dei sentieri e delle piccole passeggiate traballanti, alla Charlot, di colui che ricorda anche le divagazioni e le diversioni sul Ventoso di Petrarca, ma anche il bosco polisemico delle infinite possibilità. Ciò che è raccontato in Sovrimpressioni (2001) è sì per continuità l’immedesimazione dell’io nella complessità boschiva, ma in più con un’attenzione particolare all’attrazione e seduzione dell’uomo «assorto-assunto» nei luoghi freddi e inabitati del bosco (Verso i Palù). Sovrimpressioni vuol indicare intrecci, grovigli, incisioni (persino tatuaggi), entità invasive, pungenti, ancora stratificazioni. C’è qui una scena emblematica che è quella della carità romana, in OGM?, là dove il padre avvelena la figlia che a sua volta lo nutre con il latte tossico, generando una catena intergenerazionale. In una nota il padre-poeta così lo spiega: «Il padre velenoso in quanto possibile interprete di veleni attuali e dei loro linguaggi genererà un ghost, una “figlia” che gli rinvierà col suo latte malsano l’insieme ingigantito dei suoi mali». Fra l’altro proprio OGM? descrive il mostro alla Frankenstein, la mostruosità di aggregati posticci o promiscui, e quella di figure emerse in modo inquietante proprio dalla natura e che, anche se innaturali, dimostrano comunque la ricomparsa del fantasma, quella «luce shocking» come nelle reazioni chimiche, come via d’uscita, di cui il poeta parla nel seguito della nota appena citata. Si tratta di una conferma e di un ritrovamento, collegati all’invasività operata sulla catena genetica, a una sua destrutturazione e diverso orientamento, capaci di generare sia veleni e mostri fantastici che illusioni visive per la nutrizione, creature di un bosco delle sorprese (e fra esse le meraviglie dell’Angelica ariostesca): «Quale creatura dal simulacro all’oîkos fu mai quell’enorme / cespuglio di verdissimi capelli spinati», «le sue torsioni di tendini e obliquità e ubiquità / con intreccio di seduzioni e d’insidie- / che lucentezza, che ebbrezza / di rabbiose farmacie, d’invidie»; «In quante specie di combustioni convulsioni / che spingono tutto il mondo intorno / e le cavità caine / a un futuro a un rovescio senza ritorno?».

L’estremo conglomerarsi

Una prosa del 2006, Il paesaggio come eros della terra, ribadisce il motivo conduttore della poesia di Zanzotto, ovvero quel «gioco che si svolge all’interno dell’io, all’interno del cervello, che però noi dobbiamo riconoscere a sua volta inserito dentro il paesaggio, orizzonte dentro l’orizzonte: orizzonte psichico (stabilito dal paesaggio percettibile) dentro orizzonte paesistico (inglobante, sempre eccedente, sempre ‘più in là’ rispetto alle effettive potenzialità dell’esperienza umana)». Davanti, dunque, al sovrappiù di senso connesso al proprio habitat, il poeta indica la specificità dell’oîkos quando lo definisce inglobante, e che è tale a patto che il corpo-psiche dell’io si compenetri in questa entità mai del tutto conoscibile, e perciò stesso inesauribile. Il movimento è a doppio senso: il luogo accoglie in quanto è accolto nell’io che risponde alla «voglia […] di introiettarli [i luoghi] quasi fisicamente, tanto sono vibranti di vitalità intrecciate e dense». Questa reciproca compenetrazione è rispecchiata nel titolo dell’ultimo libro, Conglomerati (2009), che descrive il conglomerarsi in varie dimensioni rispetto al bosco, simulacro e oîkos, entro il quale, come il poeta intuisce in un’intervista degli stessi anni, «affiora la testa del dinosauro, evocatrice della scommessa tra la nostra storia mediterranea e il senso della storia geologica». La sopravvivenza, lo abbiamo visto, comporta l’introiezione del veleno, l’automasticazione, la masticazione a vuoto, le concrezioni del cataclisma quotidiano, persino «l’istupidimento mediatico e ludico», la dimenticanza, la demenza, il cedimento psico-fisico, e all’esterno anche il conglomerarsi dell’abusivismo, la riapparizione di città fantasma come nel caso di Fu Marghera (?), annientata e poi riesumata. Il «groppo o costellazione di massi» sostituisce il labirinto dell’originaria passeggiata in bosco, «centro e peso di un tutto / fratto e irrelato e / maciullato e / accovacciato in / mille incidenze / ultra-coscienze / ultra-demenze / riallacciati e sciolti» (Crode del Pedrè. Prima versione). Di modo che si configura un nuovo passaggio nella poetica zanzottiana: lo scenario del tempo geologico è necessario a rendere meno incerto e traballante, ma anche meno immediato e smemorato, il tempo storico, perché oppone la dilatazione delle ere alla demenza del presente: «Ho camminato per ere / in questo fecondo deresponsabilizzante / elisir di grigiori-dolori» (Un grigio compatto). L’immagine del rogo, di cui si parla in Sovrimpressioni (vedi Primizie del primo mese), diventa immagine di «rogo alchemico e boreale», «che inabissa in passati e in futuri» (E di notte s’avventa anche il rogo). Dunque, ritorniamo su Fu Marghera (?): il poemetto in 5 movimenti parte dal vuoto inteso come abbandono, «l’abbandono è crollo disarticolazione», del mostro a cui mancano ora i denti, raffigurazione inquietante di «puri colmi di morte della stessa morte», «sotto sputi di Arpie», visibile per gli «scheletri rimasti delle stesse fiamme / paralizzate», là dove la morte stessa è «impegnata / a farsi fantasma di se stessa», ambiente «di chimici spettri». Qui si fa visibile, nel luogo infernale sospeso con i suoi fantasmi, la cosiddetta «muffetta»: «Muffetta del pianeta o grattugiato / pan di legno munito / di un logos comunque sconfitto», che in una nota al poemetto così è spiegata: «Sembra, solo, l’umanità, un’insignificante muffetta che appena sopra lo zero […] ha attecchito sulla terra, essendosi poi anche rivelata velenosa a sé e a tutto». Siamo di fronte alla rappresentazione dell’elemento devastante, infernale, distruttore, che a sua volta viene devastato, svuotato, disanimato, come in una catena di degenerazioni: il fantasma di un fantasma. E tuttavia la poesia stessa continua a essere, fino all’ultimo libro, una risposta al richiamo vocativo, un probabile adattamento alla diversione della storia tesaurizzata in bosco e rivissuta ora nello scarto progressivo e prospettico del cosiddetto tempo geologico. Basti leggere i versi che ci parlano ancora del cortile di Farrò, in Conglomerati, rivisitato come «fantasma presente», che si apre a nuove emergenze: «Eppure qui mi convochi / a farmi una ragione / ad accasarmi una ragione nelle ra- / dianti neoformazioni pseudocollinari». Tentativo che può assumere l’immagine di una realtà riemergente con il riferimento a luoghi privilegiati. Come è Dolle, già in Dietro il paesaggio, qui detto «toponimo irreale di una realtà», «perché sei / una cartolina inviata dagli dèi», come le memorie che arretrano travalicando la stessa storicità e biografia: «là dove mille memorie preistorie / con gioia mi vi ti ci partoriscono» (Forre, fessure 2). La differente condizione dell’estremo conglomerarsi di quel personaggio che nella scrittura poetica racconta e si racconta, mentre la sua voce ci guida nello spazio vitale tra selve e lagune, abitazioni, cippi, sentieri, appare chiarissima in uno dei testi finali dell’ultimo libro, Non ho più odio per l’aprile. È qui che Zanzotto conclude il suo diario, ricapitolando (senza capitolare) l’esperienza di cercatore in un mondo tangibile introiettato e insieme fagocitante, perché in questa poesia il conglomerarsi del personaggio stesso ripercorre la climax dell’intera mappa dei riferimenti del poeta: «come un fante / mi rannicchio nel seno più lasso d’aprile». La stagione terribile non fa più paura, non respinge, la reattività si neutralizza, e il fante che si rannicchia ritrova con l’identità del soldatino ungarettiano sul Carso e il gesto leopardiano l’immedesimazione nel suo proprio oîkos, docile fibra e indifeso come archeologia da destinare al futuro. E come una concrezione che accoglie ed è accolta nel «volatile / volubile senso» dell’aprile, la stagione infernale delle allergie, del gelo psichico e climatico, non più respinto da «maledizioni-forsizie», ora che è parte costituente delle «avventure horror/ gli eventi strabici d’aprile», nel luogo di tutti gli accadimenti, delle esplosioni, delle metamorfosi, delle sparizioni e dei ritrovamenti. E il corpo, come da manuale «lasso», rivive l’istante di una percezione, forse ancora un antico «pensier di non pensier», e può ritrovarsi conglomerato fra le cose e in sé come cosa: «E in asso per un istante lascio ogni me stesso», dunque si abbandona, si dona, mentre si ingloba, si riconosce nell’oîkos storico e geologico che ha nuovamente ritrovato come dimora finale.


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