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L’haiku francese e il tema della natura minacciata

Di Tommaso Meozzi

In: Semicerchio, LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 41-45.  

 

Il libro Cent haïkus pour le climat (2017) di Laurent Contamin nasce da una precisa volontà di collaborazione tra l’autore e la comunità scientifica del Laboratoire des Sciences du Climat et de l’Environnement (LSCE), e si inserisce nella già notevole tradizione dell’haiku in lingua francese. La scelta dell’haiku per approcciarsi al tema del cambiamento climatico non è causale, ma riflette lo stretto legame tra questo genere poetico, fiorito in Giappone nel XVII secolo grazie a Matsuo Basho¯, e la natura. Scrive Contamin nell’introduzione alla sua raccolta: «En effet, le haïku classique se réfère toujours à l’une des quatre saisons et saisit le plus souvent un élément naturel (végétal, minéral ou animal) qui résonne avec le paysage intérieur du poète qui le laisse éclore». Questa dichiarazione dell’autore presenta un primo problema a livello teorico: in che misura la natura descritta nell’haiku riflette l’interiorità del poeta – «le paysage intérieur» –, dando forma simbolica ai suoi sentimenti? La domanda è ancora più rilevante se ci si focalizza, come si propone di fare il presente studio, sul tema della natura minacciata e, in particolare, del cambiamento climatico. Si tratta di un tema di forte attualità, che allude innanzitutto ad una minaccia ‘reale’ – non simbolica – per la vita sul pianeta terra. La completa simbolizzazione della natura rischia, in questo contesto, di vanificare il possibile effetto di sensibilizzazione che il testo può avere sul lettore. Prendiamo ad esempio uno dei cento haiku contenuti nel libro: «Je rêve parfois / de troupeaux blancs d’icebergs / au large de Terre-Neuve…». Il componimento gioca con la forma classica dell’haiku, solitamente riconducibile alla ciclicità della natura e al ritorno delle stagioni, presentando uno sconvolgimento delle consuetudini ambientali: l’aumento esponenziale dei blocchi di ghiaccio sulle coste dell’isola di Terranova. Questa immagine, introdotta esplicitamente come sogno – «Je rêve» – provoca effettivamente una maggiore coscienza del cambiamento climatico e del rischio ambientale ad esso legato, o produce piuttosto un generico sentimento di stupore, tutt’al più riconducibile al sublime che si sprigiona di fronte alla forza dirompente della natura? Non si tratta qui di dare una risposta univoca alla domanda, ma piuttosto di porre il problema da un punto di vista teorico. D’altra parte, il senso di stupore causato da un improvviso rovesciamento è uno degli aspetti formali caratteristici dell’haiku, come indica Contamin stesso: «Très codifié à l’origine (thématique liée à l’une des quatre saisons, métrique en dix-sept pieds répartis en 5-7-5, moment d’étonnement spontané, d’épiphanie dont le bouddhisme zen a le secret)» . In quali modi questo stupore riesce a stabilire, in Cent haïkus pour le climat, una positiva sinergia con l’opera di sensibilizzazione e divulgazione che il testo si propone di compiere rispetto al problema del cambiamento climatico? Ricordiamo che la collaborazione tra Contamin e il LSCE nasce per iniziativa di un ricercatore del centro stesso, Gilles Ramstein, Tommaso Meozzi.  L’haiku francese e il tema della natura minacciata dal modo in cui una precedente opera teatrale di Contamin, Tête de Linotte, riusciva a rendere accessibile al grande pubblico i temi della neurobiologia: «Je suis à la fois étonné du résultat et émerveillé par la création, par l’invention, par la mise à disposition pour un large public d’une substance scientifique totalement modelée, retravaillée» . Stupore e riflessione si pongono dunque essenzialmente come i due poli che questa raccolta di haiku si propone di conciliare. Sfida del lavoro critico è invece, attraverso un’attenta analisi testuale, valutare i risultati e individuare le modalità di questa conciliazione. Nel corso dell’analisi si confronterà la raccolta di Contamin con altre due raccolte di haiku che forniscono importanti testimonianze sulla ricezione del genere nella cultura francese: quella curata da Jean Paulhan, ospitata nel numero del settembre 1920 della «Nouvelle Revue Française», e quella uscita nel 2003 a cura di Jean Antonini. L’elemento principale di raffronto sarà l’interazione tra uomo e natura e il progressivo affermarsi a livello tematico di una natura minacciata. L’antologia di Paulhan ripropone alcuni haiku di Paul Louis Couchoud, contenuti nella raccolta Au fil de l’eau (1903). Tra i versi di Couchoud troviamo un esempio in cui è l’uomo ad essere minacciato dalla natura: «Le fleuve mal endormi / Fait vivre dans la terreur / Le village pelotonné» . Il fatto che l’elemento umano sia evocato da un’entità collettiva come il villaggio, e in generale l’assenza di toponimi, portano ad astrarre da ogni riferimento concreto, individuale, inserendo l’immagine nell’ambito di una lotta senza tempo tra uomo e natura. Nella stessa antologia sono tuttavia raccolti anche gli haiku di Paul Éluard, riuniti sotto il titolo Pour vivre ici. Qui è l’uomo a prevalere sulla natura, sebbene ancora in forma ironica. Il classico rapporto tra l’haiku e una delle quattro stagioni perde di significato nel momento in cui l’uomo, modellando la natura, può creare una sua personale quinta stagione: «Palissade peinte / Les arbres verts sont tout roses / Voilà ma saison» . È però nell’antologia di Antonini che emerge decisamente il tema dell’uomo come minaccia per la natura. L’immagine dell’uccello cosparso di petrolio, ormai entrata nell’immaginario collettivo, è fonte di ispirazione per due diversi autori. Jean-Marc Demabre scrive: «Dérive des oiseaux / tels des fantômes mazoutés / sur une mer d’huile» . Gli fa eco l’haiku di Irène Gaultier-Leblond: «Graffiti amer, / Un goéland mazouté / Signe sur la mer». Se il primo testo sembra piuttosto espandere la portata scenica dei «fantômes mazoutés», il secondo opera un rovesciamento straniante di prospettiva: la consueta distanza tra il linguaggio umano, che presenta un alto grado di astrazione, e la natura silenziosa implode nel momento in cui, nel secondo verso, i graffiti amari vengono incisi dal corpo del gabbiano sul mare, o addirittura coincidono con la carne del gabbiano – nel caso che si intenda il termine «Signe» come sostantivo. Al di là di ogni tentativo di autorappresentazione, l’umano rivela la sua essenza nel linguaggio vivo di quella natura a cui ha inflitto sofferenza. Il terzo verso avvicina in modo sintetico l’elemento umano e quello non umano, proprio nel momento in cui mantiene la distinzione: la firma del gabbiano lascia la propria testimonianza sul mare, su quell’elemento da cui ogni vita proviene, compresa la vita umana. Se la colpa dell’uomo è chiara, imperscrutabile è invece il mistero su cui i graffiti si incidono, e dunque il giudizio. Sebbene l’aggettivo «amer» connoti moralmente i graffiti, l’haiku sviluppa tutta la sua forza espressiva attraverso un’inversione del rapporto tra umano e non umano (scrittura e materia, res cogitans e res extensa) che porta alla sospensione del giudizio. Come sostiene Niccolò Scaffai in Letteratura e ecologia, i testi più interessanti per comprendere il contributo specifico che la letteratura apporta all’ecologia si rivelano essere proprio quelli che mettono in atto un processo di straniamento: ribaltamento di prospettive, che si attua tra umano e non umano […], tra domestico ed estraneo. Mi riferirò al concetto di straniamento in questa accezione; il procedimento, articolato nelle fasi della naturalizzazione e della defamiliarizzazione, contribuirà infatti alla distinzione tra il tema della natura e del paesaggio, pressoché universale perché diffuso con vari risvolti nella letteratura di ogni epoca e tradizione, dal nostro oggetto specifico, cioè l’ecologia nella sua relazione con il testo letterario. Comprendere il nesso tra letteratura e ecologia in termini di straniamento consente di evitare sia l’utilizzo di un concetto ingenuo di natura, che quello di una civilizzazione separata dai suoi legami con l’ambiente. Non si tratta tanto di stabilire nuove categorizzazioni e di considerare la letteratura come «un modo attraverso cui l’essere umano rappresenta i propri valori», ma piuttosto di causare un cortocircuito all’interno delle categorizzazioni esistenti, aprendo così lo spazio all’interpretazione. L’haiku, come afferma Dominique Chipot, opera al di là di un’affermazione esplicita di senso: «La finalité du haïku, quel qu’il soit, est de partager un instant en suggérant, plus qu’en exprimant clairement, son ressenti». Una posizione simile è quella sostenuta da Roland Barthes nelle pagine che, in L’empire des signes, dedica all’haiku: «le travail de lecture qui y est attaché est de suspendre le langage, non de le provoquer […]. Le Zen tout entier mène la guerre contre la prévarication du sens»13. Continuando l’analisi dell’antologia di haiku curata da Jean Antonini, si riscontrano casi in cui la natura minacciata sembra poter prendere la sua rivincita. Nei versi di Anick Baulard ciò avviene a livello fantasmatico, attraverso un’immagine che improvvisamente risveglia la coscienza dell’uomo e sembra alludere ad una prossima catastrofe: «Craquement de poutre, / réveil en sursaut… vengeance / d’une forêt morte». Qui il processo di straniamento porta ad un recupero dell’origine biologica, vivente del materiale utilizzato dall’uomo a scopo funzionale. Marianne Ferry prospetta invece uno scenario distopico, interrogandosi sulla sua possibile realizzazione: «Est-il vrai qu’un jour / il n’y aura plus d’oiseau / dans le ciel d’argent ?». L’argento, materiale che caratterizza lo splendore degli artefatti umani, viene associato allo splendore del cielo. In questo modo l’assenza degli uccelli diventa una ferita inflitta non solo alla natura non umana, ma anche alla percezione estetica e, conseguentemente, al processo di civilizzazione. In un altro haiku di Jean-Marc Demabre è messa in atto una dialettica complessa, che non oppone semplicemente la minaccia umana alla natura distrutta, e che merita di essere analizzata. Ecco il testo: «Le sachet plastique / en vol l’hiver sur le pavé / donne un peu de vie». In questo caso il sacchetto di plastica, elemento artificiale e inquinante, diventa sorprendentemente un segno di vita nel paesaggio invernale. La riflessione sul problema ecologico sembra essere trascurata a favore di un’istintiva attrazione umana per il movimento, tanto più intensa quanto più lo stimolo esterno – il sacchetto – è svincolato dalle sue cause sociali e associato a un movimento emotivo. Si potrebbe inserire questo haiku tra quelli in cui la realtà esterna è completamente riassorbita nella simbolizzazione operata dal soggetto. In realtà la natura, come elemento che resiste alla simbolizzazione, è presente, anche se invisibile e non esplicitamente menzionata: si tratta del vento che muove il sacchetto secondo una forza che sfugge a qualsiasi finalità umana. Si stabilisce così una sinergia tra simbolo e realtà esterna: il sacchetto di plastica, rifiuto della civiltà non più integrato nel suo insieme funzionale, può divenire simbolo del ‘soffio’ vitale nel momento in cui interagisce con l’elemento naturale che lo svincola dalle finalità stabilite dall’uomo. La natura rivela il suo potenziale positivo non in quanto incontaminata – il secco termine «hiver» sembra quasi alludere ad un’inospitalità che legittima lo sforzo della civilizzazione – ma come accettazione del movimento, fondamentale all’interno di ogni civiltà che voglia sostenere la vita. Gli haiku di Cent haïkus pour le climat che meglio riescono a stupire il lettore, senza lasciarlo però in balia di un onirismo solipsistico ma incitandolo a riflettere, sono proprio quelli che operano un rovesciamento straniante tra dimensione sociale e naturale. Ecco un esempio: «Une planète plus chaude / ça voudra sans doute dire / un monde plus violent». Analizziamo il processo di straniamento. Nell’immaginario di massa è presente una visione polarizzata del cambiamento climatico, che ruota attorno a due posizioni radicalmente opposte: da una parte l’innescarsi di reazioni a catena in grado di portare l’esistenza umana all’estinzione; dall’altra l’ottimismo incosciente di chi considera queste previsioni troppo catastrofiche e, in definitiva, solo delle ipotesi che non hanno alcuna certezza. L’haiku scardina questa opposizione: il cambiamento climatico non è presentato come un evento apocalittico, in grado di mettere fine una volta per tutte alle sofferenze umane, e neanche come fenomeno accessorio che non può intaccare la civilizzazione. Gli effetti del cambiamento climatico ricadono completamente nell’umano, nella sua dolorosa persistenza: un pianeta più caldo significa la riduzione degli spazi abitabili, e dunque l’inasprirsi della lotta per le risorse e della violenza. Né la salvezza né la viscerale euforia che si accompagna ad ogni racconto della fine riescono in questa prospettiva a liberare l’individuo da una presa di responsabilità. Seguendo una prospettiva inversa, la tutela della natura è associata, negli haiku di Contamin, alla riscoperta della solidarietà nell’ambito dell’umano: «Atténuer le réchauffement : / et si c’était réapprendre / à penser aux autres ?»; «Comment vivre ensemble ? / c’est la question qui nous pose / le défi climatique». Un altro efficace effetto di straniamento contenuto in Cent haïkus pour le climat è il seguente: «Que comprends-tu, toi / du réchauffement climatique, / petite libellule ?». I primi due versi sembrano rivolgersi direttamente al lettore, chiamandolo in causa con decisione attraverso la ripetizione del pronome «tu, toi». Quello che sembra quasi un rimprovero è tuttavia improvvisamente ricontestualizzato dall’ultimo verso: l’interlocutore non è un essere umano ma una «petite libellule». Il cambio di interlocutore dà retroattivamente all’intera allocuzione un senso nuovo, diverso. L’animale infatti non ha la possibilità di comprendere le cause che hanno condotto al riscaldamento climatico, ma ne subisce passivamente gli effetti cercando al massimo forme di adattamento. L’ultimo verso, proprio mentre stabilisce una distanza incolmabile, quasi ironica, tra l’essere umano e il piccolo insetto che non può decodificare il linguaggio, apre un legame inedito tra la coscienza dell’uomo e l’incoscienza – almeno presunta – dell’animale. Si tratta di un legame che include due diversi aspetti. Da una parte è proprio il divario tra coscienza e incoscienza a porre il problema morale: come può l’uomo decidere della vita di un altro essere vivente che non è in grado di comprendere questa decisione e di difendersi? D’altra parte l’allocuzione, proprio mentre sembra disinteressarsi dell’interlocutore umano, lo recupera per via associativa: quanti esseri umani si trovano o si troveranno, a causa del riscaldamento climatico, nella posizione della «petite libellule»? Se i primi due versi potevano suonare come un rimprovero, e dunque suscitare meccanismi di difesa, il rovesciamento causato dall’ultimo evoca sentimenti di pietà e di responsabilità verso gli esseri viventi, senza distinzione. Anche nel modo di descrivere l’aggressività umana è possibile riscontrare, negli haiku di Contamin, un processo di straniamento, che emerge soprattutto attraverso il confronto con le raccolte precedenti di haiku francesi. Prendiamo ad esempio un haiku di Jean-Pierre Poupas, contenuto nella raccolta di Antonini: «Au bord de la route / Il attend ses graines de plomb / Le faisan d’élevage». Attraverso un’apparizione improvvisa, inaspettata, si evidenzia la forza predatoria dell’uomo, che ha ormai ottenuto il controllo completo sulla vita della sua preda. Nella raccolta di Contamin, la forza espressiva non è più data dalla violenza dell’uomo sulla natura. L’essere umano è chiamato in causa non su un piano direttamente morale, ma, in senso lato, economico: «Prédateurs idiots / pourquoi casser les équilibres / dont dépend notre vie ?». In questo caso la qualità predatoria è accettata come intrinseca alla specie umana: ad essere messe in discussione sono invece le strategie che l’uomo utilizza per ottenere il proprio profitto, e che rischiano di essere controproducenti. Anche un predatore ha infatti bisogno di essere in equilibrio con il proprio ambiente e, possiamo dire, di una ‘casa’. È interessante a questo proposito sottolineare il nesso etimologico che lega i termini ‘economia’ e ‘ecologia’: il primo, dal greco ‘oikos’ (‘casa’) e ‘nomia’ (‘legge’), indica le leggi attraverso cui la casa è amministrata; il secondo presenta la stessa radice ‘oikos’, e si riferisce alla scienza (‘logos’) della casa. Il problema dunque è comprendere quale sia la casa dell’uomo, quali siano gli elementi che, da un punto di vista economico, se si vuole anche egoistico, rendono possibile la sua esistenza. L’haiku di Contamin ci ricorda che, in questa prospettiva, l’uomo non ha scelto la sua prima casa ma che da sempre ci si trova immerso. Rovinare questa dimora primigenia significa andare inevitabilmente incontro ad un inasprirsi delle proprie condizioni vitali. L’attuale rischio ecologico, avendo una portata globale, sposta così le premesse dell’agire etico dalla sfera morale ad una economica che considera prima di tutto l’interesse dell’uomo stesso. A questo proposito scrive Serenella Iovino: «Quello che adesso non è più possibile ignorare è […] che il dominio dell’uomo sull’uomo a cui si accompagna il dominio, spesso ancora più assoluto dell’uomo sulla natura, rischia di minare il benessere e la sopravvivenza di entrambi». Sottolineare la necessità di una prospettiva ‘economica’ illuminata sembra essere più efficace di ogni affermazione di principio tesa a dimostrare la «convinzione che la specificità umana consista principalmente nella messa in atto di pratiche responsabili». L’analisi ha mostrato come l’haiku possa offrire una prospettiva straniata sul rapporto tra uomo e ambiente proprio rifiutando di imporre un esplicito messaggio morale. L’ecologia testuale si caratterizza così non solo da un punto di vista tematico, ma anche in relazione ai modi in cui il testo chiama in causa il lettore discretamente, senza pretendere di colonizzarne ideologicamente l’interpretazione. La sintesi è uno degli elementi formali dell’haiku attraverso cui questa ecologia testuale si realizza. Riprendiamo i versi di Contamin: «Une planète plus chaude / ça voudra sans doute dire / un monde plus violent». L’affermazione del secondo verso – «ça voudra sans doute dire» – cade nel vuoto nel momento in cui il terzo verso non offre una banale spiegazione, ma il risultato di un processo sintetico di pensiero che lascia i passaggi intermedi impliciti e offerti all’interpretazione. Anche la cesura, causando una sospensione del giudizio, contribuisce al distendersi dell’orizzonte interpretativo. In questa prospettiva è possibile riconoscere nella tradizione francese dell’haiku una caratteristica peculiare, che lo differenzia dalla tradizione classica giapponese: il tentativo di fissare non più scene naturali, ma processi di pensiero franti, che prima di giungere ad una conclusione rivelano un senso plurimo, aperto. Alcuni degli haiku già citati si pongono esplicitamente in forma interrogativa, lasciando al lettore la libertà di trovare le proprie risposte. La definizione di Roland Barthes «le haïku n’est pas une pensée riche réduite à une forme brève, mais un événement bref qui trouve d’un coup sa forme juste», resta dunque efficace solo nel momento in cui si comprende nella nozione di «événement» anche l’evento del pensiero, considerato nella sua processualità, e non solo in base ai risultati. In conclusione, anche se si può dubitare dell’effettiva possibilità che la poesia ha di risvegliare la coscienza ecologica su scala di massa, è emerso come l’haiku, nel momento in cui adempie le sue prerogative estetiche di sintesi e straniamento, sia in grado di promuovere, almeno nel lettore attento, un uso ecologico del linguaggio, in cui la parola è affermativa solo nella misura in cui interroga il proprio interlocutore, nel contesto di una continua, irriducibile, alterità del vivente. Anche grazie alla diffusione di internet, l’haiku sembra tornare alla sua forma sociale originaria: nato da una pratica giapponese di scrittura collettiva, il renga, è ormai oggetto di interesse da parte di numerose comunità on-line e atelier di scrittura svolti nelle scuole. Lo stesso libro di Contamin, Cent haïkus pour le climat, include una sezione finale in cui sono raccolti gli haiku scritti da studenti delle scuole elementari e medie che hanno preso parte agli atelier di scrittura organizzati dall’autore stesso, dedicati al cambiamento climatico. Sebbene il genere dell’haiku resti marginale nel canone della letteratura francese, ha dunque già una notevole tradizione che risale agli inizi del Novecento e appare oggi come un importante strumento di sensibilizzazione e socializzazione intorno al problema ecologico, che agisce nella cultura francese in modo discreto, ma non per questo meno efficace.


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