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Eco-poesia nel Pacifico, ieri e oggi: il nucleare e i cambiamenti climatici in Hone Tuwhare e Kathy Jetñil-Kijiner

 

Di Paola Della Valle

 

In: Semicerchio, LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 63-68.

 

 

Il Pacifico e sempre apparso agli occhi degli occidentali come una sorta di spazio vuoto sulle cartine geografiche.

Lo scrittore e antropologo di origine tongana Epeli Hau’ofa lo aveva ironicamente definito «the hole in the doughnut» (il buco nella ciambella) nella percezione esterna, offrendo una visione alternativa dell’Oceania. Nel celebre saggio Our Sea of Islands (1993) egli argomenta come il mare non sia mai stato un elemento di separazione per le popolazioni di quella regione, bensì mezzo di comunicazione e veicolo di commerci e scambi, e sottolinea la connettività relazionale e il movimento come caratteristiche di una civiltà di grandi navigatori. Egli suggerisce dunque un radicale cambio di prospettiva: dall’idea occidentale della regione pacifica come «islands in a far sea», promossa dall’imperialismo europeo e americano, all’immagine autoctona di «a sea of islands». L’Oceania continua pero ad essere completamente ininfluente nei discorsi geopolitici mondiali, sia economici che ambientali. Nonostante, come sottolinea Melissa Kennedy, il Pacifico produca due terzi dell’ossigeno della terra, si distingua per una flora e fauna (sia terrestre che marina) uniche e per una ricca varietà di lingue ed etnie, esso continua ad apparire evidentemente il buco nella ciambella del mondo. Le potenze coloniali dell’Ottocento e Novecento (tra cui Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone e Stati Uniti), dopo averne sfruttato tutte le possibili risorse economiche e sconvolto gli equilibri politici e culturali, continuano direttamente o indirettamente a determinarne le sorti. Da un lato alcune zone del Pacifico pagano ancora oggi le conseguenze dei test nucleari eseguiti da Francia e USA negli anni della Guerra Fredda. Dall’altro, il riscaldamento globale causato in larga misura dalle società industriali sta provocando l’innalzamento delle acque degli oceani, minacciando seriamente la sopravvivenza degli atolli corallini che rischiano di venire sommersi (alcuni già lo sono parzialmente).

Gli atolli di Mururoa e Fangataufa, nella Polinesia francese, furono sede di centinaia di esperimenti dal 1966 al 1996. Cosi pure gli atolli di Bikini e Enewetak, nelle isole Marshall, divennero un vero e proprio laboratorio nucleare per gli scienziati americani dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’arcipelago entrò a far parte del Territorio fiduciario delle Isole del Pacifico (The Trust Territory of the Pacific Islands, TTPI) amministrato dagli Stati Uniti, che avevano acquisito gli ex possedimenti dell’Impero giapponese nel Pacifico, molti dei quali in precedenza erano stati sotto il dominio coloniale tedesco (per esempio Samoa e le stesse Marshall). Tra il 1946 e il 1958 vennero condotti nei due atolli 67 test nucleari, in atmosfera e sottomarini. Gli abitanti erano stati fatti evacuare facendo leva sul loro senso di responsabilità per le sorti del mondo. Come evidenzia Keown, prima dell’inizio degli esperimenti il governatore militare delle Marshall, l’americano Ben Wyatt, sfruttando la diffusa religiosità protestante prodotta dall’opera decennale dei missionari, incontro i 166 residenti di Bikini dopo la messa domenicale e spiego loro che gli esperimenti erano condotti «for the good of mankind and to end all world wars». Paragono perfino gli abitanti ai figli d’Israele «whom the Lord saved from their enemy and led unto the Promised Land». Sono tristemente noti gli effetti causati a Bikini nel 1954 dalla cosiddetta operazione «Bravo», la detonazione, quasi in superficie, di una bomba all’idrogeno di potenza mille volte superiore a quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki. L’esplosione polverizzò tre isolotti dell’atollo, creando un cratere largo un miglio e diffondendo radiazioni su altri atolli dell’arcipelago, in particolar modo quelli di Utirik e Rongelap, le cui popolazioni furono evacuate solo dopo alcuni giorni, quando già manifestavano sintomi di avvelenamento da radiazione. Si racconta che alcune ore dopo lo scoppio, cenere radioattiva cadesse sulle isole a est di Bikini e la popolazione locale, scambiandola per neve, non prendesse alcuna misura, lasciando giocare i bambini tra i fiocchi bianchi. Anche un peschereccio giapponese, che si trovava fuori dalla zona considerata pericolosa, subì gli effetti dell’esplosione. Fu proprio il governo giapponese ad aprire un’inchiesta dopo la morte per avvelenamento da radiazione di un membro dell’equipaggio, mentre i danni subiti dalla popolazione locale passarono sotto silenzio per lungo tempo. Ciò che colpisce di quello che e considerato il primo disastro nucleare della storia, e la superficialità e inefficienza dei militari americani che si difesero incolpando un imprevisto cambio di direzione dei venti. I marshallesi hanno invece avanzato l’ipotesi che vi fosse un lucido e cinico disegno alla base del ritardo nei soccorsi: lo studio scientifico degli effetti delle radiazioni nucleari sugli umani, che furono infatti dettagliatamente documentati dai ricercatori statunitensi. I marshallesi sottoposti alle cure furono dichiarati ufficialmente guariti dopo pochi mesi. In realtà vi sono conseguenze a lungo termine, che richiedono molto tempo per manifestarsi. L’alta incidenza ancor oggi di malattie come cancro, leucemia e paralisi, di problemi alla tiroide e malformazioni fetali tra i marshallesi e sicuramente da attribuirsi alla contaminazione nucleare dell’ambiente. L’ipotesi delle Marshall come laboratorio ideale per lo studio delle possibili conseguenze sulle persone irradiate e avallata dai documenti della AEC (Atomic Energy Commission), de-secretati negli anni Novanta, da cui si estraggono affermazioni agghiaccianti come la seguente

 

Now that Island [Utirik]… is by far the most contaminated place in the world and it will be very interesting to go back and get good environmental data… so as to get a measure of the human uptake when people live in a contaminated environment. Now, data of this type has never been available. While it is true that these people do not live, I would say, the way westerners do, civilized people, it is nevertheless also true that these people are more like us than mice.

 

 

In questo contesto, tra le tante manifestazioni di protesta sorte tra le popolazioni locali, anche la poesia rivendica un ruolo importante. Già il famoso poeta neozelandese di origine ma—ori Hone Tuwhare aveva preso posizione contro le armi nucleari nella poesia No Ordinary Sun, uscita nel 1959 sulla rivista «Te Ao Hou», che dara il nome alla sua prima raccolta pubblicata nel 1964. Nonostante il nucleare non venga mai menzionato esplicitamente nel testo, la poesia è stata letta universalmente come l’allegoria di un’apocalisse atomica. Elizabeth DeLoughrey interpreta sagacemente il componimento come una denuncia contro «the ways in which nuclear discourse is naturalized through the use of solar metaphors». DeLoughrey dimostra che il discorso nucleare ha spesso utilizzato immagini naturali per rappresentare le esplosioni (dal fungo organico al cervello umano), dipingendole inoltre con metafore vitalistiche legate al sole (una nuova alba, il sorgere del sole, la nascita di un nuovo mondo) quasi per normalizzarle. Denominazioni positive accompagnavano sempre gli esperimenti. L’operazione «Bravo» ne e un esempio, cosi come «Trinity», il nome attribuito al primo test atomico del mondo, condotto dagli americani nel deserto del New Mexico nel luglio 1945, e associato a un’immagine religiosa oltre che positiva. Anche gli ordigni erano antropomorfizzati: le due bombe sganciate a Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945 furono soprannominate «Little Boy» e «Fat Man». Queste rappresentazioni, insieme all’associazione tra radiazioni prodotte dagli uomini e radiazioni del sole, suggerivano la naturalità degli esperimenti, alludendo a un’idea di nucleare allineato alle forze naturali del cosmo. Più che a un’arma di distruzione di massa, il nucleare era associato alla creazione dell’universo, ad un nuovo Big Bang nato dalla capacità dell’uomo di imbrigliare l’energia del sole. Il fisico Robert Oppenheimer, che progetto la prima bomba atomica testata con l’operazione «Trinity», disse che essa aveva «the radiance of a thousand suns». Tuwhare aveva già visto in prima persona l’azione post-nucleare a Hiroshima e Nagasaki, quando era militare di stanza in Giappone con la Forza di Occupazione del Commonwealth Britannico alla fine della guerra. No Ordinary Sun smantella queste associazioni negando la ‘normalità’ del nucleare espressa dalle metafore naturalistiche. A partire dal titolo, a questo sole è negata qualsiasi ‘ordinarietà’. Le radiazioni di un sole ‘non ordinario’ si abbattono su un elemento dalla forte connotazione naturale, un albero – simbolo di vita, resistenza, crescita – producendo devastazione e morte. Rivolgendosi direttamente all’albero, che risulta personificato così come accadeva nelle odi dei Romantici inglesi, il poeta gli intima di rinunciare anche all’ultimo ed estremo gesto per la sopravvivenza, la resa, perché non c’è possibilità di resistere a questo sole innaturale.

 

Tree let your arms fall:

raise them not sharply in supplication

to the bright enhaloed cloud.

Let your arms lack toughness and

resilience for this is no mere axe

to blunt nor fire to smother.

Albero, abbassa le braccia

non le innalzare in un gesto di vana supplica

verso la nuvola immersa nell’alone chiaro

Rinuncia alla forza e resilienza delle tue braccia

perché non c’è ascia da smussare

né fuoco da smorzare.

 

 

Il poeta sottolinea inoltre una pericolosa rottura con la tradizione, in quanto la violenza che si abbatte sull’albero è sconosciuta, diversa da ogni altra del passato («no mere axe […] nor fire»). L’albero viene esortato ad abbassare le braccia (arms): arrendersi sarà inutile. La doppia valenza della parola (braccia e armi), non può essere casuale. Non c’è arma per difendersi dal nuovo nemico. Secondo la visione olistica dei ma—ori, espressa nella loro ricca mitologia, Ta—ne, dio degli alberi e delle foreste, si mise a testa in giù e spingendo forte, separo i genitori primigeni, Rangi (il cielo) e Papa (la terra) da un abbraccio così stretto da impedire al mondo di nascere. Portando la luce ai suoi fratelli (i vari dei compartimentali che vivevano nell’oscurità di quell’abbraccio), Ta—ne risulta essere l’elemento catalizzatore della vita, origine del sapere e progenitore dell’uomo, come risulta dai numerosi epiteti che lo contraddistinguono (Ta—ne che da la vita, Ta—ne il fertilizzatore, Ta—ne il portatore di sapere, e cosi via). Fu lui a crearsi una compagna e a dare avvio alla progenie umana. L’uomo e dunque figlio di un dio naturale, a cui deve rispetto e da cui dipende per la propria sopravvivenza. L’intimazione di resa del poeta all’albero-dio nella poesia di Tuwhare ha dunque una valenza più ampia. De-Loughrey sottolinea come l’uomo, rivolgendosi all’albero in questo modo imperativo e disperato, abbia perso ogni potere di mediazione tra naturale e soprannaturale. Aggiungerei anche che la sacralità stessa dell’albero e stata svilita, dall’emergere di un dio mostruoso e innaturale. Ciò è espresso nella seconda e terza strofa, quando si elenca ciò che l’albero non potrà più fare di fronte a questo sole, appunto, mostruoso: «Your sap shall not rise again / to the moon’s pull […] / Your former shagginess shall not be / wreathed with the delightful flight / of birds nor shield / nor cool the ardour of unheeding / lovers from the monstrous sun». Il contrasto continuo tra naturale e innaturale e espresso nella quarta strofa, dove la minaccia di eventi atmosferici come il «gallant monsoon» si contrappone ai «polluted skies». Ed infine, l’ultima strofa continua, senza speranza, a produrre immagini innaturali di montagne senz’ombra, pianure bianche e mari grigi, come dopo una catastrofe nucleare:

 

O tree

in the shadowless mountains

the white plains and

the drab sea floor

your end at last is written.

O albero

in montagne senz’ombra

pianure bianche e

nel grigio pavimento del mare

la tua fine è ormai scritta.

 

Una sessantina d’anni dopo la pubblicazione di No Ordinary Sun, altrettanto accorato e il messaggio ambientalista e anti-nuclearista della poetessa e attivista Kathy Jetnil-Kijiner, prima marshallese a pubblicare una silloge poetica, Iep Ja¯ ltok: Poems from a Marshallese Daughter (2017). Jetnil-Kijiner, che preferisce farsi chiamare «spoken word artist» (artista della parola orale), si avvale delle tecnologie del nuovo millennio per diffondere il suo messaggio poetico a un vasto pubblico: i social media (Facebook e Youtube), un blog e un sito personale (www.jkijiner.wordpress.com). Oltre ai link di conferenze, interviste e partecipazioni ad eventi pubblici, sul sito troviamo anche una serie di video che la riprendono mentre interpreta i suoi testi in vere e proprie performance poetiche o commenta, sempre attraverso i suoi versi, immagini che illustrano l’emergenza ambientale. Un piccolo stato insulare con poco più di 53.000 abitanti, in una regione del mondo apparentemente marginale, acquista dunque un palcoscenico globale. D’altro canto, sembra essere la giusta risposta ai problemi ambientali causati in quell’area proprio da un’economia e una politica globalizzate. Nel 2014 Jetnil-Kijiner fu scelta tra oltre 500 candidati per rappresentare la voce della società civile sul tema dei cambiamenti climatici al Summit ONU sul clima tenutosi a New York e fu poi invitata al COP21 di Parigi nel 2015. Dear Matafele Peinam, la poesia sugli effetti dei cambiamenti climatici nel Pacifico scritta per la figlioletta di appena sette mesi e recitata di fronte all’assemblea dell’ONU, ha suscitato un’emozione tale da meritare una standing ovation. Il video ha avuto milioni di visualizzazioni sulla Web-TV dell’ONU. Questo tipo di poesia – militante, ecologista ed impegnata – fa parte di un genere diffuso nel Pacifico e definito ‘poetics of resistance’, che mira ad avere visibilità ed impatto emotivo su larghe fette di pubblico. Il suo carattere performativo, che vediamo mettere in atto anche dalla Jetnil-Kijiner nella produzione dei suoi video, non e solo legato alle nuove tecnologie e alla diffusione della società dell’immagine. In realtà riporta l’arte poetica in seno alla tradizione orale indigena del Pacifico, che include canti, l’oratoria e la recitazione delle genealogie. In Dear Matafele Peinem l’autrice lancia un grido d’allarme per la sua isola che rischia di essere sommersa dall’acqua a causa del crescente livello dei mari dovuto al riscaldamento globale e al conseguente scioglimento dei ghiacci delle calotte polari. Si rivolge direttamente alla bimba di sette mesi – «sunrise of gummy smiles» – descrivendola in tutte le morbide rotondità dell’infanzia ed esprimendo la paura che i suoi discendenti e la bambina stessa non possano più vedere la loro terra di origine e siano destinati a vagabondare senza radici, «with only / a passport / to call home» (70). Nel racconto di ciò che potrebbe accadere in un prossimo futuro, la bella laguna, «that lucid, sleepy lagoon» (70), scenario delle passeggiate mattutine di madre e figlia, potrebbe trasformarsi in un mostro innaturale (come il «monstruous sun» di Tuwhare) e divorare lei e l’isola: «Men say that one day / that lagoon will devour you / […] and crunch your island’s shattered bones» (70). Ma la poetessa promette battaglia contro coloro che fingono di non sapere che le Marshall Islands, e tanti altri arcipelaghi come Tuvalu, Kiribati, le Maldive, sono in pericolo, che i tifoni flagellano le Filippine, che le inondazioni devastano il Pakistan, l’Algeria, la Colombia: coloro che continuano a voler ignorare la loro esistenza.

 

L’autrice incita la società civile a continuare la lotta. I versi liberi, brevi e irregolari ma di grande impatto emotivo, trasmettono un messaggio semplice e incisivo, che dalla denuncia passa alla promozione di buone pratiche, diventando una specie di manifesto ecologista e chiamando a raccolta le energie di tutti: dalle famiglie agli attivisti, dagli scienziati agli artisti e letterati. La battaglia contro l’indifferenza del mondo, portata avanti da Jetnil-Kijiner con la poesia, mira non solo a far sapere ma anche a risvegliare emozioni, mostrando persone dietro i numeri, esseri umani dietro statistiche e astrazioni. In Two Degrees, la febbre della figlioletta la fa riflettere sulla differenza che pochi gradi in più possono fare nel corpo umano. Subito il pensiero corre ai due gradi d’innalzamento della temperatura terrestre che, secondo gli esperti, porterebbe il mondo alla catastrofe, è l’oceano a sommergere la sua isola. L’autrice ci ricorda inoltre che nell’isola di Kili, l’inusuale alta marea ha già inondato l’ospedale che accoglie pazienti affetti da malattie da radiazione:

 

patients sleeping in a clinic with a nuclear history threaded into their bloodlines woke to a wild water world a rushing rapid of salt a sewage of syringe and gauze

 pazienti che dormivano in una clinica con una storia nucleare intrecciata ai loro vasi sanguigni si svegliarono immersi in un selvaggio mondo d’acqua in furiose rapide salate in una fogna di siringhe e garze (78)

 

 

Qui il discorso s’intreccia con un altro importante tema della poesia di Jetnil-Kijiner: la terribile eredita lasciata ai marshallesi dai test nucleari americani, i cui effetti continuano a mietere vittime. Fishbone Hair, recitata sul sito in un commovente video correlato di effetti speciali, foto e immagini, ripercorre il calvario della nipote Bianca, morta di leucemia a soli sette anni. Il titolo coniuga due aspetti legati alla bambina. Le ciocche di capelli perse per la chemioterapia e ritrovate dall’autrice in due sacchetti dopo la sua morte: «rootless hair / that hair without a home»; e la passione per il pesce, che la bimba mangiava voracemente lasciando solo lische pulite, «neat bones». Immagini di colonizzazione e guerra appaiono nei versi sulla proliferazione delle cellule bianche che invadono e conquistano il corpo della bambina, cosi come gli americani colonizzarono le isole Marshall: «There had been a war / raging inside Bianca’s six year old bones / white cells had staked their flag / they conquered the territory of her tiny body». La malattia della piccola evoca quella di tanti pescatori, che cinquant’anni prima, durante l’esplosione, si erano semplicemente scrollati di dosso la polvere bianca caduta dal cielo: «On that day those fishermen / were quiet / they were neat / they dusted the ash / out of their hair / reeled in their fish / and turned around their motorboat to speed home». Jetnil-Kijiner rievoca inoltre una leggenda della vicina isola di Guam (anch’essa avamposto militare americano), in cui si narra che donne battagliere riuscirono a tessere un’enorme rete magica con le loro ciocche di capelli e a catturare un pesce mostruoso che infestava le loro acque. Se da un lato la forza dei capelli intessuti nella rete si contrappone alla resa di quelli della bimba, devastati dalla chemioterapia, c’è anche un messaggio di speranza in questa sezione della poesia: la rete fisica sembra alludere all’altra, digitale, attraverso cui immagini, informazioni, poesie possono diffondersi e trasformarsi in consapevolezza e reazione. Infine, History Project, rievoca la prima battaglia dell’autrice: una ricerca sugli effetti dei test nucleari fatta a quindici anni e presentata a un concorso scolastico. Di nuovo appare l’immagine di una rete tessuta nel corso del lavoro: «I weave through book after article after website / all on how the US military once used / my island home / for nuclear testing». Immagini agghiaccianti emergono dalla ricerca, come la foto del corpo devastato di un giovane accanto a un medico, apposta descritto nella poesia come un camice senza l'umano dentro, a simbolizzare il suo freddo distacco, e testimonianze su feti privi d'ossa, abortiti da donne che se ne assumono la colpa:

 

I glance at a photograph

of a boy, peeled skin

arms legs suspended

a puppet

next to a lab coat lost

in his clipboard

I read firsthand acconts

of what we call

jelly babies

tiny beings with no bones

skin – red as tomatoes

the miscarriages gone unspoken

the broken translations

I never told my husband

I thought it was my fault

Guardo la foto

di un ragazzo, la pelle scorticata

braccia, gambe penzolanti

un pupazzo

vicino a un camice da laboratorio perso

nella sua cartella clinica

Leggo testimonianze dirette

su cio che noi chiamiamo

bimbi gelatina

minuscoli esseri privi d’ossa

la pelle – rossa come un pomodoro

gli aborti passati inosservati

le traduzioni interrotte

Non lho mai detto a mio marito

pensavo fosse colpa mia.

 

Keown sottolinea che nelle leggende marshallesi, l’eventuale deformazione del feto viene attribuita a una colpa della madre: per esempio, essere stata infedele al marito. Molte donne mantennero il riserbo per questa ragione. La poesia, definita da Keown un esempio di «Storia dal basso» illustra con immagini puntuali e strazianti il passaggio dalle astrazioni alla realta. Si cita la reazione del segretario di stato Henry Kissinger, che giustificò l’ubicazione degli esperimenti con la frase: «90,000 people are out there. Who gives a damn?». Si denuncia la retorica cristiana e scientifica utilizzata dagli americani per convincere i residenti di Bikini ed Enewetak a lasciare i loro atolli, nella ripetizione di «God will thank you they told us» e «for the good of mankind. Infine, l’io narrante riporta, in versi freddi ma eloquenti, le reazioni degli animalisti americani, che protestarono di fronte a una foto che mostrava capre e maiali esposti come cavie sul ponte di navi militari americane nell’area contaminata, per poter studiare gli effetti dell’avvelenamento  da radiazione. La reazione dei tre giudici bianchi, che sembrano non capire l’ironico spirito di denuncia della ricerca, decreta in anticipo alla quindicenne la sua sconfitta. L’opera di Kathy Jetnil-Kijiner e vibrante e vitale. Una risposta contemporanea ai problemi del presente. Si tratta di una delle tante delle manifestazioni di ‘poetica della resistenza’ che stanno emergendo nel Pacifico, a dimostrare che anche la poesia può (e deve) fare la sua parte in una lotta per la tutela dell’ambiente che deve vederci impegnati tutti, con ogni mezzo (pacifico) possibile.

 


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