« indietro Petali d’orchidea selvatica: le delicate eco-elegie di Michael Longley Di Irene De Angelis
In: Semicerchio, LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 55- 61.
Il poeta nordirlandese Michael Longley, nato a Belfast nello stesso anno dell’amico e mentore Seamus Heaney, compirà ottant’anni il prossimo luglio 2019. Questo notevole traguardo permette un’analisi retrospettiva della sua produzione poetica, ancora relativamente sottovalutata all’estero e pressoché ignorata in Italia, fatta eccezione per il volume Lucciole alla cascata (2005), che raccoglie una selezione di poesie di Longley tradotte da Roberto Bertoni e Giovanni Pillonca. Nell’ambito dell’ampio corpus letterario di Longley, questo saggio affronterà una selezione delle sue eco-elegie, che per semplicità di trattazione saranno denominate le ‘elegie dell’Ovest’ e le ‘elegie officinali’, caratterizzate da una scrittura attenta e misurata, che sfugge ad ogni tipo di facile dogmatismo. Longley concepisce la poesia stessa come un essere vivente delicato e resiliente, un’orchidea selvatica che egli affida al lettore affinché la curi in tutta la sua bellezza e vulnerabilità. Tra i contributi critici, si farà particolare riferimento ai saggi di Neil Corcoran (1999), Elmer Kennedy-Andrews (2008), Richard Rankin Russell (2010), Tom Herron (2010), Donna Potts (2010) e Cassandra O’Loughlin (2018). Come ha commentato lo stesso Longley, le sue poesie ispirate alla natura sono quelle che egli considera più intensamente politiche, non perché voglia evadere dai conflitti settari del Nord Irlanda, ma piuttosto perché desidera che «the light from Carrigskeewaun [...] irradiate[s] the northern darkness». L’Ovest dell’Irlanda ha infatti nutrito l’immaginazione di Longley, fornendogli un ‘altrove’ attraverso il quale riconsiderare il Nord dei conflitti settari. Il retroterra familiare e culturale di Longley è essenziale per avvicinarsi alla sua poetica: in tal senso appare illuminante la raccolta di scritti autobiografici Tuppenny Stung, pubblicata nel 1994. Nato da genitori inglesi trasferitisi a Belfast negli anni Venti, Longley sottolinea come il padre, veterano della Prima Guerra Mondiale, sia stato una figura centrale nella sua esistenza. Il poeta si forma dapprima presso la Royal Belfast Academical Institution, colloquialmente chiamata ‘Inst’, per poi proseguire gli studi classici al Trinity College di Dublino, dove stringerà amicizia con Derek Mahon, di due anni più giovane. Tornato a Belfast dopo il matrimonio con Edna Broderick, oggi affermata critico letterario, Longley lavora presso diverse istituzioni scolastiche tra Dublino, Londra e Belfast, assumendo quindi il ruolo di funzionario dell’Arts Council del Nord Irlanda, dove dal 1970 al 1992 sarà addetto all’Arte e alla Letteratura. Seamus Heaney, che lo conosce in uno degli incontri informali del cosiddetto ‘Belfast Group’, organizzati dall’intellettuale Philip Hobsbaum, definirà più tardi l’amico poeta «a keeper of the cultural estate, a custodian of griefs and wonders». Sebbene la realtà da cui proviene Longley sia quella della Belfast urbana, già durante l’infanzia egli mostra una passione radicata ed istintiva per gli spazi rurali ed aperti a sud della città natale, di cui ricorda «plenty of fields around the houses – playing fields, a field where a riding school trotted horses [...] the remnants of ancient hedges, crab-apple trees like huge cradles, enough space to create your own wilderness [...] and then up a hilly road to the Giant’s Ring, a dolmen set perfectly in avast, circular grassy arena».
All’età di circa dodici anni, Longley visita per la prima volta, insieme ai genitori, la costiera dell’Irlanda occidentale, evento che influenzerà profondamente il suo immaginario poetico. Se, infatti, la zona a sud di Belfast, tradizionalmente abitata dagli irlandesi protestanti, è presente in numerose sue liriche, Longley predilige l’Ovest rurale, storicamente associato alla cultura di matrice cattolica. Questa ‘in-betweenness’ tra ‘home’ e ‘home from home’, richiama alla mente i versi di Louis MacNeice, poeta anch’egli originario di Belfast e punto di riferimento per molti scrittori successivi. Per fornire una chiave interpretativa della poetica ambientalista di Longley, occorre una definizione preliminare di ecolirica. Se, secondo Angus Fletcher, l’ecolirica offre una riflessione sulla fragilità della natura che è al contempo una meditazione sulla fragilità umana, per Longley la poesia in generale, e quella ambientalista in particolare, è assimilabile ad un organismo vivente: «[P]oetry is like a beautiful and rare orchid growing up through the tar macadam in a car park. That’s what poetry does: [...] a little plant creating its own revolution». L’immagine della piccola e resiliente orchidea che nasce dall’asfalto sintetizza perfettamente l’originale e raffinata sensibilità di Longley, che altrove paragona la poesia ad un crisantemo, altrettanto effimero e ‘well-made’, ossia ‘ben costruito’ come i suoi cesellati versi. Altrove, Longley associa la poesia ad una raccolta di fiori nel senso etimologico della parola ‘antologia’: ciascuna ‘lirica-fiore’ è miracolosa, ‘officinale’, e quindi capace di consolare, lenire e curare sia l’animo del lettore che quello del poeta stesso.
Le elegie dell’Ovest L’Ovest dell’Irlanda rappresenta una parte fonda- mentale dell’immaginario poetico di Longley. Quest’area geografico-culturale è stata oggetto di studio e d’ispirazione per generazioni d’intellettuali e artisti. Per i letterati del Celtic Revival, movimento culturale sviluppatosi nell’Irlanda di fine Ottocento con lo scopo di riscoprire e valorizzare le tradizioni dell’Isola di smeraldo, l’Ovest è un luogo di ‘mystic wonder’. In particolare, per W.B. Yeats e J.M. Synge, l’Ovest rappresenta un rifugio, la ricerca di un’alternativa alla «suffocating moral atmosphere of an Ireland domina- ted by the emergent bourgeoisie, both Catholic and Protestant». Nel Novecento, Louis MacNeice guarda al «quintessential West» come un luogo remoto e dai toponimi difficili, mentre Seamus Heaney definisce il ‘Wild West’ irlandese come una terra di «water and ground in their extremity», un luogo quasi mitologico, «the Irish poetic space par excellence». Oltre a Heaney, Tom Paulin, Paul Muldoon, Eavan Boland, Maura Dooley, Justin Quinn e Vincent Woods sono solo alcuni dei poeti irlandesi contemporanei che si sono volti ad occidente col desiderio di trovarvi un senso di autenticità. I cattolici del Nord vi cercano la conferma di una «cultural identity ... interdicted in the North», mentre per i protestanti, l’Ovest «beyond-the- border» è un «tangible reminder of what had been lost through the farce of Partition», un luogo che MacNeice e John Hewitt, come Derek Mahon, James Simmons e lo stesso Longley, associano alla malinconia per qualcosa di perduto. Nell’immaginario di questi poeti, l’Ovest del Donegal e del Connemara, del Clare e del Mayo, dei Rosses e delle Isole Aran, di Achill e del Burren, non è stato segnato da divisioni settarie o di classe: esso rappresenta un’eterotopia spaziale, culturale ed ecologica, «a sort of non-locus». Sovente, nelle elegie irlandesi dell’Ovest, l’Io poetico è visto in cammino, in una sorta di pellegrinaggio, e la poesia è caratterizzata da alcuni topoi, quali ad esempio «an escape from the quotidian, a sense of restlessness, a deferral of arrival, a sense of the exotic, of anxiety, of unhomeliness and of expectation». Nell’Ovest di Longley sono presenti numerosi elementi che richiamano il Celtic Revival, in particolare l’idea della natura come un’Arcadia al di fuori della Storia. Tale concezione risale alla tradizione pastorale dei classici greci e latini, da Teocrito a Virgilio, cantore dell’Età dell’Oro nelle Ecloghe. Secondo Paul Alpers, il genere pastorale è caratterizzato da elementi come un «resentment of urban life», unito a «[an] idyllic [idea of the] countryside, countryside as setting for song, an atmosphere of ease or idleness, a conscious attention to Art and Nature, shepherds as singers». Il pastorale è inoltre legato ad una visione idealistica ed antropocentrica del cosmo, animata da un romanticismo nostalgico19. Tale visione quanto mai edulcorata ed idilliaca della vita rurale, non contempla né fatica né sacrifici. Questa peculiarità caratterizza, almeno in parte, anche i versi di Longley, in cui tuttavia si registra lo spostamento da una prospettiva antropocentrica ad una ecocentrica: nel cosmo poetico di Longley non vi sono distinzioni tra esseri umani e non umani, e l’uomo non è considerato superiore agli altri esseri viventi, bensì come parte integrante di un equilibrio fragile e complesso, che include tutte le specie animali e vegetali. Inoltre, per quanto «blasted heaths and polluted rivers are not the subject of his poems», i versi di Longley sono caratterizzati da una preoccupazione per le minacce cui è sottoposto il Pianeta, che è totalmente assente nella poesia pastorale ‘strictu sensu’. Dunque, sia per la prospettiva ecocentrica, che per la consapevolezza ecologica, la poesia di Longley si può definire ‘post-pastorale’. Tra le ‘elegie dell’Ovest’ di Longley, particolare attenzione meritano The West (1973), Landscape (1976) e Remembering Carrigskeewaun (1991). Nell’introduzione si già è accennato come, nell’immaginario poetico irlandese, l’Ovest non sia segnato da divisioni religiose o di classe: esso rappresenta un’eterotopia spaziale, culturale ed ecologica. In questa sorta di ‘non-locus’ è ambientata anche la prima delle ‘elegie dell’Ovest’ di Longley, intitolata The West e tratta dalla raccolta An Exploded View (1973), che fu pubblicata mentre i cosiddetti ‘Troubles’ seminavano vittime tanto nel Nord Irlanda, quanto nella Repubblica. In questo periodo, l’opinione pubblica premeva affinché gli scrittori irlandesi prendessero una posizione politica su quanto stava accadendo nel loro Paese. Né Seamus Heaney né Derek Mahon, anch’essi originari di Belfast, scelgono di rappresentare in modo diretto la violenza di cui sono indirettamente testimoni. Nella raccolta intitolata North (1975), Seamus Heaney traspone gli omicidi tribali irlandesi nell’‘altrove’ delle torbiere danesi, che nell’Età del Ferro avevano inghiottito e preservato i martoriati cadaveri delle vittime sacrificali vichinghe. Derek Mahon sceglie invece di ambientare la sua iconica lirica The Snow Party (1975) nel Giappone del Seicento, dove immagina che si stia svolgendo una ritualizzata cerimonia del tè, mentre «Elsewhere they are burning witches and heretics / In the boiling squares». In questo cele- bre componimento, Mahon sovrappone Nagoya e Belfast, mentre la neve che cade sulle colline di Ise ricorda i detriti di un’esplosione più vicino a casa. Analogamente ad Heaney e a Mahon, anche Longley rifiuta di rappresentare in modo diretto la violenza dei ‘Troubles’. Nell’eco-elegia The West, come in altre ad essa successive, egli descrive l’‘altrove’ pastorale di Carrigskeewaun, che, lungi dal rappresentare per lui un’evasione dalla Storia, gli permette di riflettere sul significato profondo dei concetti di ‘casa’, ‘appartenenza’ ed ‘identità’, «without the encoding of tribal claims to certain territories». Il testo della lirica recita:
Beneath a gas-mantle that the moths bombard, Light that powders at a touch, dusty wings, I listen for news through the atmospherics, A crackle of sea-wrack, spinning driftwood, Waves like distant traffic, news from home,
Or watch myself, as through a sandy lens, Materialising out of the heat-shimmers And finding my way for ever along The path to this cottage, its windows, Walls, sun and moon dials, home from home.
Per Longley, i concetti di ‘casa’, ‘appartenenza’ e ‘identità’, implicano «a process of personal, emotional and imaginative attachment». Mentre siede nel suo cottage di Carrigskeewaun, il protagonista di The West
is haunted by intimations of death and violence, the fragility of life: «moths bombard» the gas-mantle; «light powders, at a touch, dusty wings»; the inter- nal rhymes in «atmospherics», «crackle» and «sea- wrack» contain the echo of gunshots; driftwood is «spinning» like a gunshot victim; «waves like distant traffic» suggests the way the poet can be in two places at the same time.
Colto nell’atto di «listening and watching», l’Io poetico «accumulat[es] evidence of two homes, one distant and the other immediately present». Carrigskeewaun non rappresenta per Longley «an absconding from, or betrayal of, [his] Belfast home. Rather, ‘home’ and ‘home from home’, Belfast and the West, must be read together simultaneously because these categories are mutually constitutive and contingent», Longley definisce questi due concetti «in terms of specific, carefully observed details». Infatti, come si sottolineerà nella sezione relativa alle ‘poesie officinali’, nel mondo poetico di Longley, «describing [...] in a meticulous way is a consecration and a stay against damaging dogmatism». Nella seconda ‘elegia dell’Ovest’, intitolata Landscape e tratta dalla raccolta Man Lying on a Wall (1976), il paesaggio naturale «unsettles and expands the self that has come to visit»35. Al cospetto della Natura, l’Io poetico registra un senso di smarrimento e quasi di dissoluzione, in un processo che «is not one of quasi-romantic projection of the self into nature, but an incursion of the natural world into the stable, self- recognising perspective of identity». Questo emerge chiaramente dai versi centrali dell’eco-elegia:
I am clothed, unclothed By racing cloud shadows, Or else disintegrate Like a hillside neighbor Erased by sea mist.
Come nel componimento The West, anche in Landscape Longley non tratta di «a settled and rooted identity», ma di un «self in the process of being absorbed by its surroundings»:
Melting into water Where a minnow flashes: A mouth drawn to a mouth Digests the glass between Me and my reflection.
I pensieri del soggetto poetico si dissolvono, così come si annulla la distanza tra l’osservatore e l’oggetto del suo sguardo. Remembering Carrigskeewaun è un’eco-elegia tratta dalla raccolta del 1991 Gorse Fires. Essa si ricollega per l’ambientazione a The West, offrendo al contempo un’elaborazione dei concetti-chiave già espressi in Landscape. I versi centrali recitano:
Home is a hollow between the waves, a clump of nettles, feathery winds, And memory no longer than a day When the animals come back to me From the townland of Carrigskeewaun, From a page lit by the Milky Way.
Longley ha dichiarato in un’intervista: «Carrigskee- waun is unbelievably beautiful, it’s the most magical place in the world [...] It’s the Garden of Eden, and I often think about it». A differenza della «hard, physical life of toil and misery» descritta da Patrick Kavanagh, e, in tempi più recenti, da Cathal Ó Searchaig, l’eterotopia di Longley, contain[s] no pictures of brutal hardship, ferocious loneliness or hideous violence [...]: the main focus of Longley’s attention is the natural rather than the social order. In Carrigskeewaun he situates himself as a citizen of the whole world, not just a citizen within society, and thinks in terms of centuries, or millenia, under the gaze of eternity, in an attitude of humble openness to nature’s revelation and autonomy.
«Home [a]s a hollow between the waves, / A clump of nettels, feathery winds»: da questi versi emerge un concetto di ‘dimora’, e dunque di ‘identità’, legato al divenire più che ad una realtà immutabile. In questa eco-elegia, la Storia è «viewed from a great distance», come se il poeta fosse testimone di «the first innocent blush of the world itself». Tuttavia, la Carrigskeewaun cantata da Longley non è caratterizzata da alcun aneli- to verso la trascendenza: a differenza del cattolico Heaney, infatti, Longley è ‘devotamente’ agnostico, e le sue ‘elegie dell’Ovest’ sono profondamente «rooted in the earth». Esse sono inoltre caratterizzate da «specific, carefully observed details»: «describing the world in a meticulous way», è infatti per Longley «a consa- cration and a stay against damaging dogmatism».
Le ‘elegie officinali’ La Natura selvaggia ed incontaminata è entrata nell’immaginario di Longley sin dalle prime fasi della sua esistenza, quando da ragazzo esplorava gli spazi aperti a sud di Belfast, per poi innamorarsi dell’Ovest, dominato dal suono dell’Oceano e dal canto degli uccelli. Dal 1970, il poeta soggiorna per lunghi periodi nel cottage dell’amico naturalista David Cabot a Carrigskeewaun, nella Contea di Mayo. Sia Cabot che Michael Viney, altro amico di Longley esperto di storia naturale, hanno messo in luce come, per le sue approfondite conoscenze in ambito botanico e faunistico, il poeta sia paragonabile ad un Linneo contemporaneo. La passione di Longley per la catalogazione delle specie naturali si deve anche alla madre, che, sin dall’infanzia, instilla nel figlio l’amore per la tassonomia delle piante e degli uccelli50. Come emergerà più oltre, le ‘litanie botaniche’ costituiscono una delle cifre stilistiche della poesia di Longley. Si è già affermato che, per Longley, la Poesia è paragonabile ad una «beautiful and rare orchid growing up through the tar macadam in a car park [...] a little plant creating its own revolution». Per riprendere questa metafora, le ‘liriche-orchidea’ di Longley sono ‘well made’, ossia ‘ben costruite’ come i suoi cesellati versi, e sono inoltre caratterizzate da una scrittura attenta e misurata. Per questo suo sguardo attento e «close to the ground», il critico Tom Herron paragona il nordirlandese Longley all’inglese John Clare, altro Linneo moderno. L’eco-elegia The Ice-Cream Man è tratta dalla raccolta poetica Gorse Fires (1991). L’elenco di fiori selvatici che la caratterizza s’inserisce nella tradizione dei classici inglesi, da The Winter’s Tale di William Shakespeare a Lycidas di John Milton. Longley ha spiegato che la lirica è ispirata ad un tragico episodio dei ‘Troubles’, ovvero l’omicidio di un gelataio di Belfast. L’uomo si chiamava Seymour,
and he was murdered on the Lisburn Road. And I had been botanizing in the beautiful part of County Mayo, looking for white orchids. And as a little ex- ercise, I put a little green notebook in my pocket, all the flowers I’d seen in one day. And I came back, and this awful thing had happened. And my younger daughter, who was a regular customer and knew all the ice cream flavors by heart – and she told me the news and that she had used her pocket money to buy a bunch of carnations to lay on the pavement outside. And what I did – I almost sleep- walked into this poem. I made a kind of pattern of the flower names in my book, and I made a kind of metaphorical wreath of the flower names. And the poem’s addressed to Sarah, my daughter.
I versi recitano:
Rum and raisin, vanilla, butterscotch, walnut, peach: You would rhyme off the flavours. That was before They murdered the ice-cream man on the Lisburn Road And you bought carnations to lay outside his shop. I named for you all the wild flowers of the Burren I had seen in one day: thyme, valerian, loosestrife, Meadowsweet, tway blade, crowfoot, ling, angelica, Herb robert, marjoram, cow parsley, sundew, vetch, Mountain avens, wood sage, ragged robin, stitchwort Yarrow, lady’s bedstraw, bindweed, bog pimpernel. Longley associa una vita umana recisa ad un elen- co di delicati fiori del Burren, «the listing of them itself performing a healing function, affirming nature’s beauty and continuance in the face of death and loss». La precisione implicita nell’atto del nominare è una forma di «invocation and charm»:
The list proposes [...] the fact of botanical persis- tence, the wonderful rich profusion and variety of the natural world, even in the face of the grotesque damage done by human atrocity; but it also, beyond that, offers to helplessness the resistance that is the act of naming itself, the patient onomastics of recital in which rhyming and naming, however tentatively and pitifully, bravely encounter and resist that other verb prominent in The Ice-Cream Man, ‘murdering”.
Come afferma Corcoran, in The Ice-Cream Man, «rhyming and naming» rimano tragicamente con «murdering». Nonostante per una morte tanto arbitraria non vi siano parole adeguate, Longley offre al lettore «the names of wild flowers, [...], as if they are themselves a wreath». Longley ha affermato: «[p]oetry commemorates. At memorial services after September Eleven the heart of each ceremony was the recitation of the victims’ names. I’ve sensed this in Ireland, too. Names are what we’re left with». Quando il poeta dice che «[i] nomi sono tutto quello che ci resta», egli non si riferisce solamente alle vittime dei Troubles, ma a tutte le vittime della guerra e della violenza. Corcoran parla di una «tactful hesitation», da parte di Longley, «about any consolation poems might offer for human suffering, and [a] deep unease about the legitimacy of making poems from violent deaths». In The Ice-Cream Man, Longley inserisce una vita umana recisa in un «cycle of regeneration which surmounts and enshrines all living beings of this earth: [he] himself declared that the list [of flowers] is supposed to go on forever, really. If you like, that’s a kind of prayer. That’s an agnostic prayer». La ‘litania botanica’ di Longley si può definire una ‘preghiera agnostica’, perché la sensibilità del poeta non contempla alcuna «conventional religious consolation to its awareness of mutability and mortality. [His] mind, it could be said, is classical rather than Christian, life being greeted with a Horatian sense of its brevity». Piuttosto che religiosa, la sensibilità di Longley si può definire «Lu cretian in its scientific rigour and instinctively ecological in its lack of anthropomorphic feeling». Pur rifiutando la consolazione dell’aldilà cristiano, Longley crede che una forma d’immortalità si possa raggiungere «through [one’s] oneness with the natural world», e concepisce la morte come uno stato di transizione. Tale concetto, tipico della poesia post-pastorale, «entails a recognition of the cyclical nature of the universe and an [...] acceptance of the trajectory which humans share with all creatures».
Bog Cotton è un’altra ‘eco-preghiera’ tratta dalla silloge The Echo Gate (1979). Anche in questo «healing pastoral», Longley lega delle vite recise ad una pianta selvatica. In questo caso non si tratta di un fiore del Burren, come quelli elencati in The-Ice Cream Man, bensì di una pianta simile al cotone, che cresce spontaneamente nei terreni paludosi. Nelle sue liriche, Heaney ha iconizzato il paesaggio detto ‘bogland’, legandolo simbolicamente alla storia ed alla cultura irlandese. Infatti, la stratigrafia che compone questo terreno, ben leggibile nelle torbiere a cielo aperto, porta alla luce tracce del passato. Le torbiere costituivano una delle poche fonti di energia per l’Irlanda, ed offrivano un habitat ideale per determinati tipi di flora e di fauna, proteggendone la biodiversità. Nelle credenze popolari, al ‘bog cotton’ erano associate qualità magiche e curative, mentre storicamente la pianta fu utilizzata come surrogato del cotone, per tamponare le ferite dei soldati durante la Prima Guerra Mondiale. Longley associa il ‘bog cotton’ ad un allusivo scenario bellico, in cui fonde i due conflitti mondiali con i ‘Troubles’ irlandesi. Questa ‘elegia officinale’ fa riferimento intertestuale a due celebri liriche della tradizione inglese, Break of Day in the Trenches di Isaac Rosenberg, ispirata alla Prima Guerra Mondiale, e Desert Flowers di Keith Douglas, che invece allude allo scena- rio mediorientale della Seconda Guerra Mondiale. Così come il rosso dei papaveri simboleggia il sangue dei caduti della Prima Guerra Mondiale, Longley propone il bianco ‘bog cotton’ come una metafora di pace, associando questa pianta, dagli ancestrali poteri curativi, alla speranza di una riconciliazione degli odi settari nordirlandesi. La prima e la quarta strofa alludono rispettivamente alle liriche di Douglas e di Rosenberg, ed ‘incorniciano’ sia graficamente che concettualmente la seconda e la terza strofa, che descrivono le proprietà ‘officinali’ del ‘bog cotton’:
(It hangs on by a thread, denser than thistledown, Reluctant to fly, a weather vane that traces The flow of cloud shadow over monotonous bog – And useless too, though it might well bring to mind The plumpness of pillows, the staunching of wounds, Rags torn from a petticoat and soaked in water And tied to the bushes to make a hospital of the landscape – Cures and medicine as far as the horizon Which nobody harvests except with the eye.)
Come emerge dai versi citati, Longley immagina che il volatile e leggero ‘bog cotton’ possa divenire un cuscino per la testa di un soldato, o una garza per medicare le ferite. In questo martoriato paesaggio bellico dove le distese di ‘bog cotton’ sono visivamente associate a un ospedale da campo, la Natura si offre come strumento di guarigione. The Linen Industry è un’altra elegia botanica di Longley, tratta anch’essa dalla silloge The Echo Gate (1979). Numerosi sono i ‘fili’ dell’ordito di questo ‘testo-tessuto’, da interpretarsi nell’accezione etimologica del Latino textus. Il componimento allude a come, in passato, a Belfast prosperasse l’industria tessile del lino, fino a quando questa produzione fu soppiantata da quella del cotone, evento che mise in ginocchio intere comunità di lavoratori. Longley descrive il procedimento con cui le fibre del lino («flax») sono trasformate in tessuto, e fonde questo elemento ‘botanico’ con uno di tipo erotico. Le prime quattro strofe sono un esempio di quella che Elmer Kennedy-Andrews ha definito «Longley’s poetry of direct amorous address, its dramatic voice the voice of indo- lent and occasionally delinquescent reverie, its subject the whole matter of sexual daydream». I versi recitano:
Pulling up flax after the blue flowers have fallen And laying our handfuls in the peaty water To rot those grasses to the bone, or building stooks That recall the skirts of an invisible dancer,
We become a part of the linen industry And follow its processes to the grubby town Where fields are compacted into window boxes And there is little room among the big machines,
But even in our attic under the skylight We make love on a bleach green, the whole meadow Draped with material turning white in the sun As though snow reluctant to melt were our attire.
What’s passion but a battering of stubborn stalks, Then a gentle combing out of fibres like hair And a weaving of these into christening robes Into garments for a marriage or a funeral?
Since it’s like a bereavement once the labour’s done To find ourselves last workers in a dying trade, Let flax be our matchmaker, our undertaker, The provider of sheets for whatever the bed –
And be shy of your breasts in the presence of death, Say that you look more beautiful in linen Wearing white petticoats, the bow on your bodice A butterfly attending the embroidered flowers.
La parola «funeral», che chiude la quarta strofa, è semanticamente legate alla sfera della morte. Tale concetto viene ripreso nelle ultime due strofe del componimento, in cui Longley evoca «the presence of death, the reminder that the linen that makes the white petticoats of love also makes both swaddling and shroud». Oltre alle lenzuola degli amanti e alle candide sottovesti femminili, il lino può trasformarsi in fasce per gli infanti o sudari per i defunti, immagini che alludono all’impermanenza dell’esistenza umana con una simbologia di tipo quasi religioso. L’uso del termine «bereavement» (verso 17), inteso come ‘lutto’ o perdita’; la presentazione degli amanti come «last workers in a dying trade» (ibid.) ed il lino definito come «matchmaker» e «undertaker» (verso 18), fanno emergere un «submerged pun on sexual consummation as l[a] petit[e] mort». Le liriche eco-erotiche di Longley, di cui The Linen Industry è un esempio, sono caratterizzate da una voluttuosità lugubre, che fonde eros e tanathos. Corcoran paragona The Linen Industry al componimento di Marvell To His Coy Mistress, ed alla più recente lirica Mayfly di Louis MacNeice («But when the summer is over let us die together / I want always to be near your breasts». L’elegia eco-erotica di Longley si conclude con un simbolo di trasformazione: il fiocco sul candido corpetto di lino dell’amata è paragonato ad una farfalla «attending the embroidered flowers», una rivisitazione in chiave contemporanea delle Metamorfosi ovidiane.
Conclusioni Longley ha affermato che le sue poesie ispirate alla natura sono quelle più intensamente politiche, perché in realtà le sue riflessioni sulla fragilità dell’ecosistema sono riflessioni sulla fragilità della condizione umana. Come ha spiegato Longley stesso,
A bad poem about the hydrogen bomb will tell us far less about the human condition than a good poem about a blackbird. If we stop caring about blackbirds and the yellow mountain saxifrage, we become less human and more likely to damage or destroy each other. [...] [M]y poems might be read as a reflection of life in Northern Ireland even when, or especially when they do not deal directly with The Troubles. Even if I’m writing about a butterfly’s wing only, or a bird’s egg, between the lines can be read my concern firstly, for the fragility of experience – the vulnerability of the human body to bullets and bombs – and secondly, my con- cern not to intrude on the suffering of fellow citizens.
Attraverso le ‘elegie dell’Ovest’, Longley spera che la luce di Carrigskeewaun giunga a illuminare l’oscurità del Nord Irlanda. Sia per la riconciliazione culturale che per la preservazione dell’ambiente, il poeta auspica che vi sia collaborazione a livello intercomunitario. Sebbene le ‘litanie botaniche’ e le ‘elegie officinali’ non possano consolare, esse offrono sommessamente, a chi le legge con cura, nomi come minute ghirlande di fiori; batuffoli di cotone selvatico per tamponare le ferite e sostenere il capo dei soldati; fasce per avvolgere gli infanti e corpetti di lino; lenzuola per gli amanti e sudari candidi come la neve. La ‘lirica-fiore’ The Ghost Orchid (1995), pubblicata ad un solo anno di distanza dal primo armistizio dell’IRA, si presenta in tutta la sua delicata complessità come effimero simbolo della Poesia, della Natura e della Pace. Al solo sfiorarne i petali, la rara orchidea bianca diventa livida, per poi dissolversi nell’oscurità:
Added to its few remaining sites will be the stanza I compose about leaves like flakes of skin, a colour Dithering between pink and yellow, and then the root That grows like coral among shadows and leaf-litter. Just touching the petals bruises them into darkness. ¬ top of page |
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