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La traduzione di due versi di Alceo nell’Antica moneta di Volponi

 Di Cesare Pomarici

 

In: Semicerchio LVIII-LIX (01-02/2018), pp. 100-104. 

 

«Scrissi le mie prime poesie dopo aver riletto i lirici greci» (Volponi 1985, p. 138). Sull’importanza della lirica greca all’interno del suo apprendistato poetico, Paolo Volponi si è espresso con notevole frequenza nei suoi scritti saggistici, autobiografici, e addirittura poetici. Nel periodo compreso fra la formazione liceale dell’autore (ginnasio-liceo Raffaello Sanzio, Urbino 1934-1943) e la pubblicazione del suo secondo libro di poesie (L’antica moneta 1955), infatti, la lirica greca – in virtù di svariati fattori culturali concomitanti (l’influsso della riforma Gentile sui programmi scolastici, la coeva interpretazione ‘spirituale’ di stampo crociano dei poeti greci, la fortunata e paradigmatica traduzione dei Lirici di Quasimodo del 1940) – aveva assunto un ruolo di grande rilevo all’interno del panorama culturale italiano. A questo prestigioso status, è bene poi aggiungere, nel caso di Volponi, la forte affinità che il giovane poeta confessava di riscontrare tra il substrato rurale ed arcaico caratteristico della lirica greca e la matrice contadina e ‘tradizionale’ della sua cultura d’origine. Fu quindi questa sorta di ‘primato poetico- sentimentale’ ricoperto dalla lirica greca – reso possibile dai già menzionati influssi culturali – a garantirle un ruolo di indiscutibile centralità nella formazione poetica dell’autore.

Tra i vari poeti inclusi nel diversificato canone lirico, le preferenze di Volponi dovettero andare verso quegli autori che egli sentiva – per ragioni di contenuto e di temperamento – a lui più affini: Archiloco, per l’aggressiva ironia con cui attaccava gli dèi «al cielo e alla terra, alle stagioni e agli eventi con la terrestrità di un palo di confine»; Saffo con «l’incantamento poetico» dei suoi cieli notturni; Alceo, interpretato come paradigma di un sapere millenario legato al vino e ai cicli stagionali; Anacreonte, nella sua veste più scanzonata e triviale di poeta della mediocritas esistenziale. Tuttavia, al di là di queste pur importanti osservazioni generali, il tema del rapporto testuale e poetico tra l’opera giovanile di Volponi e i lirici greci non è ancora stato – se non in minima parte (cfr. Pomarici 2019) – approfondito. Per questa ragione, prendendo le mosse dalla definizione volponiana di ‘antica Grecia’ intesa come «una misura interiore», questa ricerca si pone l’obiettivo di avviare la rilevazione e l’analisi della presenza dei lirici nel dettato poetico del poeta marchigiano, a partire da un autore come Alceo, già citato nel saggio-memoriale del 1976 ed emblematicamente menzionato anche in un importante poemetto autobiografico di Volponi, intitolato Canzonetta con rime e rimorsi (vv. 53-55 «nel suo stesso corpo / come nel tuo ... o, / o in quello d’Aiace, di Alceo»).

Il primo locus dell’Antica Moneta caratterizzato da una calibrata eco alcaica (e oraziana) è il componimento Giunto, scritto ad Urbino in data 9.7.1948, all’indomani della pubblicazione del Ramarro, e dedicato – insieme ad altre quattro poesie composte nello stesso anno – all’amico incisore Carlo Ceci, all’epoca insegnante presso l’Istituto d’Arte della città ducale. Il componimento – successivamente riveduto ed ampliato rispetto all’esemplare manoscritto donato a Ceci – fu poi inserito col titolo La notte delle ceneri all’interno della seconda raccolta di Volponi. Si offre di séguito il testo della prima redazione, preceduto dalla dedica autografa firmata dall’autore: «a Carlo Ceci, regalo questa poesia scritta ieri».

 

Giunto

è il momento di impazzire. 

Arrampichiamoci sui campanili;

 inseguite a cavallo

il sole che fugge.

Serrate l’acqua

nelle fontane,

amica della sera,

e scrollate dagli alberi

gli uccelli.

Usciamo tutti sulle strade; bisogna impedire alla notte

di giungere.

 

Dopo aver pronunciato, con tono ufficiale e irrevocabile, il proprio invito alla pazzia (v. 2), la voce narrante rivolge – mediante una variata serie di esortazioni in prima (vv. 3 e 11) e seconda persona plurale (vv. 4, 6, 9) – un elenco di folleggianti ed utopiche prescrizioni ad una collettività non altrimenti definita. Dallo sfrenato ed iperbolico arrampicamento sui campanili (v. 3), al romantico inseguimento «a cavallo» del sole al tramonto (vv. 4s.), fino al tentativo disperato di bloccare il fluire dell’«acqua / nelle fontane» (vv. 6-8) o alla violenza del gesto di risvegliare gli uccelli scrollandoli dai loro alberi (vv. 9s.): sono dunque queste le azioni forsennate che devono dar séguito all’esortazione della voce narrante ad «impazzire» (v. 2). Conclude poi l’elenco l’incitamento unanime «usciamo tutti sulle strade» (v. 11), nel fermo intento di ribadire per l’ultima volta il fatto che ognuno debba prendere parte – secondo la forma che gli è più congeniale – all’esplosione di follia fin qui de- lineata. Il motivo di queste frenetiche richieste è infine esplicitato nel distico conclusivo, il quale recupera in Ringkomposition il tono impersonale e normativo già presente nell’incipit: «bisogna impedire alla notte / di giungere» (vv. 12s.), fermare cioè – o quantomeno eludere – l’inarrestabile corsa del tempo.

In questo componimento dunque, nel quale ogni gesto prescritto dall’io poetico pare volto ad esorcizzare in un invasamento collettivo la fuga temporis e il deprecato avvento della notte, Volponi sembra echeggiare – in maniera creativa e finemente ricercata – il celeberrimo incipit di Alceo, fr. 332,1 V. (??? ??? µe??s???, “ora bisogna ubriacarsi”), già ripreso per altro da Orazio nell’esordio della sua ode in morte di Cleopatra (Carm. I 37,1 nunc est bibendum). Il testo in questione, un distico in endecasillabi alcaici che doveva costituire l’attacco di un carmen più esteso, fu composto da Alceo in occasione della morte di Mirsilo – il tyrannos di Mitilene estremamente inviso al poeta e alla sua fazione – per invitare il proprio gruppo di sodali a festeggiare, con una bevuta libera da ogni freno (vv. 1s. t??a p??? ß?a? / p????), la sospirata fine di una stagione politica a loro avversa. Per Paolo Volponi il ricorso ai verba di Alceo dovette essere in questo caso dettato – oltre che dal tema affine di una forsennata esplosione ‘dionisiaca’ – dalla necessità condivisa con il poeta greco di incitare la propria comunità – rappresentata qui dal «più fedele e fidato» amico C. Ceci – a reagire in maniera collettiva davanti ad un evento conturbante: la morte dell’odiato Mirsilo nel caso dell’eteria mitilenese, l’esecrato arrivo della notte per quella urbinate.

Nella poesia fin qui analizzata, dunque, Volponi agisce – rispetto al verso alcaico in questione – su due distinti livelli di emulazione: uno di tipo lessicale- semantico, l’altro metrico-prosodico. In primo luogo, infatti, egli traduce – in maniera lessicalmente libera ed espansa, ma piuttosto fedele dal punto di vista del tono e del contenuto – il nesso ??? ??? (v. 1) con la perifrasi «giunto / è il momento di» (vv. 1s.). Se, infatti, la resa dell’avverbio ??? (v. 1 “ora”) con il sostantivo «momento» (v. 2) serve all’autore (oltre che per le ragioni metriche che verranno illustrate in séguito) anche ad accentuare per forza di contrasto l’assurdità disperata del tentativo di evitare – con l’immersione in un prolungato stato di alterazione psichica – l’istante dell’arrivo dell’imbrunire, più interessante è invece la traduzione analitica di ??? (v. 1 “bisogna”) con il passato prossimo in anastrofe «giunto / è» (vv. 1s.). Essa da un lato mantiene viva ed efficace la funzione prescrittiva del verbo impersonale, dall’altro è anche in grado di preservare – da un punto di vista prettamente stilistico – il potenziale «dirompente» (Neri 2011, p. 228) ed enfatico di ???, posto in posizione iniziale nel verso incipitario. Infine, la traduzione dell’infinito aoristo passivo µe??s??? (v. 1 ‘ubriacarsi’) – reso ad es. con «più castigata misura» (Burzacchini in Degani-Burzacchini 2005, p. 227) da Orazio (Carm. I 37,1) con il gerundivo bibendum – viene qui semanticamente espansa (v. 2 «impazzire»), tramite il passaggio dalla sfera dell’esaltazione legata al vino a quella dell’esaltazione data più in generale dalla pazzia, in maniera del resto congeniale ad introdurre la fitta serie di azioni poi richieste dalla voce narrante.

Dal punto di vista metrico-prosodico, invece, Vol- poni – anche se in maniera limitata soltanto all’attacco del ‘motto iniziale’ (v. 1 ??? ??? µe??s???), e cioè alla parte più mnemonicamente assimilabile – tenta con «giunto / è il momento» (vv. 1s.) la via dell’imitazione delle cadenze accentuative di Alceo. Infatti, qualora si consideri il primo metron (reiziano giambi- co) dell’endecasillabo alcaico, nel quale i due accenti cadono sulla seconda (il monosillabo ???) e sulla quarta sillaba (in corrispondenza cioè dell’accento grafico di µe??s???), ci si accorge facilmente che anche Volponi – mediante la traduzione espansa delle parole ??? ??? con «giunto è il momento» e la con- seguente posticipazione di µe??s??? («di impazzire») – ha ricreato con una semplice scansione quinaria la stessa andatura incipitaria utilizzata dall’autore greco. Se si accetta, cioè, di pronunciare di séguito le prime tre parole del componimento («giunto è il moménto», ossia con sinalefe fra «giunto-è-il»), ci si trova di fatto a ricalcare – pur con un’inevitabile sfa- satura semantica – la medesima cadenza, data dagli accenti sulla seconda e sulla quarta sillaba, del primo metron del frammento di Alceo. In questa prima poesia – come nel Carm. I 37 di Orazio – Volponi sfrutta dunque l’eco alcaica soltanto in sede incipitaria, in qualità di motto da cui prendere le mosse, per poi addentrarsi nel prosieguo del testo in maniera autonoma e proporzionata rispetto al proprio target, e cioè all’intento di pronunciare un solenne e collettivo invito ad «impazzire». L’auctoritas di Alceo serve quindi in questo caso all’autore per calibrare l’intensità e lo spessore poetico del proprio tono, e su questi successivamente innestare – mediante il ricorso alla propria autenticità espressiva – la già menzionata serie di esortazioni.

La seconda e forse più marcata traccia testuale della lirica di Alceo all’interno del corpus poetico dell’Antica moneta è riscontrabile nei primi due versi della seconda strofa del componimento intitolato Seguo la rondine.

 

Cantano i delfini

per me marinaio

sopra una barca quadrata 

che reca grano e arancie [sic].

 

Non conosco la stella fenicia

 o il senso dei venti;

il cielo mi distrae

e l’aria indugia

nelle mie tasche di fustagna.

 

 

Seguo la rondine 

che farà il nido 

nel tuo cortile.

 

La prima strofa della poesia si apre con l’ironica ed ambigua autorappresentazione della voce narrante nei panni di un marinaio (v. 2), il quale – al contrario di Orfeo (cf. Simon. PMG 567), che col suo melos soave evocava l’emersione dei pesci – naviga accompagnato dal favore del canto dei delfini (v. 1). Un’imbarcazione piuttosto singolare conduce il narratore- navigante in questa traversata marittima, visto che si tratta di una barca dalla forma «quadrata» (v. 3), probabilmente simile a quella di una zattera o di una chiatta, impiegata qui nel trasporto di un carico agri- colo di «grano e arancie» (v. 4). Inoltre, sulla base di un passo dello scritto intitolato Case dell’Alta Valle del Metauro (1991) – in cui lo scrittore fa la peculiare menzione di un prodotto tipico della prassi agricola urbinate, denominato appunto, nel lessico contadino locale, «barca del grano» (un mucchio di covoni a forma rettangolare o quadrata) – si potrebbe sovrapporre all’esplicita ambientazione marinaresca appena tratteggiata un’ulteriore suggestione interpretativa. Infatti, se si considera il contesto tipicamente contadino e rurale che contraddistingue gran parte della raccolta e il fatto che la navigazione evocata nel componimento si concluda con il metaforico approdo in un cortile (v. 12), non è da scartare l’ipotesi che la raffigurazione fin qui delineata sia il frutto dell’ironica immaginazione dell’io narrante che – pur collocato all’interno dell’abituale milieu agreste – abbia tutta- via fantasticato di trovarsi in un avventuroso contesto marinaresco, cioè a bordo di un bastimento sul quale il trasporto del grano è affiancato ad un più esotico carico di agrumi. Del resto, un’analoga e più contra- stata pulsione ad una fuga liberatoria verso la distesa del mare emerge anche – in maniera maggiormente esplicita – nel Giro dei debitori 80s.: «il mare da lontano mi tenta / al giuoco della fuga».

Nella seconda strofa, invece, la voce narrante opera una transizione contenutistica dal piano descrittivo e referenziale che caratterizzava la quartina precedente ad uno più soggettivo e autoreferenziale, caratteristico poi di entrambe le stanze finali. Il navigatore protagonista, connotato come già nel Ramarro (in All’alba 13- 15 e in Sei Venuto 12) dai consueti abiti di fustagno (v. 9 «nelle mie tasche di fustagna»), confessa qui – mediante la metafora nautica della perdita della rotta (vv. 5s. «non conosco la stella fenicia / o il senso dei venti») – il proprio statico disorientamento, sul quale anche la corrente – che dovrebbe avere il compito di innescare il moto direzionato della navigazione – «indugia» (v. 8), senza essere in grado di fornirgli ulteriore supporto. Così, dunque, il marinaio – immobilizzato come già nella strofa finale di Cugina volpe (vv. 170 s. «l’incertezza di dove andare / mi assilla») nel suo sta- to mentale di smarrimento – scruta il cielo in cerca di segni, ma – interiormente diviso e bloccato da opposti orientamenti (v. 7 «il cielo mi distrae») – non è in grado di cogliervi le tradizionali indicazioni-guida tramite cui imprimere una rotta consapevole alla propria imbarcazione. Con un movimento non preventivato – per altro analogo a quello della Notte delle ceneri 22-25 – nella terzina conclusiva l’io monologante riesce a trovare in maniera tanto impulsiva quanto salvifica una soluzione alla condizione di stasi delineata nella strofa precedente. Infatti, come già avvenuto nella Vergine 12-14 («l’in- nocente starna / ... / e mi indica il tuo cammino»), il transito improvviso di una rondine all’orizzonte delinea per il navigatore la concreta possibilità di ripartire per una nuova meta: «seguo la rondine / che farà il nido / nel tuo cortile» (vv. 10-12). Contrariamente a quanto delineato in O doloroso cane 10s. («non ha uccelli il cielo / né orme la spiaggia»), la scissione intima e paralizzante – a cui il marinaio, distratto dal cielo e privo del conforto razionale conferito dalla conoscenza degli astri (v. 5 «stella fenicia»), era giunto – viene quindi ricomposta in modo del tutto spontaneo e istintivo dal benefico segno augurale lasciato dalla rondine. Nella direzione da essa indicata, la navigazione può dunque riprendere il proprio corso e dirigersi alla volta di un nuovo metaforico approdo e di un nuovo misterioso incontro, il quale – come emerge nel distico finale (vv. 11s.) – avverrà nello spazio protetto di un cortile, luogo consacrato – secondo un topos erotico già presente nella poesia di Volponi – alle relazioni amorose.

All’inizio della seconda strofa – quella deputata ad indicare, tramite la metafora nautica, l’intimo disorientamento della voce narrante – Volponi sembra dunque inserire la traduzione (vv. 5s. «non conosco ... / ... il senso dei venti») del celebre incipit del fr. 208a V. di Alceo (v. 1 ?s????t?µµ? t?? ???µ?? st?s??), il più noto fra quelli dedicati dal poeta di Lesbo all’allegoria della nave (frr. 6, 73, 249, 306i col. II V.). In questo componimento in strofe alcaiche, che si apre appunto con «la prepotente soggettività» (Burzacchini in Degani-Burzacchini 2005, p. 219) della frase d’esordio pronunciata dall’io poetico (v. 1 ?s????t?µµ?, ‘non comprendo’), Alceo denunciava mediante la metafora del naufragio incipiente – già inclusa nel repertorio delle immagini omeriche (cf. e.g. Il. XV 381-383 e Od. V 327-332) – la disperata condizione vissuta dalla sua eteria forse durante la st?s?? (v. 1 ‘insurrezione’) che portò al potere Mirsilo, lo stesso leader politico mitilenese la cui morte – nel sopra citato fr. 332 V. (v. 1 ??? ??? µe??s???) – era stata accolta con grandi festeggiamenti da parte del poeta e dei suoi compagni24. L’enfatica dichiarazione – con la quale l’io parlante esordiva asserendo la propria difficoltà ad orientarsi nel mezzo del fortunale – che secondo Gentili (2006, p. 299) indicava, fuor di metafora, «che due fazioni armate assaltano la città e Alceo e i suoi sono accerchiati, senza via d’uscita», era poi seguita sempre nella prima strofe da una emblematica raffigurazione della furia delle onde che – accanendosi contro lo scafo della ‘nera nave’ – portavano l’imbarcazione alla deriva in mare aperto (vv. 2-5). Il carme proseguiva poi con una dettagliata descrizione delle componenti della nave (vv. 6-13), nel loro «sfasciarsi sotto l’impeto della tempesta, a simboleggiare il dif- ficile momento attraversato dell’eteria» (Lentini 2001, p. 170), per poi concludersi, nelle ultime e lacunose strofe, con alcuni riferimenti al ‘carico distrutto’ (v. 14) e ad una possibile ma difficoltosa salvezza dell’io po- etico (vv. 13s.).

Di questo fortunatissimo componimento allegorico- politico (ripreso ad es. da Theogn. 667-682, Aesch. Th. 62-68 e 208-210, e Hor. Carm. I 14 fra gli antichi, e da Dante Pg. VI 76-78, Petr. RVF 189, e Carducci Juvenilia III 1 nella tradizione italiana), Volponi si limita dunque soltanto al reimpiego del verso incipitario, che – pur con lievissimi scarti lessicali – viene adattato all’economia interna del componimento in questione.

Dal punto di vista traduttivo l’autore si mantiene piuttosto letterale, sia rispetto all’indicativo presente lesbico ?s????t?µµ? (v. 5 «non conosco») – in maniera semanticamente affine a Romagnoli (1932, p. 73: «non so») – sia rispetto al genitivo plurale t?? ???µ?? (v. 6 «dei venti»). Per quanto riguarda il polisemico sostantivo st?s??, invece, Volponi propende per una resa che – pur sostanzialmente fedele al significato primario (‘direzione’) del termine – perde tuttavia la sua metaforica valenza politica (‘insurrezione’) e presenta una connotazione lessicale iperonimica e passibile di una duplice interpretazione. La non conoscenza del «senso dei venti» (v. 6), infatti, potrebbe essere in questo caso riferita sia al momentaneo e incidentale smarrimento della rotta di navigazione (in maniera appunto simile ad Alceo) – al quale, come già detto, sopperirà poi la rondine con il suo improvviso passaggio – sia ad un’ampia e connaturata condizione di amnesia dell’io poetante, a cui sembra essere precluso il significato profondo degli elementi della realtà esteriore, come ad esempio il vento (v. 6 «il senso dei venti») e la stella polare (v. 5 «stella fenicia»). Sarebbe, quindi, la coscienza di questo vuoto di significati a costringere la voce narrante ad affidarsi in maniera precaria e istintiva all’aiuto altrui.

Con questa operazione Volponi mira dunque – una volta privata la confessione di Alceo di ogni drammatico riferimento alla condizione politica – ad una sua sottile e raffinata decontestualizzazione, adattandola cioè al tono più leggero e meno allarmante della propria intima allegoria. Infatti, in una strofa che fin dal primo verso – tramite la menzione della stella polare secondo la sua denominazione ellenica (v. 5 «stella fenicia») – intende richiamare la grande tradizione nautica dei Greci, l’autore dell’Antica moneta si serve ancora una volta dei verba di Alceo, per connotare – tramite l’umorismo generato dalla desublimazione dell’enfasi drammatica di ?s????t?µµ? ... st?s?? (v. 1) – la metaforica espressione del proprio smarrimento. A differenza della barca di Alceo, eroicamente presa di mira dalle onde, quella di Volponi – più simile alla «timida barca» di Ungaretti (Attrito 5)29, o a quella in attesa del soffio ove le «navi inclinano il fianco / e l’ansia dei naviganti a strane cose» di Luzi (Immensità dell’attimo 14s., in La barca) – è dunque l’allegorica imbarcazione di un marinaio disorientato e sprovveduto, il quale, lungi dal comprendere il linguaggio universale degli astri e delle correnti, si limita semplicemente all’umile ricerca di una presenza benevola che possa venire in suo soccorso.

Entrambe le operazioni di traduzione e inserimento degli incipit di Alceo nel tessuto poetico di Volponi avvengono, dunque, nel segno di una unidirezionale appropriazione attualizzante. Un’appropriazione che scaturisce da un peculiare caso di ‘affinità elettiva’, in virtù della quale Volponi prende in prestito le parole del poeta mitilenese e le accorda – come affermato in maniera emblematica nell’intervista a Marongiu (2003, p. 14) – al proprio giovanile bisogno «di fare una poesia molto semplice, che fosse anche un modo meno retorico, meno lirico, meno poetico nel senso tradizionale della parola, molto immediato, che attraverso una lingua semplice rievocasse le suggestioni dei grandi lirici greci, la loro precisione rispetto al mondo e la capacità di parlare, appunto, di cose che bisognava ritrovare, che erano state come perdute».


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