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FABRIZIO MILIUCCI, Saggio sulla paura, Roma, Pietre Vive, 2022, pp. 71, € 12,00.

 

La nuova raccolta di Fabrizio Miliucci arriva ai lettori ben dodici anni dopo la precedente (Nuove poesie, 2010). Un arco temporale ampio, che l’autore ha chiuso solo quando ha ritenuto fosse risolto lo scrupolo che lo obbligava ad attendere: non pubblicare finché non avesse trovato qualcosa da dire e il numero aureo di testi funzionale allo scopo. Non è da escludere che l’attesa avesse anche un significato politico: un’ovattata forma di resistenza («Farsi cauti, provare la resistenza senza spaccare», p. 15) contro i ritmi (consumistici) dell’editoria. Proprio perché il mercato della poesia somiglia a un’economia di baratto e conosce perciò solo in minima parte il lucro, non si vede perché sforzarsi di pubblicare ogni sospiro o sussulto (onore alla pazienza e alla cura del piccolo Pietre Vive, dunque). Aspettare, oltre a essere opportuno, è necessario («Io aspetto, fiducioso che non ci sia altro da fare», p. 13). Nel caso di Miliucci, l’attesa ha favorito la produzione di un’opera intelligente, dove è difficile scovare un rigo di troppo o un verso fuori luogo o stonato (di quelli che inspiegabilmente innalzano o abbassano il tono); ha favorito la suddivisione impeccabile della raccolta in 6 sezioni (con una ricca poesia liminare: è al tempo stesso un proemio, un pagina di diario, un incipit narrativo e una dedica), e la scelta di titoli fortunatissimi che dialogano (ironicamente e non) con fonti letterarie e extra-letterarie (un plauso particolare va al titolo felliniano-bianciardiano La dolce vita agra, che da solo basterebbe a definire storicamente la vita dei neolaureati tra anni Zero e Venti; a cui aggiungerei i righi di p. 12 che riscrivono Montale: «Ci siamo, ma solo in virtù di quello che non stiamo facendo, del posto in cui non stiamo andando»).Non si hanno dubbi sul fatto che i testi qui raccolti siano stati ricavati con acume da una massa poetica accumulata in un decennio (e lasciata in gran parte alle spalle); come non si hanno dubbi neppure sulla logica che ha guidato il gesto selettivo nella fase di composizione del libro: non del florilegio, ma della coerenza verso un principio-cardine, quello di saggiare la paura, come il titolo ambiguo, forte ed esemplare che compare in copertina ben indica. Alcune precisazioni: la parola “saggio” è usata nel senso a-sistematico e ondivago di Montaigne; “paura”, inscritta nel complemento di argomento, dà il tema, ma lungo il libro ci si accorge di quanto gli stia stretta la parte: fatica a rimanere un mero oggetto di analisi, perché l’osservatore ne è assorbito. La paura non è solo un espediente poetico, né solo un tema: è una condizione (Condizione è anche il titolo di una poesia), ed è la sintesi di quell’articolazione complessa di forme che è la realtà. La raccolta è il mezzo che Miliucci usa per svelare (non per definire) la forma di quella sintesi. Il tono sociologico-accademico del titolo crea un’attesa che i testi piacevolmente smentiscono: scorrendo le pagine, si capisce che in realtà il tono è solo il guscio (impersonale) di un umano gheriglio infragilito dagli eventi. In particolare, da due grandi eventi: la morte di Carlo Bordini («C’è un congresso perenne fra le varie persone che sono / come le teste del tuo romanzo, Carlo. // Penso sempre più spesso che avevi ragione», p. 67) e la pandemia («Trascorriamo dei mesi confinati in un grande edificio / al limite fra essere liberi ed essere esclusi», p. 68). La sforzo di Miliucci di lasciarli nella loro natura evenemenziale, cioè di tenere a freno la loro urgenza e di non cadere nella trappola di eleggerli facilmente a temi, è lodevole; restano problemi interni di un sistema più complesso: la propria esistenza all’interno di un’epoca.

Il colto e meditato rigore (anche l’ibridismo, che è una componente strutturale della raccolta, non è mai barocco, né fastidiosamente brillante) non protegge l’autore da un pericolo. Talvolta, la dimensione estetica lacca quella ideologica, trasformando concetti o visioni, che forse avrebbero meritato un altro destino, in statuette votive per adepti al culto delle lettere. Succede anche a Mazzoni – uno dei punti di riferimento di Saggio sulla paura, insieme, senz’altro, a Bordini, Pecoraro, Levi (in quegli «aguzzini» di Via Tasso) – ma con una differenza: in Mazzoni, di solito, l’estetizzazione è funzionale a rendere l’idea nichilistica che l’autore ha del destino dell’occidente; in Miliucci invece genera il sospetto che sia semplicemente un divertissement, un manierismo (tra Pasolini e il cannibale Ammaniti) sfuggito di mano: gli spacciatori che attraversano le strisce pedonali con il rosso («e i pusher attraversano i semafori / già rossi, non pensano ai domani», p. 21) non si capisce se siano un’immagine allegorica o realistica, perché non sono messi in relazione a un’idea più larga e chiara, per esempio, di comunità e giustizia, di salvezza e dannazione. Non responsabilizzano: restano passanti pieni di appeal visti dal quinto piano di un palazzo. Citare un anti-modello sociale, non porta in automatico a mettere in crisi le (intollerabili) basi del senso comune, ma replica semmai l’innocua e molto intellettualistica fascinazione del male, solleticando la retorica del bassofondo come luogo della verità e dell’umanità più pura (in quest’ottica anche lo scatto di empatia della poesia Fine del duemilaquindici, quel «io sono con loro», convince poco).

Al di là di questo limite, la raccolta presenta non pochi pregi: l’omogeneità del tono; l’uso a regola d’arte delle immagini, che non sono mai astruse, ma intelligibili, e varie (a volte divertenti, altre cupissime); l’abile capacità di alternare parti narrative a parti in prosa e in versi, poesie lunghe a poesie brevi (generando un raro piacere nella lettura); la gestione oculata di surrealismo, parodia e ripresa di generi di largo consumo (il noir, su tutti). Ogni elemento collabora nella fusione di una materia credibile, che eleva la paura a un grado più alto: al grado di dato storico, e, in particolare, di dato storico generazionale («Questo è il punto in cui mi trovo, all’età di trentacinque anni», p. 15). È difficile non rivedere la nostra generazione in gran parte dei testi della raccolta, ed è difficile non ammettere quanto sia (siamo) una generazione che, proprio come l’io di pagina 14, di fronte ai «punti di rottura» è rimasta soprattutto «a vedere quanto reggevano», accontentandosi delle riparazioni, senza considerare che, come ci ricorda Miliucci, «la riparazione non equivale a nuova verginità».

                                                                                                          (Riccardo Deiana)


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