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SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA 64 (2021/2) pp. 80-82 (scarica il pdf)
Gualtiero di Châtillon, Poesie d’amore e d’invettiva, a cura di Speranza Cerullo, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2020 pp. 312 (Gli Orsatti. Testi per un altro medioevo 47).
Gualtiero di Châtillon, di cui la Speranza Cerullo ci offre qui una scelta dei carmi lirici e satirici con traduzione e ricco commento, soddisfacendo meritoriamente un antico desideratum degli studi mediolatini, è considerato uno dei più importanti poeti medievali, capace di coprire una gamma estesissima di generi e registri, dall’epica dell’Alessandreide, diffusa anche nelle scuole come classico “alternativo” e conosciuta da Dante (ora tradotta per la prima volta in italiano da Lorenzo Bernerdinelli per la collana “Scrittori latini dell’Europa medievale” di Pacini), alla satira politica e morale delle canzoni ritmiche giovanili che occupano la prima parte dei Carmina Burana a dolci liriche d’amore per le quali andava famoso al suo tempo, cioè nel XII secolo, l’età aurea della letteratura mediolatina. Cerullo ne ricostruisce la biografia nella lunga (pp. 5-74) introduzione, dalla nascita a Lille in data incerta agli studi a Reims, Parigi e all’università di Bologna, in uno dei soggiorni italiani che lo metteranno in contatto con la corruzione della curia papale da lui così spietatamente criticata nei versi satirici, fino all’insegnamento a Laon e appunto a Châtillon e al servizio presso l’arcivescovo di Reims, il mecenate Guglielmo dalle Bianche Mani, che lo fece diventare cardinale e al quale dedica l’Alessandreide. La morte per lebbra contratta da una prostituta intorno al 1180 è una leggenda letteraria, trasmessaci dalla vita del codice Erfurt, Amplon. 8° 90, forse derivata dall’autocommiserazione di due suoi componimenti, o forse basata su elementi reali ma creduta letteraria per effetto delle sovrainterpretazioni degli studiosi. Cerullo offre un’analisi consapevole e accurata dei codici espressivi della produzione satirica, partendo dall’uso della prima persona moralmente autorevole e giudicante e ben distinta dalla personalità autoriale, contrapposta al degrado di una società che aveva espresso papi concorrenti (Alessandro III e Vittore IV) e re assassini di arcivescovi (Enrico II) e la cui parte clericale era preda di avidità e lussuria. Il registro stilistico è informato alla profezia biblica e all’apocalittica, la cui valenza esegetica diventa indispensabile conoscere per una piena comprensione dei versi. Ma non è solo la politica universale ad attirare i suoi strali: un gruppo di componimenti (specialmente i numeri 43, 50, 65) ritraggono il mondo scolastico e curtense con tutti quelli che diventeranno luoghi comuni sulla dissolutezza e la povertà degli studenti e le loro feste “dei folli”. Sensibilmente diverse le 13 poesie d’amore (incluse 3 canzoni di primavera e 2 fra le prime pastorelle della storia letteraria), anch’esse risalenti al periodo giovanile, tramandateci nel manoscritto 351 di Saint-Omer che raccoglie 33 testi in versi di vario argomento attribuiti a Gualtiero da Karl Strecker, uno di massimi filologi mediolatinisti del primo Novecento e certamente, con Meyer, il più esperto conoscitore di poesia ritmica. Vi ritroviamo schemi, come quello dell’amore paradosso, con dotto richiamo a presupposti logici noti a tutti i “chierici”, dell’amore-malattia e dell’amore-follia, che diventeranno luoghi comuni e tali ci appaiono oggi alla lettura, tanto è stato il loro successo nel dolce stil novo e in Petrarca. In questo genere letterario i modelli sembrano piuttosto essere i classici augustei Virgilio, Orazio e Ovidio, anche se probabilmente un’indagine sul patrimonio poetico mediolatino individuerebbe riferimenti ad altre opere fra IV e XII secolo, modificando così profondamente la comprensione dei testi e la ricostruzione dell’officina di Gualtiero; ma è un lavoro ancora da fare per molti autori medievali: classicismo e crocianesimo personalistico anche inconsapevoli ancora dominano i nostri paradigmi. Come nota Cerullo, questo amore è libero dalle sovrastrutture concettuali che caratterizzano l’amore cortese della lirica provenzale o germanica, enfatizzando elementi malinconici e nostalgici ma anche “restituendo la stessa figura femminile a una dimensione erotica sgombra da inibizioni o contraffazioni moraleggianti”. Le tre canzoni 4-5-6 a Niobe disegnano una esile storia, come avverrà in alcuni canzonieri mediolatini più sviluppati come i Carmina Rivipullensia o nei cicli di Marbodo. Cerullo, filologa romanza, arricchisce la tavolozza di Gualtiero con l’identificazione di somiglianze convincenti con elementi della lirica trobadorica (ad esempio l’emancipazione dell’amante dalle leggi di ragione e natura come in Bernart de Ventadorn) e confrontando a modelli volgari la pastorella numero 8, definita “primo isolato esperimento latino di uno dei generi di maggiore successo della poesia medievale”, che però forse ha altri esempi nei Carmina Burana (si vedano su questo gli studi di Armando Bisanti pure citati in Bibliografia) e in testi anonimi editi da Dronke. In generale, il tema dell’amore non è affatto assente nella cultura latina dell’epoca: un panorama sui molti testi latini dedicati alla trattazione dell’amore in ottica religiosa (in senso cioè diversissimo da quello del De Amore di Andrea Cappellano, che pure è in latino) si trova nella raccolta commentata in due volumi da Francesco Zambon per la collana della Fondazione Valla. Ben documentata nell’Introduzione della Cerullo l’ascendenza classica, specialmente ovidiana, del topos della militia amoris (che però cambia completamente di segno nella cultura medievale, come dimostra il De amore), mentre sul conflitto chierico-cavaliere la produzione mediolatina offre una tale sequenza di testi (fra i quali la celebre tenzone dei Carmina Burana e il Concilium Romaricimontis, di cui sta per uscire la prima traduzione italiana nella collana Pacini, a cura di Irene Spagnolo) da rendere improbabile un confronto con la tradizione volgare che non sia derivativo. Il capitolo 5 analizza con grande accuratezza somiglianze e differenze fra le prescrizioni retoriche sul paesaggio ameno (come in Matteo di Vendôme Ars versificatoria) e le attualizzazioni poetiche, non sempre corrispondenti alla trattatistica e variamente connesse alle modalità di emersione dell’io lirico. Anche qui l’individuazione di apparenti fonti classiche del naturalismo medievale come le Metamorfosi ovidiane potrà essere sfumata e stratificata considerandone le riscritture mediolatine, specie nel XII secolo, che straripa di poemi filosofici. E la Cerullo, consapevole di tale convergenza culturale, indica proprio questa pista segnalando, sulla scorta di indizi lessicali come il termine fetura, il rimando al prosimetro Cosmographia di Bernardo Silvestre, pur denunciando la mancanza di studi che analizzino queste temperie culturale (anche se gli ultimi lavori di Dronke e il Silent Masters di Godman, fra gli altri, l’hanno in parte colmata). Su questi aspetti sembra che tradizione latina, erede di un complessa cultura letteraria, filosofica e scientifica, e tradizione poetica in volgare, viaggino su binari paralleli se non proprio divergenti e, quando se ne colgono coincidenze, il vettore è quasi sempre orientato dal latino al volgare e non viceversa. L’ultimo capitolo accenna a sviluppi di quella che la curatrice definisce efficacemente “estetica della serialità”, che applica alla poesia mediolatina le antiche e sempre valide osservazioni di Zumthor sul formalismo della letteratura medievale, la cui fruizione però va incontro all’«inesorabile straniamento del lettore contemporaneo, tagliato fuori dall’universo chiuso di allusioni, richiami, citazioni e in buona parte sprovvisto della particolare sensibilità ritmico-musicale che più di ogni altro genere connota nello specifico la lirica goliardica» (p. 54), concepita per la performance e quindi irrecuperabile per la differenza di conoscenze e pratiche musicali. E ne analizza alcuni elementi retorici ed esempi dell’intertestualità incrociata (Lucano-Isaia nel carme 58), che come si è detto potrebbe venire ulteriormente stratificata se si tenesse conto dei possibili modelli mediolatini. La Nota ai testi presenta le 18 poesie scelte (9 d’amore, quasi tutte quelle pervenuteci, e 9 satiriche, mediamente più lunghe): il criterio è l’illustrazione della poetica d’autore, includendo strofe cum auctoritate, cioè con citazione esplicita ricorrente, testi bilingui latino-francesi, visione infernale, pastorella, più le poesie finite nei Carmina Burana. Rievoca rapidamente la complicatissima storia delle attribuzioni, da Novati a Strecker, Wilmart, Dronke, Wilson, Wollin, fino all’edizione di David A. Traill del 2013 da cui questa antologia per lo più attinge, pur riconoscendone una tendenza forse troppo marcata alle correzioni e congetture su lacuna. La stessa Cerullo interviene a sua volta in sette passi, che meriteranno una discussione in altra sede. Ogni testo è preceduto da un’introduzione con bibliografia e informazioni sulla tradizione manoscritta e accompagnato da preziose note di commento. La traduzione, che è la principale e direi storica novità di questo lavoro, segue principi molto personali, cercando di evitare sia la versione di servizio sia il lessico arcaizzante e mirando invece alla “restituzione del portato formale del testo poetico”. È dunque una resa di quelle che un tempo si chiamavano libere e invece, quando trovano il giusto equilibrio, vanno piuttosto considerate fedeli alla connotazione letteraria più che a una corrispondenza lessicografica in senso scolastico. La nota richiama i tentativi di resa pasoliniana, gli unici in forma linguistica corrente e insieme isometrica, e del dettato pasoliniano troviamo traccia a 11, 4, 2 nella resa di cupido con “smania”, Lieblingswort che Pasolini usa anche nelle citate traduzioni di Carmina Burana 62 e 69. Cerullo cita con benevolenza anche la soluzione (che oggi mi appare troppo audace e creativa, nonostante la buona accoglienza e le proposte di riedizioni) da noi adottata in verde età nell’antologia La poesia carolingia del 1995; lungo questa linea la curatrice insiste opportunamente sulle necessità di una compensazione ritmica e rimica dell’orchestrazione musicale originaria, facendo leva “su una sostanziale convergenza di gusto rispetto a molta poesia contemporanea italiana di stampo postmoderno”, consapevole che l’eventuale rinuncia a trasmettere almeno un’ombra della finissima tessitura fonica dell’originale ucciderebbe senza dubbio ogni speranza di salvarne le qualità stilistiche: per questo, se fosse ancora fra noi, Giorgio Caproni sarebbe il candidato perfetto alla traduzione ideale. Uno stesso tipo di strofa è risolto con modalità diverse a seconda del contesto. Le sfide di elementi bilingui sono state risolte nel caso del greco con soluzioni interne all’italiano ma di registro arcaizzante per evitare straniamenti troppo marcati, nel caso del francese con il francese moderno. Le auctoritates sono segnalate dal corsivo.
Questa rete di criteri e l’inclinazione creativa della curatrice implica inevitabilmente scelte che qualche lettore potrà considerare discutibili nei numerosi casi in cui la semantica dell’italiano si allontana molto (o troppo, a seconda dei gusti) da quella documentata nella lingua di partenza e che talvolta possono far pensare a fraintendimenti semantici o a variazioni non sempre necessarie anche all’interno della tendenza ritmica prioritaria. Ma ogni soluzione di questo tentativo - che segna comunque, con tutti i suoi rischi e il margine di arbitrio, un primum assoluto di resa italiana di un poeta così importante - potrà essere stimolo a miglioramenti o rifacimenti ulteriori, cui le sapienti introduzioni ai singoli testi offrono un sussidio efficace. Segnaliamo dunque con piacere riuscite non contestabili come nella prima strofa di Dum queritur michi remedium (5), che bene esemplifica il motivo delle antinomie spiegato nell’Introduzione:
Dum queritur michi remedium quo pellitur opus venerium distrahitur mens in contrarium nec vertitur amor in odium. Dum fugitur, Amor incurritur, et non convertitur in mel absinthium. Nil agitur, si dum relinquitur Syrtis incurritur Sille naufragium.
Quando cerca un rimedio che cancelli l’opera di Venere, il pensiero è portato al contrario e non si muta in odio l’amore. Mentre lo fuggo, Amore mi insegue: non si muta in miele l’assenzio. Un nulla di fatto se lascio le Sirti per cadere nel gorgo di Scilla.
Altro esempio ben ritmato, nel registro satirico delle strofe cum auctoritate, è la strofa 14 6:
Hoc est, que in sinodis confidendo tonat, in electionibus prima grande sonat; Intronizat presules, dites impersonat: et genus et formam regina pecunia donat.
È questo che rimbomba nei sinodi, impudente, che sopra tutto, enorme, risuona nei consessi; i vescovi li incattedra e beneficia i ricchi: bellezza e nobilità dona sua maestà il denaro (Orazio Ep. I 6, 37).
Concludiamo con la bellissima 18 Versa est in luctum, di registro dolente, ricondotto alla disperazione del poeta malato e forse moribondo, che prende le mosse dal celebre versetto di Giobbe 30, 31 versa est in luctum chitara mea, poi oggetto di molte altre rielaborazioni, che nella versione di Cerullo mantiene il suo incanto ritmico e la maestria dei suoi incastri sintattici, anche se perde il correlativo oggettivo della cetra.
I Versa est in luctum cythara Walteri; non quia se ductum extra gregem cleri vel eiectum doleat aut abiecti lugeat vilitatem morbi, sed quia considerat quod finis accelerat improvisus orbi […]
Si è volto in pianto il canto di Gualtiero: non perché isolato dal gregge del clero, scacciato lo rimpianga, o pianga di un morbo la vergogna abbietto, ma perché contempla la fine che sul mondo corre, inaspettata. […]
Nella seconda strofe compare un famoso notturno, che l’acume esegetico di Francisco Rico ha saputo ricondurre all’Opus imperfectum in Matthaeum dello pseudo-Crisostomo, di cui il passo poetico è una sorta di versificazione, e che riguarda l’interpretazione teologica della parabola di Matteo 20, 1-16, quella cui è ispirata tutta la lirica Missus sum in vineam. Le strofe seguenti sono appunto una applicazione della semantica allegorica (basata soprattutto su Rabano Mauro). Qui ciò che spicca non è tanto il tentativo di mimesi della grazia lirica e intellettuale dell’originale quanto il prezioso contributo del commento alla sua comprensione, che la Cerullo conferma impossibile o ingannevole, pur nella bellezza autocomunicativa del paesaggio, senza un’adeguata conoscenza del retroterra biblico-esegetico. Le “valli” sono i laici senza legge (principi e regnanti), i “monti” le fonti della Scrittura, cioè i sacerdoti, chiamati anche “colli” perché stanno sulla cima del monte Sion come specchio del mondo, ma partecipano e contribuiscono al suo inarrestabile degrado.
II Umbra cum videmus valles operiri, proximo debemus noctem experiri; sed cum montes videris et colles cum ceteris rebus obscurari, nec fallis nec falleris, si mundo tunc asseris noctem dominari.
Quando vedi le ombre stendersi sulle valli, sai che è vicino il calare della notte; ma quando vedrai i monti, i colli e ogni altra cosa tutta rabbuiare, non inganni, e non sei ingannato, se dirai che la notte regna sull’universo.
Francesco Stella
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