« indietro edited and translated by
MICHAEL LAPIDGE, Oxford,
Clarendon Press 2019, pp.
xvi-605 (Oxford Medieval
Texts)
Michael Lapidge, uno degli studiosi
più autorevoli di letteratura mediolatina,
consegna con questo volume il monumento
si vorrebbe dire definitivo all’opera
poetica di Beda, padre della storiografia
inglese e della letteratura anglolatina altomedievale,
l’autore cui ha dedicato la
maggior parte di un’attività critica e filologica
intensissima ed esemplare e di
una pratica didattica che risale al corso
sui Versus de die iudicii e sulla Vita metrica
S. Cudbercti tenuto all’Università di
Cambridge nel 1970, cinquant’anni fa.
Nessuna altra edizione aveva finora offerto
tutti insieme i testi poetici di Beda
e nessun’altra edizione, anche parziale,
si basa come questa su una escussione
integrale dei moltissimi testimoni utili e su
una analisi complessiva, lucida e solida,
che individua in maniera inoppugnabile
paternità, redazioni e contesti di composizione
e ricezione di ognuna delle opere
coinvolte, ricostruendo senza forzature
anche il Liber epigrammaton e il Liber
hymnorum che Beda elenca fra i titoli
della sua produzione ma che sono andati
presto perduti in una trasmissione di tipo
episodico e antologico.
Delle edizioni precedenti l’unica citata
con rispetto è quella della Vita Cudbercti
a cura di Werner Jaager (Lepizig, 1935),
mentre le altre, come vedremo, oltre che
parziali e incomplete sono tutte passibili
di critiche radicali.
Caratteri formali della poesia
di Beda
Il capitolo introduttivo rievoca la scarsa
fortuna critica di Beda poeta, dovuta
soprattutto all’influenza, anacronistica
74 LXIV 01/2021 Recensioni Poesia latina
per la letteratura medievale, del modello
moderno e romantico di poeta ‘ispirato’
e creativo, e ne analizza alcune caratteristiche
stilistiche che torneranno utili per la
determinazione delle attribuzioni: il tipo di
esametro lodato da Beda nel De arte metrica
(dotato di enjambement, di struttura
‘aurea’ nella posizione di nomi e aggettivi,
di elenchi asindetici e anteposizione
degli attributi rispetto ai sostantivi), la sua
elegante capacità di compressione sintattica,
le figure retoriche, la musicalità. In
particolare, Lapidge individua gli schemi
metrici più idiosincratici (le sequenze preferite
di dattili e spondei) basandosi anche
sugli studi di Duckworth e Ceccarelli (ma
sarebbe stato utile anche E. D’Angelo,
L’esametro del Waltharius, Napoli 1986,
che a differenza di Duckworth e Ceccarelli
include ampie statistiche sui poeti medievali),
nonché sul software Pede certo (il
cui meritorio creatore, qui non citato, è
Luigi Tessarolo). Altrettanto tipici di Beda
sembrano essere l’uso dell’elisione al
15.8% e l’assenza di iati, oltre al trattamento
consonantico dell’h. La cesura è
prevalentemente maschile, come in tutti
i poeti, e la tritemimera sempre meno
usata col passare del tempo (12% della
Vita Cudbercti). Varia nel tempo anche il
ricorso alla productio ob caesuram, che
Beda usa sempre meno via via che cresce
la sua esperienza compositiva: un
caso clamoroso è la differenza fra la prima
e la seconda versione della Vita. La
cadenza del verso è di tipo classico, cioè
evita polisillabi.
Nel lessico Beda ama i composti e ne
conia di propri, usa infiniti passivi in ier
e l’accusativo alla greca, la sincope sillabica,
i diminutivi e i nomi in –men, che
Lapidge fa risalire a Ovidio ma che diventano
di moda soprattutto nella letteratura
ibernico-latina. La forma di rima usata è
la ripetizione di singola vocale, che Beda
sembra cercare intenzionalmente perfino
in forma leonina (15%, mentre la rima finale
è al 12%). Su questo punto sarebbe
(e sarà, eventualmente) utile unconfronto
con E. D’Angelo, Problemi teorici e
materiali statistici sulla rima nella poesia
dattilica dell’alto medioevo, che include
statistiche anche su Beda sensibilmente
diverse, e il mio Gotescalco, la ‘scuola’ di
Reims e l’origine della rima mediolatina,
entrambi in Il verso europeo. Atti del seminario
di metrica comparata (4 maggio
1994), Firenze, 1995.
La presenza di modelli intertestuali è
mappata con accuratezza grazie ad archivi
digitali come Poetria Nova 2 di Luigi
Tessarolo e Paolo Mastandrea, e CETEDOC
database, sul cui uso siamo lieti di
verificare che anche un maestro come
Lapidge, fino a qualche anno fa pubblicamente
ostile alla qualità dei riscontri
offerti da questi strumenti, converge
con massiccia intensità: potremmo dire
che questa è anzi, dopo e assai più del
Corpus Rhythmorum Musicum, la prima
grande edizione di testi mediolatini che
fa degli archivi digitali uso sistematico ed
esplicito, oltre che filologicamente determinante.
Lapidge anzi non si limita solo a
registrare i debiti dimostrabili, ma anche le
somiglianze lessicali che possono aiutare
a ricostruire un patrimonio espressivo,
marcando però con asterisco quelli il cui
rapporto l’editore considera sicuro.
Analogo prezioso lavoro si compie
sul distico elegiaco, nella cui stilizzazione
emerge la forma epanalettica (con primo
emistichio dell’esametro uguale al secondo
del pentametro), e sul tetrametro
trocaico, nella cui pratica Beda si distingue
perché non consente l’uso di sillaba
lunga + sillaba ancipite al terzo piede,
che nel suo modello dev’essere sempre
un trocheo, e vedremo quale importanza
questa evidenza avrà nell’attribuzione di
testi incerti. Nelle composizioni in dimetri
giambici (che egli chiama tetrametri)
Beda ricorre all’elisione nel 7% dei casi
ed evita lo iato, mentre ricorre a clausole
mono- o bisillabiche in misura molto inferiore
ad Ambrogio e Celio Sedulio. I tipi
di cesura sono perfettamente ambrosiani
(specialmente quella al secondo piede) e
così gli allungamenti della finale di verso
in a breve (12%). Corrispondente a quella
di Ambrogio è anche la percentuale di
rime finali, 12%. Chiude il panorama versificatorio
il settenario trocaico ritmico,
nel quale Beda cerca la coincidenza fra
accento ritmico e accento grammaticale
o linguistico e ricorre spesso alla cesura
secondaria dopo la quarta sillaba. Su
questi aspetti potevano e potranno essere
di conforto e di integrazione i risultati
del progetto Corpus rhythmorum musicum:
sia l’edizione cartacea SISMEL del
2007 sia il sito 2011 www.corimu.unisi.it
sia i due volumi di atti delle tre euroconferenze
Poesia dell’alto medioevo europeo.
Manoscritti, musica e lingua della poesia
ritmica / Poetry of the early medieval Europe.
Manuscripts, language and music
of the rhythmical Latin texts che li hanno
preceduti nel 2001 e 2003 (ed. SISMEL),
dove questioni del genere sono discusse
da decine di esperti con documentazione
amplissima e Beda viene citato assai
spesso.
Nel complesso, questa pur breve parte
dell’introduzione (pp. 1-34) funge non
solo da panoramica sulle caratteristiche
tecniche della lingua poetica di Beda ma
anche da piccolo prontuario di versificazione
latina altomedievale, grazie alla
pazienza con cui Lapidge definisce ed
esemplifica con chiarezza ogni singolo
schema o fenomeno di cui si accinge a
parlare. La seconda e più ampia parte
dell’introduzione (pp. 34-153) presenta
contenuti, stile e trasmissione manoscritta
di ogni singola opera e costituisce il
fondamento dell’edizione.
Versus de die iudicii
Si parte dai Versus de die iudicii, 163
esametri su uno dei temi più cari all’autore
anglolatino e basati sul commento di
Beda all’Apocalisse: tràdito da oltre 40
manoscritti, non è citato nell’elenco delle
proprie opere stilato da Beda nel capitolo
24 dell’Historia ecclesiastica gentis
Anglorum e contiene un numero di errori
prosodici inconsueto in Beda, ma gli è attribuito
in molti dei 33 manoscritti integrali
(più 10 frammentari, tutti succintamente
descritti nelle pagine seguenti) e nella
tradizione indiretta (Byrhtferth). Anche la
dedica ad Acca vescovo di Hexham riconduce
a Beda, che gli dedicò cinque
trattati, così come numerose espressioni
poetiche di questo testo e la stessa tecnica
metrica si riscontrano anche nella
Vita metrica S. Cudbercti. La scoperta
di Lapidge è che i presunti errori prosodici
vanno attribuiti all’edizione finora disponibile,
quella di Fraipont nel "Corpus
Christianorum" (SL 122) e non all’autore.
La collazione di tutti i manoscritti porta
alla prima ricostruzione finora effettuata
della genealogia del testo, che si articola
in una famiglia a di origine ‘inglese’ (che
al verso 25 legge animos anziché calamos)
e una ß di 15 manoscritti a diffusione continentale, limitata a 154 versi (cioè
senza la dedica finale), con un gruppo ?
contraddistinto da un esametro (n. 155)
in più che per motivi metrici (mancanza
di cesure pentemimera o eftemimera) non
corrisponde ai criteri enunciati da Beda
nel De arte metrica e una famiglia d che
ha la dedica ma non il verso 155. Nella
nuova edizione si stabilisce così un testo
affidabile che conserva solo quattro presunti
errori prosodici: fluvius con la prima
u lunga al v. 82, nulla con a allungata in
cesura al v. 109 (fenomeno peraltro frequente
in poeti non solo medievali), iocus
con o lunga al 118 e commenda con a
breve al 163. Tutti vengono corretti in uno
o più manoscritti, ma Lapidge dimostra
che tali correzioni non possono risalire
all’autore. A p. 65 Lapidge menziona
«other errors of scansion in the poem»,
di cui cita solo un paio di esempi, che lo
studioso attribuisce a un’età di composizione
probabilmente precoce, su cui non
operò successive revisioni come invece
avvenne con la Vita metrica. L’edizione
è eclettica nel senso che attinge ora a
una redazione ora all’altra, l’ortografia è
adeguata ai principi esposti da Beda nel
suo De ortographia, così come avviene
per l’edizione delle lettere di Alcuino che
Christiane Veyrard-Cosme sta pubblicando
nelle «Sources Chrétiennes» (vedi la
recensione in «Studi Medievali», 3a serie,
LXI [2020], pp. 281 e ss.), con criterio che
subordina il metodo filologico alla coerenza
con i principi teorici dell’autore.
Vita metrica S. Cudbercti
La Vita metrica S. Cudbercti (VMC),
cioè del vescovo di Lindisfarne morto nel
687, è successiva alla biografia anonima
in prosa (Vita S. Cudbercti, qui siglata
VCA), ricca di dettagli su persone e luoghi,
e anteriore alla nuova versione prosastica
scritta dallo stesso Beda nel 720
circa, dopo la traslazione della salma del
698 e la consegna delle vesti all’abate
Eadberth, cui Beda aveva assistito personalmente.
Beda infatti ricorda di aver descritto
la scena in poesia e ne cita 18 versi
nel prologo di quella in prosa, mentre nella
stessa VMC rammenta la precedente
descrizione in versi della traslazione. Lapidge
sceglie di collocare i 18 versi fra i
componimenti del Liber epigrammatum,
ma pubblica entrambe le redazioni della
VMC, che si distingue nettamente dall’anonimo
prosatore per la sua minor attenzione
ai dati storici e una più approfondita
riflessione sul senso agiografico e spirituale
della vicenda. La versione più antica,
di 982 versi, è tramandata dal codice
Besançon BM 186 del IX secolo e sembra
destinata a una cerchia limitata di lettori/
ascoltatori. È segnata da numerosi errori
di prosodia, ma contiene «passi di grande
fascino» come quello che descrive la
benedizioni di Cutberto a gabbiani pregni
che sembravano riluttanti a partorire finché
il santo non li avesse benedetti. L’edizione
riveduta fu composta circa dieci
anni dopo e comunque prima del 721 (nel
periodo 716-721 in base a un parallelo
linguistico) per i monaci di Lindisfarne e
il loro vescovo Eadfrith e dedicata a Giovanni
di Beverley che lui chiama ‘prete’,
in realtà vescovo di Hexham dal 686 e
poi di York dal 796 al 714, il quale aveva
ordinato Beda diacono e poi prete. Beda
modificò almeno 100 passi della versione
precedente correggendo errori storici
e solecismi grammaticali, ma anche apportando
modifiche puramente stilistiche.
Del santo inoltre Beda aveva parlato sia
nei Chronica maiora sia nell’Historia ecclesiastica,
libro IV, assai più ricchi di dati
storici e geografici rispetto alla meditazione
poetica. L’opera è trasmessa da 15
manoscritti più 5 frammenti che Lapidge
raggruppa in cinque classi: a è identificato
da alcune omissioni e discende da
un archetipo inviato dalla Northumbria in
Germania forse nella seconda metà dell’VIII
secolo; f è rappresentato da due
manoscritti vergati intorno al 900 in Francia
nordorientale e arrivati in Inghilterra nel
X secolo ma derivati da un esemplare inglese
in minuscola anglosassone ed è caratterizzato
da una serie inoppugnabile di
errori comuni; ß è il ‘gruppo di Durham’,
cinque manoscritti provenienti da Durham
e dintorni e accomunati da lacune (v. 924)
ed errori evidenti; ? include 4 manoscritti
originati a Canterbury nel X secolo, che
presentano un testo grammaticalmente
riveduto con forma northumbra dei nomi
propri e forse derivati da V (London, BL,
Cotton Vitellius A. xix); d sono due manoscritti
che condividono errori come trasposizioni
di versi (952 dopo 954) e alcune
lezioni, e infine ? rappresenta altri due
manoscritti accomunati solo dalla certezza
di non appartenere ad altre famiglie.
Delle edizioni precedenti l’unica critica,
quella di Jaager, era basata su 18 manoscritti
e accuratamente realizzata, ma
l’editore non si era accorto del fatto che
Besançon costituisce una versione antecedente
e autonoma, non un semplice
testimone. L’edizione di Lapidge dunque
è la prima che pubblica separatamente e
integralmente le due redazioni.
Liber epigrammatum
La sezione successiva riguarda il Liber
epigrammatum, che conclude nell’Historia
Ecclesiastica la lista di scritti dell’autore.
Non ci sono arrivati manoscritti della
raccolta integrale, ma attestazioni di singoli
testi. Non sappiamo quali fossero,
esclusi quelli citati dal vescovo di Worcester
(745-775) Milred, poco dopo la morte
di Beda, nella sua silloge di iscrizioni a noi
pervenuta in un manoscritto di Malmesbury
scoperto dall’antiquario John Leland
nel XVI secolo e poi smembrato: oggi ne
sopravvive solo il bifolio Urbana, University
of Illinois 128, del X secolo, contenente
16 epigrammi della lista di Milred,
due dei quali coincidenti con l’elenco di
sei opere stilato da Leland (anche se uno
non è di Beda ma è stato attribuito con
sicurezza a Cellanus di Péronne). Questi
dati consentono di capire che la raccolta
conteneva soprattutto tituli per chiese o
prefazioni metriche a opere varie e poesie
brevi, come indovinelli. Lapidge ne affronta
l’edizione testo per testo. Il primo sono
i 6 versi (distici) premessi al trattato di Girolamo
su Isaia, ricopiati da Leland, di cui
il manoscritto Paris BnF lat. 8071 (codex
Thuaneus di Catullo e Pervigilium Veneris)
conserva una versione un po’ più lunga (8
vv.) all’interno di una raccolta di iscrizioni
da chiese romane (il che fece dubitare
Schaller dell’autenticità). Il secondo testo
nella lista di Milred sono gli Aenigmata, di
cui Leland non fornì trascrizioni ma di cui
il celebre Canzoniere di Cambridge (UL
Gg. 5. 35) tramanda un indovinello di 32
esametri considerato spurio da Frederick
Tupper (1905) per i difetti prosodici
che invece Lapidge considera facilmente
emendabili. Riferimenti alla balena e
all’uso del suo grasso come combustibile
trovano corrispondenza con la cultura northumbra.
Terzo è un perduto epigramma per S.
Michele, forse un oratorio nei sobborghi
di Hexham. Quarto un titulus per la consacrazione
di una chiesa a Santa Maria,
forse interna al monastero di San Pietro
a Monkwearmouth, e quinto uno per la
chiesa di Santa Maria ad Hexham, entrambi
perduti. Sesta una poesia di 12
versi, trasmessa per metà da Leland e
per intero dal bifolio, per l’abside di una
chiesa costruita dal vescovo Cyneberht,
forse a Lincoln. Settima la prefazione
all’Expositio Apocalypseos di Beda, in
22 versi, trasmessa in alcuni dei 113 manoscritti
che riportano il trattato: Lapidge
ne collaziona i nove più antichi basando
il testo sul consenso della maggioranza
e soprattutto su Karlsruhe, Badische
Landesbibliothek, Aug. Perg. 43 del IX
secolo. Ottava la premessa metrica al De
natura rerum che accompagna almeno 9
dei 130 manoscritti, cioè quelli collazionati
da C.W Jones per l’edizione del trattato
(CCSL 123A). Di questi, Lapidge ne
consulta cinque. Il nono è la prefazione al
De locis sanctis sempre di Beda (anche
se si tratta di una riscrittura dell’omonima
opera di Adomnán di Iona), trasmesso da
47 manoscritti e pubblicato sulla base di
4 manoscritti (di cui uno senza premessa
poetica) da Paul Geyer in CSEL 39 (ristampata
in CCSL 175): l’edizione qui è
sviluppata sugli altri tre manoscritti collazionati
da Geyer. Anche il decimo testo è
un titulus librario per il commento di Beda
alle sette epistole cattoliche, il più popolare
di questo autore. Nel testo Beda non
si menziona come autore dei versi, il che
ne ha fatto sospettare la natura spuria.
Ma la trasmissione congiunta al trattato
elimina ogni dubbio. Due manoscritti sui
sette su cui si basa l’edizione presentano
varianti significative, che Lapidge riconduce
a correzioni di Beda per il Liber epigrammatum.
Undicesimo è l’epigramma
per la traslazione di Cutberto, recuperato
dalla biografia in prosa: l’edizione Lapidge
si basa su quella di Colgrave (assente
in bibliografia), che aveva individuato due
redazioni, ma con risultati molto diversi.
Numero dodici l’epitafio, probabilmente
commissionato a Beda dal suo successore
Acca, per Wilfrid vescovo di Hexham
sepolto a Ripon nel 710 e inglobato in
HE V 19.14). L’edizione riproduce quella
dell’Historia ecclesiastica dello stesso Lapidge,
basata sui sei manoscritti più antichi.
Il tredicesimo è un’Oratio trasmessa
da due celebri manoscritti para-liturgici,
il Royal Prayerbook London, BL, Royal
2.A.XX del secolo VIII, dunque vicinissimo
all’autore, e il Fleury Prayerbook Orléans,
BM 184 del IX secolo, con sei versi e molti
errori in più; da questi lo pubblicò anche
Fraipont. Numeri 14-16 sono parafrasi
di Salmi, rispettivamente il 41 (42) con la
nota immagine del cervo alla fonte, l’83
(84) sullo splendore del tempio e il 112
(113) Laudate pueri Dominum, seguiti dal
componimento n. 17 che associa frammenti
di altre parafrasi (Ps. 3, 66 [67] e
70 [71]). Lapidge li attribuisce congetturalmente
al Liber epigrammatum e li edita
da diverse fonti: il n. 16 dal Book of Cerne,
cioè Cambridge UL Ll 1.10 e gli altri
dal florilegio alcuiniano De laude Dei, probabilmente
compilato da Alcuino mentre
era ancora in Inghilterra, e trasmesso nel
ms. Bamberg Staatsbibliothek Patr. 17
del X secolo, un’antologia paraliturgica
studiata da D. Ganz in Le «De laude Dei»
d’Alcuin, in Alcuin, de York à Tours. Ecriture,
pouvoir et réseaux dans l’Europe du
haut Moyen Age, édité par Ph.cDepreux,
B. Judic, Rennes-Tours, 2004 = ABret
111 (2004) pp. 387-391, non utilizzato
in questa edizione. Numero 18 sono due
tituli del celebre Codex Amiatinus, che in
parte riciclano alcuni Versus de bibliotheca
di Isidoro di Siviglia: siccome nel testo
biblico di quel monumentale manoscritto
sono state individuate correzioni di Beda,
Lapidge ritiene possibile che queste iscrizioni
siano sue. Il 19 è un singolo verso
dalla Historia abbatum I 8, di cui Beda
non menziona l’autore (circostanza che
di solito si associa ad auto-citazioni)
e il 20 un verso dal ms. di Urbana che
assomiglia molto a espressioni bedane,
così come il 21 che è invece citato
da Ruggero Bacone nel XIII secolo nella
sua grammatica greca e da un anonimo
commentatore dell’inno Ut queant laxis.
Chiude il n. 22, epigramma in cui l’autore
chiede al lettore di pregare per lui,
preservato nel manoscritto di Monaco di
Baviera clm 19410. In generale, secondo
la ricostruzione di Lapidge una copia del
Liber fu trasmessa a Worcester a metà
dell’VIII secolo e lì Milred ne estrasse i sei
epigrammi da lui riportati; probabilmente
fu sempre lì che il compilatore del Royal
Prayerbook ne ricavò due altri epigrammi
e forse anche, un secolo dopo, il curatore
del Book of Cerne. Alcuino invece dovette
averlo letto a York negli anni 790-793;
successivamente se ne perdono le tracce
come libro integrale e invece si documenta
la diffusione di singoli pezzi in area germanica
e svizzera.
Gli inni: contesto cultuale,
inediti e basi metriche del
décasyllabe
Chiude l’edizione del corpus autentico
il libro degli inni, che Beda ricorda nel suo
elenco (HE V 24.2) come Liber hymnorum
diverso metro sive rythmo, e che tuttavia
non è stato trasmesso come tale, anche
se un catalogo di Lorsch del IX secolo
cita eiusdem (Bedae) hymni LXXVII in uno
codice, dunque conobbe lo stesso destino
del Liber epigrammatum, diventando
fonte di estrazioni di singoli testi. Lapidge
lo presenta cominciando dalla definizione
di inno e dalla storia della composizione
e adozione di questa forma poetica nella
liturgia, fino all’antico innario portato da
Agostino di Canterbury e dai suoi 40 monaci
in Inghilterra alla fine del VI secolo e
confluito in parte nell’Innario di Canterbury
(16 inni in dimetri giambici metrici [11]
o ritmici [5]), di cui Lapidge documenta i
precedenti nel Salterio Vespasiano (London,
BL, Cotton Vespasian A i) e nell’innario
inglese, poi perduto, descritto da
Tommaso di Elmham nel XV secolo. A
Beda, cioè a Monkwearmouth-Jarrow ne
portò forse una copia Benedetto Biscop
ed è su un libro del genere che Beda
formò le proprie cognizioni e formulò le
analisi della versificazione poi riportate nel
De arte metrica. Ogni innario aggiungeva
testi integrativi che si adattavano ai culti
locali e anche Beda si sentì in dovere
di completare le feste mancanti (Ascensione,
Pentecoste, ma anche santi locali
come Aethelthryth) scrivendo inni sul modello
ambrosiano. Essendo un libro legato
all’anno liturgico, Lapidge lo ricostruisce
riordinando gli inni secondo la sequenza
delle festività.
I testi provengono in parte dall’edizione
di Georg Cassander negli Hymni ecclesiastici,
accuratamente pubblicati nel
1556 sulla base di manoscritti perduti o
non identificati, fra i quali uno trascritto da
Caspar von Niedpruck che usò materiale
di Trier o Fulda (dove nel XVI sec. c’era un
hymnarus Edilwaldi, riferibile a Aethilwald
vescovo di Lindisfarne dal 721 al 740).
Altra fonte privilegiata è il citato De laude
Dei di Alcuno, che contiene una sezione
De hymnis con alcuni testi e molti estratti
di singole strofe. Alcuni sono stati editi,
talora riproducendo il testo di Cassander,
talora da altri manoscritti, da Dreves in
Analecta Hymnica 50 e da Fraipont nel
CCSL 122. Lapidge procede inno per
inno, come nel LE, discutendo forma del
testo, base manoscritta e attribuzione in
modo separato per tutti i sedici inni documentati.
Si inizia con l’Hymnum canentes
martyrum per la festa degli Innocenti (28
dicembre), 16 quartine di dimetri giambici
articolati in coppie strofiche in cui il primo
verso della prima è anche l’ultimo della
seconda, forma adottata anche per l’inno
12. Il secondo è Illuxit alma saeculis per
sant’Agnese (21 gennaio), 12 quartine di
dimetri per una martire romana diventata
popolare anche grazie alla circolazione
di una Passio attribuita ad Ambrogio, la
quale costituisce la base narrativa dell’inno
di Beda, che non tratta però le fasi
conclusive della vita, forse a causa di perdite
testuali. Il terzo, inc. Hymnos canamus
gloriae, per l’Ascensione, consiste di
32 stanze di dimetri dalla discesa di Cristo
agli Inferi (narrata sia nell’omelia pseudoagostiniana
De Pascha – sermone 160
– noto all’Inghilterra anglosassone, sia
dall’Evangelium Nicodemi, universalmente
diffuso, alla cui storia testuale Lapidge
dedica un ampio sviluppo per identificare
la forma nota a Beda: probabilmente la
redazione B) fino alla professione di fede
derivata dall’antico Credo romano (di cui
Beda leggeva una copia nell’Oxford BL
Laud. Gr. 35 del VI secolo, di provenienza
sarda) e alla richiesta di intercessione
conclusiva. Si tratta dell’inno di Beda più
conosciuto nel medioevo perché fu incluso
nel ‘nuovo Innario’ dell’epoca di Ludovico
il Pio, attestato dunque in una cinquantina
di manoscritti, anche se in una
forma modificata, abbreviata in alcune
parti e interpolata in altre. Fraipont pubblica
la versione del ‘nuovo Innario’, mentre
Lapidge si basa qui solo su Cassander e
Alcuino, registrando le varianti e le omissioni
del Nuovo Innario solo in apparato.
Il quarto inno (Emitte, Christe, spiritus)
in 16 quartine di dimetri è per la Pentecoste
[ed è segno dei tempi che Lapidge
debba specificare «that is, on the fiftieth
day after Passover (Easter)»] trasmesso
da Cassander e, per la prima strofa, da
Alcuino. Il quinto (Praecursos alti luminis)
in 16 stanze di dimetri, è dedicato a Giovanni
Battista (24 giugno). È trasmesso,
oltre che in Cassander e per due strofe in
Alcuino, dall’innario di Moissac (Vat. Ross.
205), da cui Lapidge è il primo, dopo Dreves,
a registrare le varianti, benché quasi
sempre erronee. Il n. 6 Apostolorum gloriam
per i santi Pietro e Paolo (29 giugno)
si estende per 23 quartine di dimetri ma,
a differenza dei precedenti, è in forma
abecedaria, cioè con strofe che iniziano
ognuna con una lettera dell’alfabeto successiva
a quella della strofa precedente.
Lapidge richiama opportunamente il
modello dell’inno di Sedulio A solis ortus
cardine, ma lo schema è anzitutto quello
del Salmo 118 (119), già seguito in latino,
prima o al tempo di di Sedulio, da Commodiano
e Ilario, da Agostino e Fulgenzio.
Qui oltre a Cassander, Alcuino e Innario
di Moissac conserva il testo anche il codice
Bruxelles 8860-8867, di cui Lapidge
riporta la datazione di Bischoff alla fine del
IX secolo: si tratta di un’antologia di testi
poetici soprattutto ritmici su cui la bibliografia
più ricca e la descrizione più aggiornata,
a cura di Patrizia Stoppacci, si
trova nel Corpus Rhythmorum Musicum
(Firenze, 2007, pp. lxvii-lxviii, consultabile
in forma parziale anche online all’indirizzo
www.corimu.unisi.it). Lapidge è il primo
a collazionare tutti i testimoni. Il settimo,
Praecessor almae gratiae in 16 quartine
di dimetri, è per la decollazione di san
Giovanni Battista (29 agosto) e la descrizione
della discesa di Giovanni agli inferi
conferma che la redazione B dell’Evangelium
Nicodemi è fonte di Beda. Il numero
8 Adesto, Christe, vocibus per la natività
di Maria (8 settembre) è quasi tutto basato
quasi su fonti evangeliche, contrariamente
a quanto avviene nel medioevo più
tardo, che usa molto lo Pseudo-Matteo e
il Protovangelo di Giacomo. Lapidge opportunamente
spiega questa scelta con
la ferma ostilità verso gli apocrifi (fra i quali
cita proprio il Transitus Mariae), espressa
da Beda nella sua Retractatio in Actus
apostolorum. Unica eccezione la strofa 8
su Maria che abbatte gli idoli in Egitto, basata
sullo Pseudo-Matteo cap. 23.
Il numero 9 Nunc Andreae sollemnia
e il 10 Salve tropaeum gloriae, che forse
erano un inno unico separato da Cassander
in due testi, sono per sant’Andrea (30
novembre) e hanno come fonte la Passio
S. Andreae, con la quale i rapporti sono
scrupolosamente annotati in apparato.
L’11 Alma Deus trinitas in 27 distici elegiaci
epanalettici in sequenza abecedaria,
non pubblicato nell’edizione Fraipont, è
per santa Aethelthryth, sorella del re di
East Anglia Anna (640-654 circa), la cui
storia è raccontata nell’Historia ecclesiastica
di Beda (IV 17-18). L’inno è citato
integralmente in HE come una composizione
di molti anni prima, quindi è possibile
che quella di HE sia una versione
modificata di un originale perduto. Per
ricostruirla Lapidge si basa sui sei codici
più antichi dell’HE, vicinissimi ai fatti,
ma individua inoltre in tre manoscritti di
area bavarese una redazione differente,
che potrebbe essere quella più antica.
Esclude invece le antologie poetiche che
trascrivono questo inno perché derivate
da HE, salvo Köln, Dombibliothek 106,
di inizio IX secolo, perché collegato ad
Alcuino.
Importantissimo l’inno 12 Primo Deus
caeli globo, di 28 quartine di dimetri giambici
a coppie di strofe con primo verso
della prima coincidente con l’ultimo della
seconda (come nell’Inno 1), che inaugura
una piccola sezione di innovazioni tematiche
di Beda, cui Lapidge è il primo ad
attribuire l’inno.
Il testo introduce nella forma innodica
contenuti di tipo scientifico, storico o teologico
indipendenti dalla liturgia: qui i sei
giorni della creazione e le otto età della
storia, argomenti trattati nel commento
alla Genesi (il capitolo, alla fine del primo
libro, intitolato da Jones De sex aetatibus
mundi) e nel De temporum ratione capp.
66-67 e 71, ma naturalmente derivati
dal De civitate Dei di Agostino e ancora
indietro da Eusebio di Cesarea nel suo
Chronicon. Questo inno, pubblicato anche
da Dreves e Fraipont, ha avuto una
recente edizione commentata da Fidel
Rädle (1993), il primo a fondarsi su tutti
i testimoni (Cassander, Alcuino, Köln,
Dombibliothek 106 e Vienna ÖNB 1743
del XII sec., da Salisburgo), e una nuova
traduzione inglese con annotazioni nell’edizione
del De natura rerum e De temporibus
di Calvin Kendall e Faith Wallis. Altro
tema tipico di Beda è il giorno del giudizio,
cui è dedicato l’inno 13 Apparebunt ante
summum in 35 terzine di tetrametri trocaici
catalettici con ritornello in prosa in
tre forme diverse, usate nelle tre sezioni
del testo: imminente die Iudicii nelle prime
12 strofe, in pavendo die iudicii dalla 13
alla 26, in perenni die sabbati (qui erroneamente
perennis) dalla 27 alla 35. La prima
espressione secondo Lapidge non ha
paralleli in altri autori, mentre Beda la usa
nel commento alle Epistole cattoliche. Il
metro è applicato nell’accezione caratteristica
di Beda, cioè con il divieto di spondeo
al terzo piede. Ugualmente bedane
alcune forme linguistiche come pupuxerant,
ma soprattutto il contenuto rispecchia
quanto Beda aveva esposto negli
scritti compustici e nell’Expositio Apocalypseos,
in particolare per l’idea che
Enoch ed Elia predicheranno contro l’Anticristo,
derivata secondo Faith Wallis da
un inedito trattato del VI secolo (De duobus
testibus) composto a Vivarium nel VI
secolo e sopravvissuto in un manoscritto
vaticano. L’inno dunque, non tramandato
da Cassander ma in due raccolte di poesia
ritmiche (il citato Bruxelles 8860-8867
e Paris BnF lat. 16668 dell’VIII/IX secolo)
e citato da Alcuino (strofa 35), era stato
pubblicato finora solo nelle raccolte di ritmi
merovingi dei Poetae MGH da Dümmler
e Strecker e ampiamente commentato
da Meyer, che ne documentò la natura,
quantitativa e non sillabotonica, in Gesammelte
Abhandlungen zur mittellateinische
Rhythmik III, 349-50. Successivamente
è stato oggetto di brevi riflessioni,
non citate nell’edizione, nei contributi di
Peter Stotz Kasuistik oder Systematik?
Überlegungen zur Beschreibung der
sprachlichen Form frümittelalterlichen
Rhythmen e Pascale Bourgain (a proposito
del ms. di Parigi) Les manuscrits de
poésie rythmique de Paris, entrambi nel
citato Poesia dell’alto medioevo europeo:
manoscritti, lingua e musica dei ritmi latini,
Firenze 2000.
Affine al XIV è l’inno XV Apparebit repentina
di 23 terzine abecedarie di settenari
trocaici ritmici, nei quali Beda riesce
abitualmente a far coincidere accento
linguistico e accento ritmico. Beda lo cita
nel De arte metrica in forma anonima, uso
che come abbiamo visto Lapidge considera
indizio di composizione da parte
dello stesso Beda: il passo è stato oggetto
di studi metricologici qui non considerati,
da Avalle a Bourgain a Mattiacci a
D’Angelo e altri, in quanto fondativo della
teorizzazione sul genere ritmico. Di particolare
rilievo il fatto che, nell’ipotesi di
Avalle (che io considero però infondata),
il ritornello in tremendo die iudicii (molto
simile a per tremendum diem iudicii di Cesario
di Arles, Serm. 33, 4, come si rileva
dall’apparato) sarebbe il modello sillabico
del décasyllabe francese e quindi indirettamente
dell’endecasillabo italiano, quindi
un verso di importanza capitale nella
storia della poesia europea. Il contenuto
è un montaggio di passi evangelici riferiti
al Giudizio Finale e la formulazione ricorda
alcune espressioni di inni sicuramente
scritti da Beda, fra i quali Lapidge dunque
si sente di inserire ora anche questo. Viene
trasmesso da Bruxelles 8860-8867,
Vaticano Reg. lat. 421 da San Gallo e
Bern, Burgerbibliothek 455 da Fleury.
Cassander lo pubblicò senza attribuirlo a
Beda e Alcuino ne citò due strofe, mentre
in seguito fu pubblicato da Hagen, Strecker
(l’unica edizione basata su tutti i manoscritti)
e Walpole.
L’inno 15 Alma fulget in caelesti, di 23
terzine di settenari trocaici con ritornello in
prosa e due strofe di dossologie, che anche
Strecker accomunava ai due precedenti
senza avanzare però l’attribuzione
a Beda, riguarda la Gerusalemme celeste
ed è conservato nel solito Bruxellensis, in
London BL Royal 2.A.XX dalla Spagna e
in Verona Biblioteca Capitolare XC, la cui
datazione qui è riportata al X secolo (ma
su questo codice, probabilmente del IX,
oggetto di numerosissimi studi, si veda la
descrizione e Bibliografia di Stoppacci nel
volume 2007 del Corpus Rhythmorum).
Appendici computistiche e
canto del poeta morente
A questi gruppi testuali si aggiunge
quanto Lapidge tratta nelle Appendici II-VI
(la I è dedicata alla redazione di Besançon
della Vita Cudbercti), che contribuiscono
a fare di questa edizione un’acquisizione
di rilievo assoluto. La seconda appendice
pubblica inni o strofi di inni che sono attribuiti
a Beda da tradizione indiretta (Cristiano
di Stavelot) o in edizioni moderne
(Dreves, dal florilegio di Alcuino), ma senza
conforto di indicazione dei manoscritti,
anche se i testi sono compatibili con lo
stile ambrosiano di Beda.
Più ricca di evidenze ma ancora più
complessa la situazione dei carmi computistici
dell’Appendice III, che include
anche testi finora inediti: le poesie sul
computo, sull’astronomia e sul calendario
attribuite a Beda sono molte e qui Lapidge
ne sceglie alcune, che per la loro brevità
non avrebbero potuto essere elencate
nell’auto-lista di Beda. In questo gruppo
la traduzione è particolarmente preziosa
perché il contenuto tecnico e la compressione
sintattica li rendono estremamente
difficili. Il primo è un centone di versi draconziani
sulla transitorietà del tempo (Me
legat, annales cupiat qui noscere menses)
attribuito a Beda da Byrhtferth nella
sua Historia regum e in alcuni manoscritti,
eppure edito da Baehrens nei Poetae
Latini Minores e da Riese nell’Anthologia
Latina. I caratteri della metrica corrispondono,
ma non ci sono prove della paternità
di Beda. Seguono 17 esametri (inc.
Bis sena mensum vertigine volvitur annus)
sul numero dei giorni associati alle
None e alle Calende mese per mese con
un meccanismo che Lapidge spiega con
chiarezza magistrale, anche questi riportati
da Byrhtferth e già editi da Baehrens e
Riese. In questo caso due errori prosodici
sconsigliano l’attribuzione a Beda. Terzo
testo sono 6 esametri (inc. Ianus et October
binis regulantur habenis) sui regolari
del sole (cioè i numeri, associati ad ogni
mese, che rappresentano l’intervallo fra
il giorno settimanale del 24 marzo, detto
concorrente, e il giorno settimanale del
primo del mese nell’anno in questione),
utili a individuare il giorno feriale delle
calende di ogni mese, un testo citato da
Byrhtferth nel suo Enchiridion e finora mai
pubblicato in edizione critica. Anche qui
lo stile potrebbe essere di Beda, ma non
ci sono altre evidenze oggettive. Il quarto
(d, incipit September sempre quinis October
habenis) in 12 esametri, finora inedito,
spiega i regolari della luna, cioè l’età della
luna il primo giorno del mese dell’anno
primo sui 19 del ciclo dionisiano, da
aggiungere all’epatta annuale, cioè l’età
della luna il 1° gennaio (in trentesimi), che
il primo anno del ciclo diciannovennale è
sempre 0. Il contenuto della poesia corrisponde
a DTR 20 ed il testo è trasmesso
da molti testimoni di area inglese (qui se
ne usano 5) e da Byrhtferth. Il linguaggio
offre elementi unici come gli aggettivi
tredenus, non attestati altrove prima del
XIII secolo e quartdenus, unicum, che
secondo Lapidge difficilmente potrebbero
essere creazione di Beda. Il numero 5
(e: inc. Annus solis continetur quattuor
temporibus) è un famoso poemetto in
distici rimati di settenari trocaici ritmici,
che elenca gli argomenti del DTR: giorni
dell’anno, differenze fra anni solari e lunari,
anni comuni e anni con embolismo,
ciclo lunare, ciclo solare e combinazione
reciproca. È trasmesso da un alto numero
di manoscritti (fra i quali Augsburg,
Staats- und Stadtbibliothek 8 lo attribuisce
a Beda) in due redazioni, come già
dimostrato da Strecker che lo pubblicò in
PLAC IV/2 pp. 682-686. Anche in questo
caso si consiglia il lettore di integrare le
informazioni di Lapidge con i materiali del
progetto Corpus rhythmorum (in particolare
l’articolo di M.G. Di Pasquale Versi
computistici: proposte per una nuova
edizione, in Poetry of the early medieval
Europe cit. pp. 171-181), che portano a
conoscenza di ulteriori manoscritti e soprattutto
del fatto che in alcuni di essi (il
Berlin, Staatsbibliothek, Phillips 1711
dell’XI, da Metz) il testo è accompagnato
da musica, anche se difficilmente questa
può essere fatta risalire a Beda, cui Jones
invece attribuisce il testo. In generale, per
le tradizioni di inni e carmi computistici
sarebbe sempre di particolare utilità l’indicazione
della presenza, nei manoscritti,
di neumi o altri tipi di note musicali. Lapidge
data al periodo fra 725 (data del
DTR qui riassunto) e l’825 (terminus ante
quem del manoscritto) la redazione primigenia,
antecedente a quella interpolata
del ms. Génève, BPU lat. 50 di inizio IX
secolo. Ma non la attribuisce a Beda per
la presenza di distici rimati addirittura con
rima trisillabica e per la mancata coincidenza,
sempre ricercata invece da Beda,
fra accenti linguistici e accenti ritmici.
Numero f un ostico poemetto in 60 esametri
(inc. Addita lux luci cum quarta parte
diei) sul tempo necessario alle rivoluzioni
di sole e luna conteggiate in giorni,
ore, parti, momenti e atomi il cui interesse
risiede soprattutto nel virtuosismo tecnico
e nella terminologia, che in qualche caso
sembra ricondurre a Lucrezio (particula).
Dal medesimo codice London, BL Cotton
Titus D.xxiv dell’XI-XII secolo (ma il
testo è segnalato in A. Wood, The lifes
and times of Antony Wood, antiquary of
Oxford, 1623-1695, vol. IV, rist. 1895, p.
299 da altro manoscritto, della Bodleian,
non citato da Lapidge), un’antologia di
poesia mediolatina, è pubblicato l’ultimo
testo, numero g, 16 esametri sulle unità
di misurazione del tempo, anch’esso inedito
e caratterizzato da terminologia unica
(ad es. minutionellae in clausola al v.
9). Entrambi non sono di Beda, secondo
Lapidge, per differenze negli usi prosodici
e metrici e per la coincidenza di una
clausola con un emistichio dell’Entheticus
di Giovanni di Salisbury (che però potrebbe
essere l’imitatore e non l’imitato). Ma
occorre tenere presente che il codice di
Oxford citato da Wood riporta a suo dire
l’attribuzione a Beda.
A nostra conoscenza, questa sezione
avrebbe potuto essere arricchita da altri
testi computistici che alcuni manoscritti
attribuiscono a Beda (come Anni Domini
notantur) o trasmessi insieme ai suoi
(come i carmi computistici di un Manfredo),
ma si sarebbe trattato di semplice
esercizio academico, data l’improbabilità
di simili attribuzioni. Su questo si vedrà
il volume di Irene Volpi e Chiara Savini
Corpus Rhythmorum Musicum II (4) Ritmi
computistici I, previsto per SISMEL nel
2021 e l’edizione di Manfredo Carmina
computistica (inclusi da Heerwagen nella
sua edizione di Beda del 1563) da parte
di Valeria Bossi, prevista per le Edizioni
Nazionali di Testi Mediolatini d’Italia.
La quarta appendice riguarda poesie
attribuite a Beda in antologie manoscritte,
come il Cotton Titus già citato. Una,
la prefazione metrica al De natura rerum
(inc. Eminet Hilarius) è certamente di
Beda e fa pensare che lo siano anche
altre. La terza, in 1063 versi, distici elegiaci,
inc. Queritur in statuis rex triplex
efficiendis sicuramente non è sua perché
cita personaggi posteriori. La quarta (così
chiamata a p. 543: in realtà n. 2 della lista
di p. 542), di 194 versi (se, come propone
Lapidge rispetto alla descrizione
di J. H. Mozley, i versi de sancta cruce
appartengono a questo poemetto), distici
elegiaci, inc. Tempora temporibus primis
postrema quieto, riguarda l’Avvento di
Cristo all’inizio della sesta età del mondo,
comparata all’età dell’oro di memoria virgiliana:
potrebbe essere di Beda per il suo
contenuto ma non rispetta i suoi canoni
metrici né il suo stile, in alcuni giochi di
parole. La scansione di vero con e lunga
e o breve si trova, secondo Poetria Nova
database, solo in Enrico di Avranches e
altri poeti del XII-XIII secolo, l’età cui è datato
il manoscritto.
La quinta appendice è dedicata a 510
esametri (inc. Temporibus certis excurrit
quattuor annus) sui digiuni delle Quattro
Tempora (quattro cicli di mercoledì, venerdì
e sabato collegati a importanti feste
liturgiche), attribuiti a Beda da Johann
Herwagen nella sua edizione del 1563 e
poi da studiosi come Charles Plummer
e Werner Jaager, ma ignorati sia dalle
varie Claves e incipitari sia dal volume di
C. W. Jones sui Bedae Pseudepigrapha.
Qui non solo i temi ma anche gli schemi
metrici (soprattutto la sequenza di dattili e
spondei) corrispondono all’uso di Beda,
ma il tipo di clausola, incline a quelle polisillabiche
tipiche del medioevo ma non di
Beda, impedisce l’attribuzione; e anche la
presenza di riferimenti a Simon Mago e
a Giezi, popolari nei trattati antisimoniaci,
consiglia l’attribuzione all’XI secolo.
Chiude l’edizione, prima della bibliografia
e degli indici, l’appendice VI sul
canto composto da Beda morente in vernacolo
anglosassone, in cinque versi (inc.
Fore them neidfaerae nanig uuiurthid)
conservati nei 70 manoscritti dell’Epistola
de obitu Bedae del suo discepolo Cutberto,
che poi divenne abate di Monkwearmouth-
Jarrow. Il testo è arrivato in due
redazioni, una delle quali, trasmessa al
continente da Alcuino, tramanda la poesia
in un dialetto antico inglese, l’altra,
più tarda, lo modernizza in medio inglese
(dialetto Sassone occidentale). La prima è
evidentemente l’unica attribuibile a Beda,
che secondo Cutberto stesso era doctus
in nostris carminibus.
Aspetti dell’edizione
I testi e gli apparati delle edizioni sono
coerenti con quanto esposto nelle introduzioni
e non possono essere commentati
e discussi qui in dettaglio, così come
le utilissime traduzioni. È inevitabile che
nei singoli passi ci possano essere opinioni
diverse sulle scelte, ma la lettura
anche cursoria degli apparati comunica
dati fondamentali, come l’esistenza di
riformulazioni stilistiche di alcuni testi: un
esempio a caso nei Versus de die iudicii
vv. 51 ss. la bipartizione fra un gruppo di
manoscritti che usa i verbi al presente e
uno che li usa al futuro (che è anche l’opzione
di Lapidge). Ci limiteremo dunque
a sottolineare che l’apparato delle varianti
è di una chiarezza e completezza esemplari
e che l’apparato dei loci similes, per i
quali Lapidge attinge a piene mani ai dati
di Poetria nova database, espone molti
passi che non sono necessariamente
collegati al testo di Beda in modo diretto
(cioè come modelli sicuri o imitazioni dimostrabili)
ma documentano comunque
il patrimonio formulare nel quale Beda si
iscrive. Probabilmente i risultati sarebbero
stati più completi se per gli inni, che
non sono inclusi in Poetria Nova, si fosse
usato l’archivio elettronico Analecta
Hymnica del benemerito Erwin Rauner,
fonte inesauribile anche di statistiche
metriche, ma per i carmi in esametri e
distici la messe è comunque abbondante.
Si tratta dunque nel complesso di un
corredo di annotazioni ricchissimo e utile
indipendentemente dalla finalità filologica,
spesso rivelatore di somiglianze e di riprese
che non si conoscevano e che cambiano
radicalmente, dandole una base
oggettiva, la nostra conoscenza delle
letture di Beda e della sua officina poetica,
in particolare illustrando gli apporti
della poesia cristiana latina anche meno
popolare (come Cipriano poeta, qui detto
Cipriano ‘gallo’, o Claudio Mario Vittorio).
Ma molte sono in questi apparati anche le
informazioni di contenuto e i dati storici.
Da ora in poi la conoscenza della poesia
di Beda ha un fondamento nuovo,
amplissimo e insieme sicuro: a maggior
ragione non possiamo che rinnovare a
Michael Lapidge la nostra profonda gratitudine
per il suo apporto magistrale alla
filologia mediolatina.
(Francesco Stella)
(versione modificata della
recensione uscita su “Studi
Medievali” 2020).
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