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FEDERICO ITALIANO, La grande nevicata, Roma, Donzelli, 2023, pp. 84, euro 15.

 

La grande nevicata è il quinto libro di versi firmato da Federico Italiano, a non contare la rappresentativa auto-antologia feltrinelliana Un esilio perfetto (2015). Segue Nella costanza (2003), L'invasione dei granchi giganti, poesie 2004-2009 (2010), L'impronta (2014) e Habitat (2020); il suo è dunque un percorso ormai ventennale, largamente riconosciuto dalla critica come uno dei più significativi nel panorama della lirica italiana contemporanea.

La silloge pubblicata da Donzelli dialoga fittamente con la precedente edita da Elliot, e si potrebbe forse parlare di una sorta di dilogia che attende una terza anta per comporsi in trilogia. Di Habitat La grande nevicata riprende l'architettura complessiva, essendo egualmente divisa in cinque sezioni (Tecniche di caccia, La linea della neve, Complementi di luogo, Il meteorologo, Terminal: una scansione che pare rispondere più al coagularsi di alcuni motivi esemplari che a una rigida partizione cronologica o per argomenti), oltre alla scelta di esplorare un tempo –gli anni Ottanta del Novecento, come conferma il titolo che scorcia quello della lirica eponima: La grande nevicata del 1985 –e una geografia emotiva infantile legata all'Ovest Ticino.

Tuttavia, i motivi di novità non mancano. Intanto mi pare che Italiano domini con finezza sempre crescente una scrittura di matrice cinematografica fatta di inquadrature larghe, aperte e allo stesso tempo complesse, con lo sguardo chiamato a esplorare i luoghi ma anche a bloccarli in un tempo congelato, restituito attraverso dettagli-ellisse dove il dato di realtà si inarca, emerge
prepotente dalle profondità mnestiche, sicché il potenziale della temporalità è esplorato a fondo secondo linee che problematizzano percezioni e memorie invece di distenderle e allinearle acquiescenti. Sempre più poi si fa urgente l’esigenza di un corpo a corpo serrato con l’impronta del vissuto, sia individuale sia ecosistemico, nella consapevolezza primaria che ogni creatura costruisce il proprio spazio di presenza nel segmento di mondo che le è dato; un frame ambientale che spesso, per naturalissima estraneità, o impossibile dimestichezza, si rivela ostile nei suoi confronti. Accade così che la vita, ogni vita, si manifesti come reazione alle condizioni date e come continua elaborazione da parte dell’individuo di strategie per orientarsi, insediarsi, prevalere. Non è un caso, credo, che l’autore ricorra volentieri alla figura dell’uccello predatore, simbolo della fredda, eppure a suo modo innocente, caparbietà di cui è capace ciò che esiste.

Mi è già capitato di parlare, per Italiano, di un meraviglioso raziocinante che lavora sul versante agonico e non consolatorio del ricordo, scommettendo sulla possibilità di re-incantamento della parola poetica, la quale anche nell’esilio dallo stupor che segna l’età adulta può trovare un’eco fantasmagorica, un’aura di presagio, risonanze metafisiche. La sua predilezione per le geometrie del paesaggio modulate in gradazioni di spazio, sempre in bilico tra esattezza cartografica e astrazioni quasi fantasy, fa sì che i luoghi natali si accampino sulla pagina con le forme di una quotidianità aliena e fiabesca che odora di nord, di steppe, di distese artiche.L’ordinario si contamina di continuo con accese fantasie di ere remote e scenari avventurosi: un sottoscala diventa una parete rocciosa, un piumone si tramuta in ponte o grotta. Penso al Nord favoloso cantato in Yeti, che è in realtà riscrittura del sé-bambino nella casa d'infanzia,o alla «guerra fredda / nei cortili» di Elegia per un passamontagna.

Un movimento tipico della scrittura di Italiano prevede che una stanza, un oggetto riemerso come rigurgito fossile del secolo scorso (la pietra pomice, il passamontagna), un libro (in Hotel Libreville, azzardo, Le coup de lune di Simenon), un fatto lontano siano convocati e poi puntualmente elusi, specie in clausola, non perché chi scrive intenda dimostrarsi più forte dello struggimento verso ciò che non torna («fine dell'era glaciale, inizio del fango»), ma per confrontarsi col vissuto senza cedere ai suoi ricatti e alle sue seduzioni consolatorie. A petto di questi scampoli di “leggenda privata”, per citare Mari, le esperienze di luoghi effettivamente visitati o dove si è abitato, da Gerusalemme a Vienna, presenti soprattutto nelle sezioni finali, risultano più irreali, ma soprattutto meno vividi, come scialbati e raffreddati dal loro ridotto potenziale immaginifico.

Spesso – devo questa notazione a Giulia Martini e all'ascolto del suo podcast In rime sparse l'accensione mnestica detona dai colori, e il libro è attraversato da un tempo cromatico che finisce per collassare in un «bianco inesauribile», o, direbbe De Lillo, silenziarsi nel rumore bianco di una temporalità azzerata. Ben lo si vede nel fantapoemetto Il meteorologo, diviso in tre movimenti e interessante perché, pur essendo in prima persona, è l'unico testo finzionale (ne è protagonista uno scienziato sovietico isolato in una base artica). Né è un caso che l’immagine dominante della neve finisca per rimare, nel testo conclusivo, con quella della cenere: due diverse figure del tempo che copre, ammanta, sommerge – «Dentro a quel bianco – in nulla riconducibile ad alcunché di bianco, / che tutto tiene eccetto / sé stesso, che esiste solo alla fine -» (Blues della cenere).

Resta da notare come La grande nevicata confermi la costante tenuta tonale e formale del lavoro di Italiano. I suoi sono versi nel loro controllo, «un poco alla maniera del clavicembalo, senza l’effusione del pianoforte», a dirla con Raimondi, eppure non c'è freddezza, distacco. Sempre apprezzabile il lavoro sullo stile: una sintassi che si snoda con intelligente naturalezza, ora tornita a restituire esiti di composta classicità (quasi montaliani: «Molto non ci rimane»), ora distesa in cadenze narrative («Lo trovarono a faccia in giù, inclinato», «Il verde caldo della giungla»), mentre la lingua, estremamente sorvegliata, è improntata a una medietas che non rifugge da preziosismi (labbra «perfette come l'ansa del Neris che circonfluisce / la città in un'arringa inoppugnabile») e talora ricorre all'esattezza del lessico zoologico-botanico, di cui però porta a giorno le intrinseche alonature di fascino e mistero – penso a lemmi quali «spighe di tifa», le prugne «mirabelle», i «denti di leone», la «vallisneria», «foreste eoceniche», «folaga», «monocotiledoni».

Tra i poeti italiani maggiormente attenti alla dimensione acustica, Italiano lavora sulla tensione tra senso e suono perseguendo la melodia di una misura fissa con sottili variazioni. Predilige la scansione strofica per quartine o terzine, sempre memore della modularità metrica tradizionale (sonetto, canzone) variamente ripresa e dissimulata, ma ama sperimentare forme altre come l’haiku (Il fiume), le slant rhymes anglosassoni (Dickinson, Larkin tra gli altri), la strofe saffica (La pietra pomice). Sovente il poeta ricorre alla qualità iterativa, ipnagogica del ritmo, che in Habitat si manifestava sotto forma di preghiera ritualizzata, litania anaforica di ispirazione scritturale-sapienziale, mentre nella Grande nevicata rammenta piuttosto il refrain musicale, dalla passacaglia al blues. Proprio per questa attenzione al piano fonico l’autore non rifugge la rima e anzi se ne serve al pari delle assonanze e delle numerose inarcature; del resto, l’andamento meditativo-narrativo delle sue liriche richiama certi esiti del folk colto, e facilmente potrebbe acclimatarsi in altre lingue, germaniche soprattutto. Anche in questo Italiano si dimostra voce di respiro europeo.

(Riccardo Donati)


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