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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA 64 (2021/1) pp. 85-87 (scarica il pdf)

TINO LICHT (ed. trad. comm.) WALAHFRID STRABO, De imagine Tetrici: Das Standbild des russigen Dietrich, Mattes Verlag 2020 pp. 131 (Reichenauer Texte und Bilder 16)


Fra i tesori sommersi della civiltà europea il patrimonio poetico dell’età alto-medievale e carolingia in particolare è uno dei giacimenti più rilevanti e inesplorati, anche se si auspica che l’antologia in due volumi in preparazione presso la Fondazione Lorenzo Valla di Mondadori per il 2022-2023, a quasi vent’anni dall’esauritissima La poesia carolingia de Le Lettere (1995) e a 30 dalla sontuosa e altrettanto introvabile Poetry of the Carolingian Renaissance di Peter Godman (1985) possa almeno in piccola ma rappresentativa misura colmare il deficit di conoscenza che affligge allo stesso modo, inavvertitamente, il lettore curioso e gli studiosi, ma soprattutto gli amanti della poesia e della storia.
Uno dei capolavori finora poco accessibili perfino agli specialisti per la sua difficoltà è il poemetto di 262 esametri più dediche che Valafrido Strabone (809- 849 circa), senza dubbio il più dotato poeta del secolo carolingio (768-888), ha composto a 20 anni, al momento del suo ingresso alla corte imperiale di Aquisgrana (oggi Aachen) come precettore del giovane Carlo, che poi diventerà imperatore e sarà soprannominato Carlo il Calvo. In questo testo Valafrido, in dialogo con un’entità astratta o autoriflessiva denominata Scintilla (‘ispirazione’, forse il cancelliere Grimaldo) ci trasmette in termini fortemente connotati da allegorie bibliche e travestimenti bucolici l’affresco della corte sia attraverso un quadro fosco del livello di adulazione e di qualità letteraria, deprimenti rispetto ai modelli antichi, sia mediante ritratti di singole personalità ecclesiastiche e politiche, sia sul piano della interpretazione spirituale di elementi di arredo del parco antistante la reggia come le terme, il serraglio di animali e soprattutto la statua di bronzo dorato del re Teodorico (da qui il titolo): Carlo Magno l’aveva fatta trasportare nell’801 da Ravenna, dove ne fornisce una descrizione ex post nell’839 il cronista sta Agnello nel Liber Pontificalis 94, ma Valafrido ne fa un idolo allegorico polemico, criticando il re ostrogoto in quanto ariano e dunque eretico e collegandone le nefandezze a zone oscure della politica di corte. Del parco non è rimasto quasi niente oltre la meravigliosa ‘cappella palatina’ oggi patrimonio UNESCO e la statua sembra sia stata distrutta durante un raid normanno nel X secolo: per questo il poemetto è stato studiato anche come ecfrasis di un’opera d’arte perduta, e, negli anni ’70, analizzato in chiave di semiotica del segno iconico, di cui Valafrido fornisce letture multiple e sofisticate incrociando simbologia biblica come la interpreta l’esegesi alto-medievale, elementi di realtà vissuta e travestimenti bucolicheggianti.
Il poemetto è conservato in un unico manoscritto della Biblioteca di San Gallo (869) molto vicino alla data e all’ambiente di composizione (Valafrido era monaco di Reichenau, a pochi chilometri da San Gallo) ed è stato oggetto di numerosi studi di tipo storico-politico e storico-artistico ma non filologico: l’ultima edizione apparsa dopo quella ottocentesca di Dümmler nei Monumenta Germaniae Historica era stata quella, su «The Journal of Medieval Latin» del 1991, di Michael Herren, che aveva importato nel testo gli spostamenti di blocchi di verso che sembravano suggeriti dalla ricostruzione dell’assetto codicologico. Ma nessuna monografia specifica era stata finora dedicata a un monumento così geniale di trasfigurazione poetica delle tensioni politiche e socio-culturali della corte carolingia (nella fattispecie, quella di Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno). Provvede ora uno dei massimi esperti di paleografia altomedievale e di poesia latina carolingia, Tino Licht, erede ad Heidelberg dell’illustre tradizione che aveva portato da Ernst Robert Curtius a Walter Berschin, con una nuova edizione critica del poemetto di Valafrido. Il Sangallensis 869 viene seguito anche nella successione dei versi, a differenza di quanto proponeva Michael Herren, e ove possibile anche nella veste fonetica e morfologica, soprattutto della mano originaria. Lo spostamento di versi nel manoscritto (dove il poemetto è inframmezzato da poesie di Beda e componimenti di Valafrido estranei al contesto), che aveva portato Herren a un diverso montaggio del testo, non viene condiviso da Licht, mentre un cambiamento strutturale rispetto ai precedenti è l’inclusione della poesia all’imperatrice Giuditta, che nel manoscritto segue il poemetto, come dedica dello stesso, secondo lo schema di dedica postfatoria che si riscontra anche nell’Hortulus e nella Visio Wettini metrica (la prima visione in versi dell’aldilà), gli altri due capolavori del poeta. In quei casi però si tratta di dediche secondarie, legate cioè a seconde edizioni del testo; qui si tratterebbe di un caso unico di dedica postfatoria primaria. Vengono documentate accuratamente rasure e correzioni del manoscritto, così come rubriche e righe decorative: un’acquisizione sicura di questa edizione è la valorizzazione del ruolo strutturale dei versi scritti in capitale rustica invece che in minuscola, che finora gli editori non avevano sottolineato. I dittonghi sono normalizzati, l’interpunzione originale come d’uso è adeguata alla sintassi, a meno che non sia indispensabile per la comprensione del testo.
La traduzione tedesca è ritmica e intende riprodurre il tono poetico dell’originale. Nell’introduzione (pp. 9-76) si riassumono informazioni sulla leggenda di Teodorico e sulla relativa documentazione iconografica, mettendo in luce testi agiografici abitualmente trascurati, oltre che sulla bibbia gotica e il suo codice Uppsala, UB DG1, di cui si illustrano possibili collegamenti alle vicende di trasferimento della statua da Ravenna ad Aachen. Nel capitolo “Literarisches” (pp. 38-51) si affrontano alcuni temi problematici del testo, come la motivazione dei nomi assegnati ad alcuni personaggi di corte, e analogamente nel capitolo “Metrik, Sprache un Stil” (pp. 52-9) si presentano alcune caratteristiche dell’opera, come la contrafattura (parodia) di un ritmo su Colombano, rinviando per il resto al sintetico commento (che occupa le pp. 98-117). Ma Licht non manca di notare la realizzazione di schemi metrici consigliati da Beda (su cui vedi la recensione all’edizione Lapidge in questo numero di “Semicerchio”) e la predilezione per la sticometria. Il capitolo “Realien” esamina alcuni elementi del contenuto e la questione gli atteggiamenti politici che si possono evincere dal testo e che sono stati l’aspetto più studiato di questo difficile poemetto. In generale, caratteristica delle parti esplicative di questa edizione è l’essenzialità e la necessità di ogni singola informazione, senza spazio per speculazioni critiche o discorsi generici di politica culturale.
I loci similes, cioè i passi poetici che presentano similarità con quelli del poemetto e possono esserne modelli anteriori o imitazioni successive, sono considerati solo quando si tratta di allusioni o riprese precise e le segnalazioni di Herren e Dümmler in merito, che Licht definisce “umfangreichen” (cioè numerosissime, mentre a nostro avviso si collocano nello standard) vengono molto ridotte, in controtendenza rispetto all’orientamento vigente a utilizzare il più possibile i risultati degli archivi elettronici. La scelta di limitare drasticamente la ricerca di paralleli testuali, sia come modelli antichi o tardo-antichi sia come confronti con la poesia dell’epoca, rischia di obliterare qualche intertesto significativo ma non impedisce al curatore di proporre la documentazione di una possibile influenza di Lucrezio, autore che si raffigura scolasticamente come poco letto nel medioevo a causa del suo contenuto (la filosofia di Epicuro) poco attrattivo per un’audience cristiana, ma di cui i due codici più antichi furono trascritti e in parte glossati proprio in età carolingia. In questa rivalutazione della presenza carolingia di Lucrezio Licht si allinea a quanto ha scritto recentemente Florian Hartmann studiando le glosse dei codici carolingi di Lucrezio. Nel nostro caso il rapporto si limiterebbe all’influenza del passo 1, 4 e 14-15 del De rerum natura (concelebras, per te quoniam genus omne animantuminde ferae, pecudes persultant pabula laeta / et rapidos tranant amnis) nel DIT 6-7 et genus omne animantum/ quod mare, quod silvas, quod rura, quod aera tranat: quest’ultimo però può facilmente avere come modello anche Aen. 10, 265 aethera tranant o Venanzio Fortunato Vita Martini 3, 85 per aera tranant, mentre genus omne animantum si trova in poesia cristiana tardoantica come Laudes Domini 49 e Mario Vittorio, Alethia 3, 36. Ma i due intertesti insieme si trovano solo in Lucrezio e Valafrido. La lettura di Lucrezio secondo Licht sarebbe confermata anche da indizi linguistici come potestur (v. 96, mal corretto dagli editori precedenti in putasti) che si trova in De rer. nat. 3, 1010: ma la forma viene usata anche da un poeta sicuramente noto a Valafrido, il raffinato anglolatino Aldelmo di Malmesbury (VII-VIII sec.) De Virginitate 2484. Analogamente, il confronto con la Psychomachia (“La battaglia fra vizi e virtù”) del grande poeta latino tardo-antico Prudenzio (IV secolo) sembra contribuire all’identificazione come rappresentazione di un conflitto morale del genere letterario del misterioso poemetto, interpretato nei secoli come bucolica, carme politico, dialogo poetico, poema allegorico. Licht è il primo a osservare che nel manoscritto l’inizio Ast alia de parte dei versi 128-19 (una ripresa finora inavvertita di Psych. 646-9) è enfatizzato in capitale AST ALIA DE PARTE, come secondo Licht avviene di solito nei versi che hanno una funzione di cerniera narrativa. Difficilmente una poema che descrive una battaglia allegorica fra personificazioni esplicite vizi e virtù potrà essere il modello strutturale di un poemetto in stile bucolico-politico, anche se qua e là si ravvisano menzioni di singoli vizi. Ma l’ombra di Prudenzio acquista certamente spessore nel corpo dei singoli versi.
Dagli intertesti talora si traggono conclusioni perfino sui referenti contestuali: il fatto che un verso di Prudenzio Psych. 405 sia imitato nel poemetto al verso 63, che descrive il palafreniere di Teodorico, viene addotto come prova che il dettaglio sia un’invenzione di Valafrido: si esclude cioè che il poeta potesse usare un modello, come fa Eginardo con i ritratti svetoniani nella vita di Carlo Magno, per rappresentare in termini letterari appropriati una figura reale osservata direttamente. Si presuppone forse che un’imitazione di formule espressive indichi di per sé finzione (“dafür gibt es keinen Hinweis”). In questo caso distinguerei il piano referenziale dal piano connotativo e intertestuale, cioè dal codice espressivo.
Un intertesto scoperto da Licht con fine lettura è una poesia ritmica in onore di san Colombano citata nella biografia colombaniana di Giona di Bobbio, di cui Valafrido imiterebbe la sequenza argomentativa e perfino la struttura similacrostica nei versi 95-103.
A proposito di contesto reale, Licht si esprime contro l’interpretazione tradizionale della statua come decorazione di una fontana (di cui si è parlato in “Semicerchio” 2019), adducendo l’altezza di 6 braccia del basamento. Ma, al di là del modello medievale di Limoges già ricostruito dagli storici dell’arte e riprodotto in “Semicerchio”, esistono esempi illustri sia nella modernità che nell’antichità: basti pensare alla statua di Costantino sulla Fontana dei Dioscuri, a Roma, che proveniva proprio da un parco termale come quello di Aquisgrana. La descrizione di Valafrido fa chiaramente allusione ad acque che scorrono sotto la statua: quam subterlabuntur aque, che Licht stesso traduce “darunter ein Bach [un ruscello] entfliesst”: nel testo latino in realtà non c’è un ruscello, ma ci sono acque correnti. È evidente che le acque di una fonte termale possono scorrere sotto una statua solo se c’è una struttura che la sostiene e separa. In generale, Licht con apprezzabile prudenza si associa all’atteggiamento prevalente di scetticismo nei confronti di dati della tradizione erudita ritenuti non comprovati dalle fonti, ma in tal caso occorre applicare tale diffidenza anche alla critica revisionista di moda in questi anni. Ad esempio lo studio pur apprezzabile di Irmgard Fees del 2000, alle cui conclusioni Licht sembra aderire, sosteneva che Valafrido alla corte di Ludovico e Giuditta non sia stato, come invece si è sostenuto per decenni, l’educatore del piccolo Carlo, futuro imperatore come Carlo il Calvo. Fees riteneva di demolire l’inaccuratezza di alcuni grandi filologi del passato, come Ebert o lo stesso Dümmler, inclini secondo lei a costruire ipotesi su dati non sicuri, ma dimenticava di analizzare le altre fonti coeve rimaste inosservate dagli uni e dall’altra. Nel 2019 infatti Wesley Stevens ha confermato, sulla base del Vademecum dello stesso Valafrido e di altre fonti epistolari e poetiche trascurate da Fees, l'ipotesi di un rapporto pedagogico fra Valafrido e Carlo (del resto, era impossibile altrimenti spiegare la lunga permanenza di Valafrido alla corte imperiale senza arrampicarsi sugli specchi). L’edizione di Licht, consegnata alle stampe proprio nel 2019, per motivi cronologici non ha potuto tener conto del lavoro di Stevens, ma ecco che in pochi mesi una posizione critica è cambiata radicalmente. In generale, a nostro avviso occorre conoscere e vagliare bene tutte le fonti non solo prima di affermare, ma anche prima di negare; e una ipotesi dimostrata male in passato non è necessariamente un’ipotesi falsa in assoluto.
I punti di discussione che si aprono, come si vede, sono molti, e rimetterli al centro dell’attenzione in forma spesso inaspettata è uno dei meriti indubbi di questa edizione, che si dimostra altamente opportuna proprio per l’intenzione di sottoporre a verifica elementi che sembravano acquisiti e per le nuove ipotesi che offre coraggiosamente su singoli dettagli, proponendo letture alternative sulla base di visuali molto specifiche anziché globalizzanti. L’interpretazione complessiva dell’opera si conferma inesauribile e resta comunque sfuggente, ma l’edizione Licht è un passo significativo che ci avvicina di più al dubbio e dunque alla verità.

di Francesco Stella

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