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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA 64 (2021/1) pp. 88-89 (scarica il pdf)

JERICHO BROWN, The Tradition, Copper Canyon Press and Picador, Port Townsend, WA, and London 2019, pp. 110, $ 14,29


Al terzo libro di Jericho Brown, The Tradition, è andato il premo Pulitzer 2020 per la poesia. Nella motivazione si parla di una raccolta di liriche magistrali «che uniscono delicatezza a urgenza storica nella loro amorevole evocazione di corpi vulnerabili all’ostilità e alla violenza». Fin dal primo testo, Ganymede, la vulnerabilità del corpo, in particolare quello maschile, e i mascheramenti culturali delle violenze inflitte al corpo sono centrali, addirittura trattati come un tema fondante della storia umana, avallato dalla mitologia classica: «A man trades his son for horses./ That’s the version I prefer. I like / The safety of it, no one at fault, / Everyone rewarded. God gets / the boy. The boy becomes / immortal». A questa versione confortante del mito di Ganimede, Brown contrappone, con leggera ironia, la sua lettura: «When you look at the myth / This way, nobody bothers saying / Rape. I mean don’t you want God / to want you?». Ecco che, nella mitografia contemporanea del poeta, il bel giovane rapito da Zeus camuffato da aquila e il padre ricompensato con due cavalli introducono il tema dello stupro, della violenza sessuale sugli indifesi e di quella esercitata dal potere sulle fasce sociali emarginate. In pochi versi, che il costante enjambement intreccia delicatamente, il mito si trasforma in una sottile condanna della storia americana e della schiavitù: Zeus diviene «the master» che si appropria dei figli altrui, l’aquila rimanda allo stemma degli Stati Uniti, al suo potere sull’individuo e, essendo anche l’immagine stampigliata sulle monete, al mito tutto statunitense del successo economico come riscatto sociale. Brown colloca questo moderno Olimpo materialistico, «between Promise and Apology», ovvero fra le promesse del ‘sogno americano’ e l’assurda difesa della sua inconsistenza. «The people of my country believe /We can’t be hurt if we can be bought», si legge in chiusura, alludendo a un sistema di pensiero per cui le persone sono considerate un bene per scambi commerciali come lo erano gli schiavi.
Brown ha definito la sua scrittura il «syllabus del momento», la scaletta di un programma da sviluppare in versi per riportare alla luce la storia del suo paese dalla prospettiva di un afroamericano del XXI secolo, nato in Louisiana nel 1976, omosessuale e poeta lirico. Il quale porta in sé i segni di una specifica eredità culturale e la memoria di ingiurie antiche e contemporanee, nazionali e personali che questo libro riassume nella parola che lo titola: la tradizione. Il termine deve essere tuttavia inteso in senso antifrastico rispetto alla storia ufficiale degli Stati Uniti perché qui Brown espone il lato oscuro dell’America: il razzismo strutturale e istituzionalizzato, ora riemerso nella brutalità della polizia, gli omicidi di massa, forme nuove di schiavismo nel sistema capitalistico, violenze sessuali, un pensiero assuefatto a schemi mentali e culturali consolidati che sono all’origine di conflitti vecchi e nuovi, i meccanismi di autoprotezione sviluppati dagli afroamericani per contrastare i rischi a cui li espone il loro corpo. In The Microscopes, il poeta ricorda una lezione di scienze e l’improvvisa realizzazione, guardando i suoi capelli al microscopio («our selves taken down to a cell»), che la differenza fra un nero e un bianco non è una questione biologica. La scoperta coincide con l’inizio di un sottile senso di paura e l’abitudine a non reagire alle provocazioni di segno razziale, neanche a quelle di un compagno di classe amato in segreto. Impossibile, dunque, superare l’esame di storia che codifica queste contraddizioni facendo iniziare il passato degli Stati Uniti dalla Guerra d’Indipendenza invece che dall’inizio della schiavitù nelle colonie oltre un secolo prima. «Redcoats. / Red blood cells. Red-bricked /Education I rode the bus to get. I can’t remember / The exact date or / Grade, but I know when I began ignoring slight alarms / That move others to charge or retreat. I’m a kind / Of camouflage…», scrive Brown. A scuola il cittadino nero impara a difendersi e uno stile comportamentale con cui convivere indossando la maschera che lo protegge da conflitti cosi antichi da passare inosservati, «dust particles left behind», uno strascico di pulviscolo.
Come spesso succede nelle sue poesie, la vicenda personale improvvisamente vira verso vicende collettive, come nel finale di The Microscopes dove il corpo nero è un territorio occupato, «[a] region I imagine you imagine when you see / A white woman walking with a speck like me». Altrove si presenta come un corpo politico e sociale; « Sometimes you ain’t we. Sometimes you is / Everybody […] There is a we. I am among them. /I am one of the ones». In Stake l’io poetico prende la parola per conto della sua gente, riscatta la sua identità e condanna la lingua usata per identificare gli afroamericani: «I am a they in most of America. / Someone feels lost in the forest / Of we, so he can’t imagine / A single tree […] People say bad things about / me, though they don’t know /my name. I have a name. / A stake. I settle. Dig. Die ». In Night Shift – uno dei testi in cui l’incontro sessuale, spesso con un bianco, prende connotazioni violente e razziali e il corpo nero diviene metonimia di un popolo storicamente profanato – l'io narrante si descrive come un dipinto elaborato da un artista-amante la cui violenza aveva scambiato per desiderio. In Bullet Points, la dialettica io-noi evolve in una solenne dichiarazione programmatica in cui il desiderio di vivere si contrappone al terrore di chi parla, e di ogni afroamericano, d’essere arrestato e ucciso dalla polizia, qui condannata senza mezzi termini: lo ‘sbirro’ sottrae una vita alla comunità nera e lascia una madre a piangere il corpo figlio, più prezioso dell’indennizzo dello Stato alla famiglia e più bello del proiettile estratto dal suo cervello. L’attualità storica è sottintesa nei primi versi della poesia che alludono ai suicidi sospetti di un ragazzo e di una ragazza afroamericani mentre erano in stato di arresto. Il noi in Riddle appartiene, invece, alla comunità bianca che parlando nella prima persona plurale indirettamente avanza una spietata critica all’avidità di possesso della cultura dominante, alla sua logica materialistica e all’indifferenza per il pianto di madri come la madre di Emmett Till, il ragazzo nero di 14 anni linciato nel Mississippi nel 1955 con l’accusa di aver offeso una donna bianca: «We do not recognize the body / Of Emmett Till. We do not know / the boy’s name nor the sound / Of his mother wailing».
‘Tradizione’ indica inoltre la tradizione lirica nella poesia afroamericana nel cui solco Brown si inserisce con la ripresa del sonetto di protesta elaborato dai poeti dell’Harlem Renaissance all’inizio del XX secolo, i quali, recuperando l’archetipo italiano, fecero dei quattordici versi uno spazio pubblico abitato dalla voce del poeta nero che sfida la più alta forma poetica occidentale sostituendo il tema amoroso con una critica aperta a quella cultura, alle sue contraddizioni e ipocrisie. Anche Brown, come allora Claude McKay e Countee Cullen, inserisce nella struttura del sonetto temi politici attuali creando un particolare sincretismo fra tradizione ed etnia con un effetto straniante. La poesia che titola il libro è un sonetto in cui un noi, voce della coscienza collettiva dei neri, racconta della passione di uomini di oggi («me and my brothers») per la coltivazione di fiori stagionali, legandola, con poche ma precise immagini, alla storia della schiavitù e alla tradizione occidentale. La bellezza transitoria di questi fiori viene filmata perché resti traccia dei ragazzi che li hanno coltivati «before too late», anch’essi precari come, nel finale, lo è stata la bellezza di tre giovani uccisi dalla polizia nell’estate del 2014 - John Crawford in Ohio, Eric Garner a Staten Island e Mike Brown a Ferguson. Anche di loro rimangono solo i video delle cronache giornalistiche a prova della loro esistenza.
A questa tradizione, Brown ha dato un personale contributo creando una forma ibrida di sonetto, il ‘duplex’, nato dalla fusione di elementi del blues, del ghazal e del sonetto stesso. Specchio della sua identità di «black and queer and Southern» e del binomio nero-bianco, il duplex è composto di sette distici con ripetizioni di versi variati di volta in volta per concludersi con la ripresa del primo verso. Sono poesie cantabili, improvvisazioni jazz: «A poem is a gesture toward home / It makes dark demands I call my own // Memory makes demands darker than my own…». Il meccanismo retorico di collegamento fra i 14 versi, la circolarità del pensiero sviluppato all’interno della loro architettura li rendono immediatamente riconoscibili come sonetti archetipici e, allo stesso tempo, anti-tradizionali per la presenza costante di una voce e di un corpo che si servono della loro struttura per sovvertirne il discorso lirico inserendo un racconto di traumi e dolore. Quella di Brown è del resto una storia di riflessi e cambiamenti. All’anagrafe Nelson Demery III, ha adottato il nome Jericho assegnatogli in un sogno e ha trasformato la sua frequentazione della Black Baptist Church in quell’impostazione personale e pubblica della sua poesia che sembra sempre sottintendere la presenza di una audience.
‘Tradizione’, infine, rimanda alla musica afroamericana, presente sottotraccia nella lingua di Brown, che sembra scolpita sulla pagina, leggera e potente, intima e condivisa, scandita in versi brevi, talvolta di una sola parola, talvolta in rima, con accenti opportunamente calcolati. Nei movimenti aggraziati dei versi, questo ritmo così controllato crea un contrasto e un equilibrio con i temi trattati e con quel suo mettere al centro la vulnerabilità del corpo – nero, gay, emarginato, amato, desiderato, violentato, umiliato – uscendo dall’esperienza personale per diventare voce del popolo afroamericano e della loro storia irrisolta di discriminazione, nonostante i libri, le teorie e i movimenti nati all’interno della loro comunità. Ecco allora che in una delle ultime poesie raccolte in The Tradition, il poeta guarda disilluso e ironico alla sua immagine e all’esperienza degli afroamericani: «I am sick of your sadness, / Jericho Brown, your blackness / Your books. Sick of you/ Laying me down / So I forget how sick / I am».
The Tradition è un libro fortemente politico e delicatamente umano, come lo erano i due precedenti volumi di Brown: Please (2008), premiato con l’American Book Award e The New Testament (2014), altrettanto acclamato per la varietà di forme liriche, per il rapporto fra sessualità, desiderio, violenza e razzismo appoggiandosi, per poi sovvertirne il significato, a episodi biblici di violenza, come indica il titolo. La sofisticata revisione di miti e di parole usate e abusate è una dei raffinati percorsi che la poesia di Brown invita a fare.

di Antonella Francini



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