« indietro IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA 64 (2021/1) pp. 89-91 (scarica il pdf) ANNE CARSON, Economia dell’imperduto, con uno scritto di Antonella Anedda, traduzione di Patrizio Ceccagnoli, Milano,Utopia 2020, pp. 192, € 18,00 La canadese Anne Carson, poetessa, scrittrice, saggista, traduttrice e accademica, è autrice di un libro di indiscutibile fascino apparso nel 1999 con il titolo Economy of the Unlost. A portarlo in Italia, nel 2020, la giovane emergente casa editrice Utopia, nella molto lodevole traduzione di Patrizio Ceccagnoli, con un breve scritto firmato da Antonella Anedda. Economia dell’imperduto (il neologismo lo dobbiamo al traduttore del testo) mette in gioco un intero mondo di questioni, intrecciando problemi letterari e riflessioni socioeconomiche, la filosofia di Marx e la scuola sofistica di Protagora, voci poetiche vissute in epoche molto lontane fra loro. Con intelligenza e sensibilità illuminanti, con visione e passione, l’autrice si interroga sul rapporto della poesia con il problema del valore, materiale e immateriale. A tale riguardo, Anedda scrive che Carson ha composto «un saggio sulla poesia che è riflessione sulla sua economia e sulla possibilità di gestione del suo potere e della sua impotenza, sulle sue norme e sulla loro trasgressione». Tanto affascinante quanto sfuggente nel percorso, scritto con uno stile brillante di intuizioni e accensioni, a tratti più vicino alla poesia che alla prosa, il libro ci offre una serie quanto mai sensibile, attenta e penetrante di letture dei testi di un poeta classico e di un poeta moderno. Preme fin da subito osservare e sottolineare il carattere di libertà del saggio, suo primo grande pregio. Come Carson stessa illustra preliminarmente nella Nota metodologica, è all’interno di una stanza interiore ripulita di tutto ciò che l’io non sa che il pensiero si ritrova a vibrare quando vive «i suoi momenti migliori». Si capisce allora che questo lavoro è nato da una particolare condizione della mente, da uno stato di attenzione che è quel tendere verso un altro – non verso il sé (e non verso un altro di cui ci si serve per parlare di sé). Un tipo di tensione che non a caso unisce chi scrive e chi legge in una comune «missione»: «io credo che sia importante riprodurre qualunque vibrazione si percepisca quando l’attenzione è vigile. L’attenzione è una missione che condividiamo, voi e io. Mantenerla vigile significa trattenerla dallo stabilizzarsi». Allora, scegliere di far dialogare Simonide e Paul Celan – non si potrebbe immaginare un faccia a faccia fra poeti più distanti, per tempo e per spazio – ottiene il risultato desiderato, cioè quello che l’uno impedisca all’altro di stabilizzarsi («Insieme e contro, allineati e discordi, ciascuno si pone come una lente attraverso la quale l’altro può essere messo a fuoco»). L’intensità della mediazione è tale da permettere alle vibrazioni di scorrere persino se la distanza è siderale. Ciò accade quando la materia attraverso cui si propagano echi, consonanze, significanze è la poesia; e l’attenzione, mantenuta vigile, è pronta a intercettarli. La poesia è dunque l’operatrice di questa mediazione fruttuosa, di questo scambio immateriale, alla quale dobbiamo la creazione, tra le tante perdite degli uomini, dell’imperduto, cioè un «umano deposito» dove si accumulano beni di parole salvate, il cui valore è inestimabile in termini economici, va oltre qualsiasi prezzo il denaro possa fissare perché capace di negare il tempo e la sua moneta più corruttrice, il nulla. La poesia, ci ricorda Carson, è gratuità, dono e grazia (charis). Dal momento che non ci si aspetta che la poesia possa tradursi in denaro, vendere poesie «ingenera il dubbio su quale possa essere il loro valore e su chi possa quantificarlo». Per questa ragione, il greco Simonide di Ceo, vissuto tra il sesto e il quinto secolo a.C., uno dei primi poeti professionisti della storia, viene da Carson sottoposto a «una seria riflessione sul significato della vocazione poetica». Ma non ne esce perdente. Se è vero che Simonide, di fronte alla crisi dell’antica realtà, al tramonto della xenìa aristocratica (quella forma di economia fondata non sul denaro e sullo scambio di merce ma sul dono), scelse di comporre poesia a pagamento – e fu per questo denigrato e dipinto dai biografi antichi come avido, come sordido accumulatore di denaro, una sorta di poeta del ‘compromesso’ –, è però probabilmente suo il merito d’averci fatto scoprire che il linguaggio è «una delle economie più rivelatrici di cui l’uomo si avvale». Il poeta che, con mentalità ‘imprenditoriale’, perseguì questa specie di ‘paradosso’, di ambiguità, lungo tutto l’arco della sua lunga vita, pagò con buone dosi di solitudine e umiliazione lo scotto inevitabile dell’alienazione. Venne a essere, cioè, un alieno più che un ospite presso le case dei suoi facoltosi committenti, un estraneo per il proprio mecenate, un ammesso con riserva a un corpo sociale che non mancava di ricordargli la sua reale, effettiva esclusione da esso. Carson, estimatrice dell’ars poetica di Simonide, della sua perizia sublime nel comporre versi, ne segue la complessa parabola, grattando via le scorie dell’antica maldicenza, lo interroga e lo incalza, riuscendo così a restituire di lui un ritratto decisamente inedito, avvincente e vicino alla sensibilità moderna. Tanto Simonide quanto Celan, dunque, fecero l’esperienza delle forze disgregatrici, delle crepe profonde della storia. Entrambi dovettero sentire il peso della coscienza, il disagio creato da un ambiente che diviene estraneo e genera alienazione. Entrambi dovettero mettere ordine fra le macerie. Passare attraverso eventi epocali sconvolgenti dette loro l’occasione di ricuperare il linguaggio nella memoria, di investirlo di un valore di testimonianza. Il loro fu un acquisto salvifico. Celan è stato una delle voci più alte e strazianti del secolo. Egli fu testimone dell’orrore annichilente del nazismo, sopravvisse, a differenza della propria famiglia, all’Olocausto, fu esule gravato di lutti personali e collettivi. Così anche nella biografia di Celan, come già in quella di Simonide, si riscontrano i segni dell’estraneità (Fremdheit). Carson ricorda gli incontri con Martin Buber e Martin Heidegger, che lo lasciarono carico di amarezza e delusione. Innegabilmente, infatti, questo spirito introverso e ferito cercò sempre, attraverso la poesia, il dialogo con l’altro, chiedendo, tanto agli uomini quanto alla divinità, di non sottrarsi al confronto con un dolore che non ha mai tregua. Per fare ciò, spiega Carson, «aveva dovuto sviluppare una relazione da straniero con una lingua in cui un tempo si era riconosciuto. Aveva dovuto reinventare il tedesco schermandolo dal tedesco stesso, e trattando la propria lingua madre come una lingua straniera da tradurre». Per Celan, quindi, l’estraneità si è orribilmente consumata nel luogo più familiare: la lingua che fu della madre ma anche dei responsabili dell’assassinio di lei. L’alienazione è qui una lacerazione manifesta: l’essere del poeta, in misura sempre più evidente, più profonda, estraneo al linguaggio stesso. Per combattere la morte insita nella propria lingua, egli ricorse a ‘una grata di parole’ (Sprachgitter è appunto il titolo del suo terzo libro di poesie, del 1959). Celan si ritrovò «a ordinare il linguaggio attraverso una grata che limita ciò che il poeta può dire ma al contempo può anche purificarlo. Come il cristallo, purifica fino all’essenza. Come la rete, salva ciò che è purificato». Il poeta che ha usato il linguaggio come una grata ha salvato le proprie possibilità espressive. La poesia di Celan si colloca al di là dello spartiacque di un evento immensamente tragico e doloroso, non cessa mai di lambirne gli orli d’afasia facendo i conti con i suoi margini incicatrizzabili, ai limiti di sé stessa. È possibile, dice Carson, che Celan non riuscisse mai «ad accantonare il senso di colpa per essere sopravvissuto ai propri genitori nel 1942» e che quindi, forse, questa atroce e precoce perdita sia alla radice del suo percorso poetico. Certo è che Celan portò sempre in sé la consapevolezza che le «responsabilità dei vivi verso i morti non sono poche», e che il poeta è colui che salva dal silenzio definitivo, dalla morte, dall’oblio. Riconoscere alla poesia questo valore di testimonianza, dunque, porta Carson a ricordare che anche la vita di Simonide fu, in un certo senso, una lunga commemorazione degli scomparsi. Egli è stato infatti il più prolifico compositore di epitaffi del mondo antico. In quanto ‘scrittore sulla pietra’, fu spesso costretto ad adeguare la propria ispirazione alle dimensioni di una lapide. Scrive Carson che da «questo aspetto materiale – che è anche un aspetto economico, perché le pietre e il loro taglio costano denaro – hanno preso forma un’estetica dell’esattezza e un’economia verbale che sono divente il segno distintivo dello stile simonideo». A questo senso di costrizione si accompagnò però una straordinaria consapevolezza dello spazio. Misurare al millimetro lo spazio fisico in superficie per evitare lo spreco di parole, per risparmiare qui in questo mondo – e di contro però incrementare il loro lascito là, altrove, nello spazio profondo di ciò che non va perduto. Ecco allora che precisione e compassione si rivelano l’una la funzione dell’altra, sono una metafisica che s’innalza sopra la cruda realtà del fatto. Fra le pagine di maggior bellezza di questo saggio ci sono senza dubbio quelle che Carson dedica ai rapporti di Simonide e Celan con la parola. La loro è una parola lapidaria, che «usa il vuoto per pensare al pieno», che si fa immagine di ciò che non è visibile. È dunque incidere sulle superfici del vuoto e del silenzio l’atto creativo poetico che fondamentalmente li accomuna. Ad accomunarli lo sfondo di assenza su cui entrambi con estrema precisione (akrìbeia) dispongono la presenza. Se l’altro chiama da uno spazio di prossimità differita (e assente), ma imperduta, allora il poeta è colui che, spinto a uscire fuori di sé, va verso l’altro, incontra l’altro, è l’io che all’invito risponde e corrisponde al bisogno del tu. Per Celan e Simonide la poesia è stata un filo teso sul vuoto. Così teso e sottile da apparire invisibile. Dello stesso filo è tessuta la memoria. Si domanda Carson: «In che cosa consiste l’atto del ricordare? Il ricordo porta l’assente nel presente, collega ciò che è perduto a ciò che è ancora qui. Il ricordare pone l’attenzione sulla perdita e si sostanzia nelle emozioni dello spazio che si schiudono a ritroso nel vuoto. La memoria dipende dal vuoto, come il vuoto, a pensarlo, dipende dalla memoria. Una volta che il vuoto è stato pensato, può essere annullato». In un suo celebre discorso (il discorso di Brema da Carson più volte richiamato), Celan evidenziò il «legame etimologico tra pensiero e ringraziamento» (Denken und Danken), configurando a questo modo la memoria come nucleo che si oppone al vuoto lasciato dalla perdita. Riagganciamoci allora a quanto si è letto in precedenza nella Nota metodologica: la missione di cui parla Carson, è vero, richiede un’intensa, un’estrema attenzione. È la memoria quella forma di attenzione che tutti noi ingaggia. La compassione (sympàtheia) è il legame che permette all’io e al tu di restare indivisi creando quella vera presenza, l’imperduta presenza, di cui la poesia ha bisogno, è ciò che sostanzia per molti versi tanto la classicità quanto ogni antico e moderno umanesimo. di Federico Edgar Pucci ¬ top of page |
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