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IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 96-99 (scarica il pdf)

FERNANDO BANDINI, Memoris munus amoris. Introduzione, traduzioni, note ai testi di Leopoldo Gamberale, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani 2019, pp. 144, € 22,00


Gli archivi statali, privati, o anche afferenti a una collettività nata in nome di comuni interessi culturali, riservano sempre felici sorprese se indagati con passione e capacità di cernita. Così è stato anche per l’Accademia Olimpica nel cui fondo Leopoldo Gamberale ha rinvenuto vari poemetti latini inediti di Fernando Bandini. Il ritrovamento ha indotto pertanto il filologo a riaprire quel cantiere di lavoro che, dopo l’allestimento di un’edizione già dal titolo annunciante l’esaustività dell’impresa compiuta da Rodolfo Zucco nel pubblicare Tutte le poesie (Mondadori, 2018), pareva essersi chiuso definitivamente. Ne è nato Memoris munus amoris, non coacervo di scritti rifiutati da Bandini, ma ‘libro’ a cui il curatore ha conferito una sua ragione d’essere grazie ai due categorici parametri di selezione con cui ha scelto i sette poemetti. Gamberale vi ha accolto prima di tutto testi che, essendo stati presentati da Bandini ai due principali concorsi di poesia latina, il Certamen Hoeufftianum e il Certamen Vaticanum (la presenza di un motto d’apertura sui testimoni certifica, come spiega Gamberale, tale destinazione), denunciavano comunque una precisa volontà da parte del poeta di ‘consegnare’ l’opera a un pubblico di lettori, anche se numericamente esiguo. Il secondo criterio, altrettanto legittimo (sebbene per certi aspetti in contrapposizione con l’altro, antinomia di cui Gamberale è ben cosciente), è stato quello di ospitare testi sottoposti dal poeta a un’evidente revisione successiva all’atto compositivo, prova di una ‘patente’ di validità consegnata da Bandini a tali elaborati, opere da rivedere sì attraverso un ulteriore labor limae (talvolta iniziato e poi interrottosi), ma a giudizio del poeta da non abbandonare comunque all’oblio. Oltre alla pregevole traduzione, che cerca quantomeno di rendere l’«ipersenso» di ogni opera (per usare un’espressione di Bandini, cfr. Scrivere poesia in latino oggi), gli accurati cappelli critici con cui Gamberale accompagna ciascun poemetto ci informano su occasione di stesura, materiale documentaristico e metrica; le note di commento rintracciano, oltre a episodi di cronaca e realia evocati dal poeta, le più manifeste reminiscenze di poesia latina, come di tutte le altre tradizioni letterarie di cui si nutre in profondità (mai in gravezza) la lirica di Bandini, non solo poeta trilingue, ma a sua volta traduttore dal greco, dal latino, dal provenzale antico e dal francese, nonché fine esegeta di Leopardi. Nelle note il filologo espone inoltre quei piccoli interventi emendatorii (grammaticali, sintattici e metrici) resisi necessari nel pubblicare dei testi che, pur avendo raggiunto una loro compiutezza, esigono in più luoghi una doverosa messa in discussione della lectio autoriale, talvolta già riveduta dal poeta (la riproduzione di quattro fogli dattiloscritti, relativi a quattro diversi poemetti, permette di farsi un’idea delle intricate correzioni autografe e delle modifiche apportate al primo dettato).
La scelta è caduta dunque su sette poemetti che coprono un arco temporale di poco più di vent’anni (1967-1988), un periodo che va dall’allestimento della terza raccolta (Memoria del futuro, 1969) fin oltre l’uscita della sesta (Il ritorno della cometa, 1985), ma termina ben prima delle opere edite nella piena maturità, le raccolte degli anni Novanta e del nuovo millennio (Santi di dicembre, 1994; Meridiano di Greenwich, 1998; Dietro i cancelli, 2007, per rammentare le pubblicazioni più significative). L’ordine con cui Gamberale ha organizzato il volume è strettamente cronologico; il numero limitato di testi non consente d’altronde una suddivisione del materiale per tipologia metrica (sebbene vi si osservino delle significative ricorrenze binarie), o tantomeno argomentativa (data l’eterogeneità dei temi, seppure sia possibile individuare anche in questo caso dei rapporti su cui converrà soffermarsi). Appartengono al primo decennio (1967-1977) i quattro poemetti presentati al prestigioso premio dell’Accademia di Amsterdam (fondamentali sono state per Gamberale le informazioni procurategli da Xavier van Binnebeke che ha compiuto indagini nell’archivio olandese): Alcedonia (1967), in esametri, che costituisce insieme al ben più tardo Feria sexta in Parasceve  (1986-1987), la prova più estesa (200 versi, di poco inferiore il poemetto dedicato al Venerdì santo, costituito da 198 trimetri giambici); Endymion (1968), che coi suoi 51 trimetri giambici scazonti è invece il testo più breve; Mors volucrum (1975-1976), con cui Bandini torna all’esametro e infine Portus Lunae (1976), in distici elegiaci, come l’ultima composizione, Elegia in memoriam patris (1987- 1988), poemetto ‘gemello’ in quanto consacrato anch’esso a un ‘pascoliano’ colloquio col padre morto. Quest’ultimo testo, come Feria sexta in Parasceve, è invece presentato all’altro concorso per poesia latina, il Certamen Vaticanum (essenziale, come dichiara il curatore, per il rinvenimento presso la vecchia Fondazione Latinitas degli incartamenti relativi ai due poemetti, l’operato di Leonardo Rosa Ramos).
A ben guardare l’ordine cronologico seguito da Gamberale non è dunque l’unico criterio su cui si struttura Memoris munus amoris: il libro consta infatti di due parti definite dalle due stesse circostanze di ‘consegna’ a quel ristretto pubblico di ‘primi lettori’ al cui giudizio volontariamente il poeta aveva deciso di sottoporre i sei componimenti: alla tetrade dei poemetti in gara per il premio Hoeufftianum l’editore fa seguire insomma i due testi candidati al certame vaticano. Ma il libro si compone di un altro poemetto, che Gamberale colloca tra le due sezioni come a evideziarne il discrimine o piuttosto a conferire al testo interposto ruolo di cerniera tra le due compagini: Astronautas naufragus. Il poemetto, pur non essendo ascrivibile espressamente ad alcuna delle due parti, non è infatti relegato in una posizione ‘esterna’, in appendice alla silloge, ma è collocato in sede pressoché centrale, quale quinto elemento. A un’attenta considerazione, il curatore ci appare mosso dagli stessi principii, cronologici e circostanziali (seppure entrambi ipotetici), nel fare di Astronautas naufragus la linea di separazione e nel contempo l’elemento di giunzione della doppia struttura. Pur non ritrovando il relativo testimone nel Noord-Hollands Archief, Gamberale suppone infatti, mantenendosi comunque prudente, che Astronautas naufragus possa coincidere con Naufragium in aethere, il poemetto che Bandini aveva presentato nel 1977 al Certamen Hoeufftianum
Il mancato rinvenimento della documentazione relativa a Naufragium in aethere presso l’Accademia di Amsterdam non permette di stabilire tale identità. Ma se così fosse, la presunta data compositiva (1976-1977) giustificherebbe perfettamente la collocazione di Astronautas naufragus dietro Portus Lunae (databile con certezza al 1976). Sta di fatto che anche la comprovata candidatura al Certamen Vaticanum nel 1999 di Astronautas naufragus secondo una nuova redazione, intitolata Mors in spatio, che è profonda rielaborazione in distici elegiaci della medesima vicenda fantascientifica concepita in strofe alcaiche nella prima stesura (altro elemento distintivo che fa di Astronautas naufragus un hapax non afferente alle tre forme metriche su cui dialogano in coppia gli altri sei componimenti: esametri, trimetri/trimetri scazonti, distici elegiaci), suggerisce al curatore di porre il poemetto dedicato al Palinuro spaziale nel centro del libro, tra la quaterna hoeufftiana e il dittico vaticano.
Gli eterogenei soggetti di questi testi inediti permettono comunque di individuare delle costanti tematiche perseguite da sempre da Bandini, tanto che è possibile sia porre a confronto i poemetti con precedenti e posteriori prove liriche nelle tre lingue praticate dal poeta sia discernere propriamente dei dialoghi interni a Memoris munus amoris. Il rapporto più forte e pregno di significanza entro il libro è quello già rilevato tra Portus Lunae ed Elegia in memoriam patris, il primo, catabasi ‘archeologica’ e monologo tenuto al simulacro del padre, la seconda, mesta evocazione dell’imago del volto genitoriale ora riveduto allo specchio nei propri tratti sfioriti, nelle sembianze di un sé ‘quantum mutatus!’ dal fanciullo e dal giovane uomo che ebbe per padre il vecchio a cui ora in tutto il poeta somiglia. In Portus Lunae l’occasione di ripensare al genitore scomparso è propriamente costituita da una gita alle rovine della città etrusca, le quali, tutt’altro che invitanti a una celebrazione della «rupe che s’infutura», ma predisponenti il poeta al riandare alle «morti stagioni» e a comprendere il memento espresso dalle antiche rovine (vv. 23-26 «Immemor at veterem quam tellus obruit urbem / non ver, non placidum reddere mane potest / et cubat aeterno sub campis abdita somno / ex se dum fruges fundere pergit humus», vv. 51-56: «Inde quot ad vernos zephyros in montibus altis / marmore divitibus delicuere nives! / Quot sonuere tibi magno cum murmure venti, / quot stellae noctes incoluere tuas! / Nascitur e rimis veteris flos inscius aevi / desertum tenui rudus odore replens», vv. 71 e sgg.: «O, quot laeti oculi viderunt surgere soles / hic ubi sub terris abdita Luna late! […]»), ispirano il superstite a parlare al cenere paterno, proprio qui a Luni, dove il mare accoglie nel suo eterno ed annullante ‘essere’ lo scorrere delle acque fluviali, simbolo di una vita in divenire che trova pace o compiutezza solo nella morte. Rapportabile al ‘ritorno al padre’, la malinconica comparazione dell’Elegia (vv. 11 e sgg. «Primaevi quaero in speculo vestigia vultus / sed sum mutatus me inspicioque stupens […] Te, genitor, speculi duplicata in imagine miror / ac te, non memet, lucida lamna refert. / Nam dum tempus abit rapidi labuntur et anni / accedit propius nostra figura tuae»), dove, esposto il tema del confronto dei volti (fermato quello paterno a un’età raggiunta intanto dal figlio, fenomeno che quasi scardina il rapporto naturale tra i due), motivo immesso in simili ‘appressamenti tra vivi e morti’ tanto dal Pascoli di Mia madre quanto da poeti più vicini nel tempo – il Sereni del Muro (Gli strumenti umani) o di Autostrada della Cisa (Stella variabile), o il successivo Raboni di Digli qualcosa, pensa che è venuto (Quare tristis) –, Bandini si reimmette nel solco di quelle classiche visiones da cui origina, sulla scorta dell’«ultimo figlio di Vergilio», l’onirismo novecentesco a cui pienamente appartiene anche Elegia in memoriam patris (si ricostruisca la catena generativa così: Aen. II, 268-297 > Pascoli, Colloquio, La voce, Casa mia, Commiato > Elegia in memoriam patris, vv. 69-74: «Vidimus intenta plenum dulcedine vultum / et conabatur nonnihil ore loqui: / labra movet frustra, nequit ullam promere vocem, / sed quae non resonant verba cor audit item. / Quando iterum clemens patris apparebit imago / et dictis eius colloquioque fruar?»). Su tali fonti si complica il rapporto binario tra i due poemetti, che se scaturiscono, data la loro identica consacrazione all’umbra del padre, da un’idea comune (pur essendo separati da più di un decennio), si correlano per la medesima discendenza da una classicità rivisitata in chiave intimistica con Feria sexta in Parasceve. Non inganni il titolo che fa riferimento alla festa ufficiale, al giorno del lutto cristiano: il Venerdì Santo è per il poeta il momento per altra fuggevole percezione numinosa tutta familiare, che si verifica all’alba della feria sexta (vv. 1 e sgg.: «Quid mane somno protinus nos exciit? / Omnes fenestrae tinniebant vitreae […] vox matris nomen insusurrabat meum»). Il vago suono del proprio nome riudito pronunciare dalla madre morta, in un’intermittenza dell’anima, provoca qui il ricordo dei lunghi giorni d’infanzia (narrazione su cui procede il poemetto), quando da quella stessa voce il figlio potette ascoltare nelle sere invernali la «dulcem de erithaco fabulam […] veteribus a poetis traditam» (vv. 52 e sgg.). Nulla di più che un racconto d’agiografia popolare, quello del curioso e soccorrevole pettirosso presente alla crocifissione di Cristo, favola eziologica che narra l’origine della macchia sul petto dell’uccellino (altrimenti riferita alle rondini dal Pascoli di Centurio, vv. 104-105, con esplicativa nota d’autore: «Nutriculae dicunt hirundines solatas esse Iesum morientem»), ma storia al cui potenziale fantastico, sembra dire Bandini, risale forse la sua stessa «abitudine contemplativa», ovverosia quell’«attitudine poetica» trasmessagli dalla madre, novellatrice di un Veneto ancora arcaico e nel contempo classica sibilla, balia che per prima gli apprese quella lingua che è strumento indispensabile per fare poesia. Ma la forza persuasiva dei tre poemetti familiari non nasce dal semplice recupero di tanti tópoi di un primitivo culto dei morti ‘rinsaguato’ all’intimismo domestico e onirico del Novecento; deriva piuttosto dalla grande competenza con cui Bandini domina tale materia, cogliendone con virtù rabdomantiche i nessi sotterranei che ne determinano lo sviluppo quasi spontaneo nei secoli e nelle relative narrazioni poetiche: dai rituali del ramus aureus all’inconfessabile colloquio coi «buoni, i poveri morti». Osservare per esempio come Bandini intenda nel suo significato più profondo la metafora del myriceo Ultimo sogno e la riproponga entro Portus Lunae (vv. 91 e sgg.: «Hic ubi Tyrrenis miscetur fluctibus amnis / se hesterna Macram nocte fuisse memor […] hic prope pallentes ripas Lunaeque ruinas / te, dilecte pater, commemorare iuvat. / Tu mare, flumen ego; tu demum morte serenus / at longae quaerens somnia pacis ego») permette di seguirne le discese nelle più recondite ragioni di quelle letture classiche e moderne di cui la sua poesia si sostanzia.
Non meno interessanti i testi che esulano da questo più esplicito autobiografismo e mettono in scena storie di personaggi altri dal sé. A cominciare da Alcedonia, il poemetto ove si narra un’interrotta vicenda d’amore tra due giovani. Ambientata in un innominato paese di mare (le gite a sera dei due ragazzi, sempre che non si tratti di viaggi immaginari, magari ispirati da letture fatte insieme, hanno comunque come destinazione Haarlem, Copenaghen) e in un tempo imprecisato, la storia è narrata a ritroso, allorché il protagonista maschile, divenuto ormai un maturo marinaio torna al villaggio natio. Se la fine dell’amore tra i due giovani è come preannunciata da quella fatale stagione che fu cornice al nascere del loro reciproco trasporto – i giorni degli alcioni, consacrati al triste destino dei due amanti del mito ovidiano trasformati in uccelli (Ovidio, Met. XI, 410-742), circostanza che ancora una volta consente di osservare il trattamento attualizzante, o, meglio, atemporalizzante della classicità da parte di Bandini –, tanti sono gli indizi che, come rileva Gamberale, ci fanno intravedere sotto la figura del marinaio, contrariamente all’‘olandese’ di altra famosa leggenda del Nord riapprodato là dove visse giorni felici, il poeta medesimo, l’uomo ritratto in tante fotografie con la sua amata pipa (qui il fumisugiolum del maturo ‘lupo di mare’, v. 62), come il ragazzo abile nel gioco del rimbalzello (descritto ai vv. 33-35 e che Bandini ricorda come tipico passatempo della propria infanzia in Tempo passato di Memoria del futuro).
Ancor più lontano da un modulo di confessione interiore ci appare, a una prima lettura, Endymion, in cui Bandini riprende la favola antica del fanciullo pastore condannato al sonno eterno da Selene; e tuttavia Endymion non è un semplice esercizio su soggetto classico. Il breve poemetto si riscatta da una passiva adiacenza al mito attraverso un’idea sottile, non esibita, la quale nondimeno affranca e rinnova qui la vicenda narrata da tanti poeti: non sfugga come a esporre l’incantesimo subìto dalla dea sia lo stesso giovane, che, richiesta l’attenzione a un viator, gli racconta il proprio destino (vv. 1 e sgg. «Qui transis hac per antra noctis obscura / terisque cautus caespitem melaspermi […] qui transis hac, sis, commorare paulisper»). L’apostrofe, modellata sulla formula di tante epigrafi tombali, suggerisce ancora un colloquio tra l’eterno fanciullo e un cauto pellegrino (chi se non il poeta?), che si aggira tra gli ombrosi sentieri di una selva ove «pur viva è la boscaglia» e le antiche divinità continuano a parlare con le voci della natura solo a chi ne sappia udire i brusii: «[…] Quae tibi insusurravi / sunt verba vere an furvus halitus venti?» (50-51). 
Il Novecento erompe in Astronautas naufragus e in Mors volucrum, con tutto il suo pesante fardello di conquiste tecnologiche che vanno sfuggendo al controllo dell’uomo. Fantascientifica la vicenda del naufragio sidereo, che, pur collocata in un futuro lontano, è, come osserva Gamberale, verosimilmente sollecitata al poeta da un fatto concreto e di eccezionale impatto mediatico: l’allunaggio del 1969. Tuttavia, al di là dell’evento che stimola a ideare la storia di questo naufrago fluttuante tra sovrumani silenzi e interminati spazi (vv. 40-41), il poemetto offre a Bandini l’occasione soprattutto per meditare sulla solitudine dell’uomo di fronte alla morte, finale di partita che spaventa sempre ed ovunque: ne dà conferma quell’immagine del compagno che l’astronauta vede ormai esanime presso di sé, reificato come il soldato ungarettiano di Veglia (vv. 33-36: «carens sed aura iam periit comes / scissique pandit brachia tegminis / nimphaea visus quae polorum / albeat in tacitis lacunis»), a dire l’identico sbigottimento del sopravvissuto atteso da un medesimo destino solo procrastinato. 
La campagna veneta è infine la protagonista di Mors volucrum, poemetto di denuncia ecologista, che colloquia con altri simili gridi d’accusa del conterraneo Zanzotto, denuncia in diretta di quanti animali, soprattutto gli amati volucres, a cui Bandini aveva già consacrato le quindici ‘lapidi’ uscite nel 1973, furono uccisi nell’intento di portare rimedio a un «morbus non cognitus» (v. 72) – immagino che si tratti del mal dell’esca delle viti – per l’uso sciagurato di antiparassitari, irrorati da un cielo, non più evangelico regnum volatilium, qual pioggia mortifera, sterminatrice più potente, giacché subdola, degli «ex alto tormenta» (v. 51), le bombe sganciate dagli aerei nella Seconda Guerra Mondiale. Pietosa descrizione delle sofferenze provocate alle numerose creature che costituiscono il vario bestiario della poesia di Bandini (colombe, cinciallegre, pettirossi, rondini, fringuelli, merli, tordi, cutrettole, cardellini, coccinelle, formiche, api, ricci, gatti, con un omaggio esplicito, come annota il commentatore, al Montale di Upupa, ilare uccello, ai vv. 30-33 e 56-68), Mors volucrum è lamento per quell’antico equilibrio della natura definitivamente leso ad opera dell’uomo, planctus in una ‘lingua che più non si sa’ scelta qui forse proprio a riferire l’irreparabile perdita.

di Francesca Latini

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