« indietro IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 99-100 (scarica il pdf) FERRUCCIO BENZONI, Con la mia sete intatta. Tutte le poesie, a cura di Dario Bertini, introduzione di Massimo Raffaeli, Milano, Marcos y Marcos 2020, pp. 400, € 25,00 Sotto all’intestazione Con la mia sete intatta viene per la prima volta raccolta in maniera organica l’intera opera in versi di Ferruccio Benzoni (1949-1997). Il titolo si presta bene all’occasione, perché viene da un passo che, sebbene figuri in uno dei testi più antichi dell’autore, sembra già condensare in sé tutta una vicenda umana e poetica: «Qui ho vissuto e un male d’ombre ha attecchito / qui devo finire con la mia sete intatta» (Confessioni per un autoritratto, p. 48). Il volume, che esce a cura di Dario Bertini e con una densa introduzione di Massimo Raffaeli nella collana di poesia «Le ali», diretta da Fabio Pusterla per l’editore Marcos y Marcos, ripropone integralmente i cinque libri di Benzoni. Si parte dall’antefatto rappresentato da Canzoniere infimo e altri versi, nel quale confluiscono, giusta l’edizione proposta da Dante Isella nel 2004 (Genova, San Marco dei Giustiniani), le selezioni giovanili di La casa sul porto e di Canzoniere infimo. La prima era stata presentata da Giovanni Raboni nei «Quaderni della Fenice» di Guanda, n. 64, del 1980, insieme alle sillogi dei due «poeti-fratellini» di Benzoni, Stefano Simoncelli e Walter Valeri. La seconda, curata da Marco Forti e introdotta da Franco Fortini, aveva visto la luce nell’«Almanacco dello Specchio», n. 11, del 1983, come Canzoniere infimo. Quattordici poesie e una prosa; in una versione, cioè, diminuita rispetto al progetto originario che, prima della sua improvvisa scomparsa, aveva ricevuto l’imprimatur di quello che per Benzoni fu il ‘grande amico’, Vittorio Sereni. In Con la mia sete intatta torniamo a leggere la raccolta secondo la coerente scelta operata da Sereni (il che ci ricorda, per inciso, quanto, oltre al lavoro di poeta, abbia contato per la poesia del secondo Novecento il suo essere stato anche «di poeti funzionario») e ristabilita appunto da Isella. Seguono Notizie dalla solitudine (Genova, San Marco dei Giustiniani, 1986), Fedi nuziali (Milano, Scheiwiller, 1991) e Numi di un lessico figliale (Venezia, Marsilio, 1995). Chiude il postumo Sguardo dalla finestra d’inverno (Milano, Scheiwiller, 1998). Il tomo ha dunque il considerevole merito di rimettere in circolo dopo anni (corredata peraltro da una bibliografia essenziale di sicura utilità a chi volesse iniziare ad approfondire lo studio di Benzoni) una delle esperienze poetiche più peculiari dell’ultimo scorcio del secolo scorso, sottraendola al cono d’ombra da cui (come aveva visto Raboni, seguendo una dichiarazione dell’autore stesso) pure essa aveva tratto la sua origine.
La poesia di Benzoni è infatti legata indissolubilmente alla natale Cesenatico, ossia a una provincia, a una condizione di marginalità, ben presto vissuta, tuttavia, come «frontiera dove farsi pionieri di idee e contributi autentici e originali». E Del fare cultura in provincia era l’eloquente sottotitolo della rivistina Sul porto, promossa da Benzoni, Simoncelli e Valeri a partire dal 1973 in aperta polemica con la temperie dominante nelle capitali culturali all’indomani della contestazione sessantottesca e in particolare con la neoavanguardia. In risposta alla sfrenata ideologizzazione del campo letterario il gruppo cesenaticese recuperava un «Novecento rimosso e niente affatto novecentista» (Raffaeli, p. 9) e opponeva, anticipando in tal modo una tendenza poi abusata in molta della poesia italiana che sarebbe venuta, una radicale immersione nel privato. A volte tanto privato, nel primo Benzoni, da risolversi in soliloquio: «Dunque sono solo un figlio, enfatica radice / e in un soliloquio grido bellezza, insensibile alla vita / vera, all’infinita stagione e aspra cui il vento / reca tristezza (le tue dita d’ombra) ma il sole / dà nuovi amori e perfida dolcezza» (Poesia di figlio, p. 23). O ancora: «non mi è costato tanto morire / ma ogni giorno vivere fino al soliloquio» (Com’è funesta, mi dico, p. 54). Un atteggiamento che, magari complice il genius loci (Cesenatico è la patria di Marino Moretti), in parte sostenuto dallo stesso poeta (che in Partire dalla nuvole parla ad esempio di suoi «rimari crepuscolanti», p. 75; si veda altrimenti l’aggettivo infimo attribuito a Canzoniere nel titolo della prima raccolta), ha subito portato a inquadrare Benzoni come neocrepuscolare. Va però tenuto conto dal fatto che una simile postura (il cui esatto controcanto è nei pur rari, luminosi, momenti di gioia; così in un testo del ciclo per la bambina Aisha, Gioiosa pedagogia: «detesto il soliloquio, l’ombra») ha alla base un’insanabile ferita esistenziale. Il 25 luglio 1967, quando Ferruccio appena si affaccia all’età adulta, muore sua madre Giovanna («Un venticinque di luglio in / coincidenza con l’elegante malinconia / della sera si tacquero / ritraendosi reclinandosi sui / pavidi steli i fiori», Giovanna e le civette, p. 288). Un trauma fondativo, che si riverbera, dal principio alla fine, nell’opera in versi del figlio («Non finirò mai di chiedermi / perché di luglio sei morta / una sera calda», Per Giovanna, p. 249); ne costituisce il tema, se non unico, cardinale, sul quale tutti gli altri, di una quotidianità selezionatissima (l’affetto per la zia «scricciolo», il sentimento per l’amata Ilse, la passione per il cinema della Nouvelle Vague, che influenza addirittura il montaggio di talune serie, il cordoglio per la perdita della cagnetta Orazio...) s’innervano. La madre è il ‘tu’, mai ‘falsovero’, mai ironico, e anzi, all’opposto, non ipotetico e caro, stando all’intestazione di una sezione del Canzoniere infimo, al quale costantemente si rivolge con tenerezza la poesia di Benzoni. Sicché la sua caratteristica intonazione, ora patetica, venata d’arcaismo, ora irrimediabilmente tragica, pare oggi, leggendo Con la mia sete intatta, piuttosto da accostare alla lontana a Pascoli e, più da vicino, al primo Caproni o a certo Pasolini. Ma la storia poetica di Benzoni da Notizie dalla solitudine in poi diviene soprattutto la storia di un’altra folgorazione. Il terzo, il quarto e il quinto libro di Benzoni sono scritti da qualcuno che anche troppo ha amato e mandato a memoria i versi di Frontiera, di Diario d’Algeria e massimamente degli Strumenti umani e di Stella variabile e il 10 febbraio 1983, con la morte di Sereni, sente morire una seconda volta sua madre. Dopo Giovanna, anche Sereni viene di conseguenza a essere una presenza onnipervasiva in Benzoni. Questa fase è segnata da quello che Pier Vincenzo Mengaldo ha definito, in una formula celebre, un «serenismo impressionante». Con risultati in linea con la coeva letteratura postmoderna, ma per ragioni che vanno di nuovo ricercate nella psicologia profonda dell’autore (sempre Mengaldo ha parlato in merito di una «specie di transfert»), il soliloquio di Benzoni si apre alle inflessioni, alle geografie, alle situazioni della poesia di Sereni, addensandosi di citazioni da essa prelevate. Emblematico in tal senso può risultare il finale di Quella rissa, ricalcato su quello di Un sogno, negli Strumenti. Sereni appare perfino quale personaggio o soggetto di vividi ritratti: «Rideva con tutta la nicotina della guerra, / delle minute possibili catastrofi / di una guerra girata altrove. / Non l’amore gli faceva torto / se un fiume fulgeva o un amico / ma uno sgarro di devozione / alla gioventù: la vita girata altrove» (Altra guerra, dedicata «a Vittorio», p. 129). È come se Benzoni potesse adesso parlare soltanto piegando la propria voce a fare da cassa di risonanza alla prediletta poesia del defunto Sereni. Riflettendo all’interno di Fedi nuziali sul titolo da dare proprio a quel libro Benzoni, dimostrando una lucida autocoscienza, scriverà: «Potrei calcando titolare infatuazioni [corsivo nel testo] / questo canzoniere vetriloquo / se anche [corsivo nel testo] di te parlando ho parlato con te in una ressa / di luoghi senza di te impronunciabili» (Per un titolo, p. 167, dove è forte l’eco della poesia degli Strumenti intitolata a Saba). Più avanti, dopo il 1994, anno della morte di Fortini, quando Benzoni medesimo sarà ormai malato, anche la poesia di Fortini e in particolare quella ultima, Composita solvantur verrà sottoposta a un analogo procedimento, tipico, del resto, di uno stile tardo o per vocazione postremo: «Un anno fa. Per l’esattezza. / “Proteggete le nostre verità”, / cremato e in odore / d’eresia Franco Lattes» (Sguardo dalla finestra d’inverno, 4, p. 324). Su questo aspetto si sofferma Bertini nella Nota del curatore che sigla Con la mia sete intatta, motivando la scelta di ripubblicare Benzoni «in questi anni di profonda sete culturale» con la formidabile opportunità che la sua poesia offre «per riallacciarsi alla voce dei padri», funzionando da «ideale guida per rileggere gli esiti migliori dei suoi maestri» (p. 382). È vero. Inoltre, nei momenti di maggiore intensità della sua ultima, cupa, stagione forse Benzoni ha potuto spingersi anche un po’ più in là dei suoi numi pienamennovecenteschi, arrivando (sulla scorta dell’esperienza precorritrice di un altro gigante del secolo breve da lui letto e riletto, quel Paul Celan, il cui «sontuoso strazio» balena in Una mattina di marzo al Sangiorgio, p. 178, o che s’intravede di profilo in Verso il venti d’aprile, p. 254) a vivere un vuoto ancora tra noi che Sereni o Fortini nel loro tempo avevano avuto modo soltanto di sospettare o profetizzare. Disponendo adesso, con questo volume, di tutte le sue poesie lettori e studiosi potranno allora misurare facilmente se Benzoni non abbia ancora qualcosa da dire al nostro presente. di Michel Cattaneo ¬ top of page |
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