« indietro IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 101-102 (scarica il pdf) ALBERTO BERTONI, Ricordi di Alzheimer. Una storia, Ro Ferrarese, Book 2016, pp. 99, € 12,00 Sostiene Roberto Galaverni («la Lettura», 274, 2017) che Ricordi di Alzheimer. Una storia di Alberto Bertoni «può forse essere considerato il capostipite di questo argomento poetico». L’argomento poetico in oggetto è uno dei mali più temuti del secolo, l’Alzheimer. L’ossimoro illuminante del titolo racconta di una narrazione poetica incentrata su due protagonisti principali, un padre e suo figlio. Eppure, il vero protagonista, colui che allegorizza e ridisegna la memoria e il ricordo stesso, è proprio Alzheimer. È Alzheimer che, a conti fatti, riscrive la sceneggiatura della memoria e disegna a tutto tondo i due personaggi principali dell’opera poetica, fino a permettere al lettore l’individuazione di almeno tre diverse entità paterne e filiali (padre e figlio ripescati nel ricordo; padre e figlio reali; infine, padre e figlio attuali, rivisitati dalla malattia), tali da creare un forte iato esistenziale tra la persona anagrafica e il personaggio poetico, alla lunga incommensurabili. Il processo che si innesca è foriero di una particolare diacronia diegetica che finisce con esaltare l’elemento malinconico e ironico tramite un costante ricorso all’analessi. Il triplice gioco di specchi innesta così continui rimandi tra passato e presente, operando tra effetti realistici, conseguenze del morbo sul padre e ipotiposi estive immerse nel vivere modenese, a volte simili a un girone infernale, più spesso ricamate in tragicomiche evenienze, giacché – ed è limpido pregio dell’opera – è insita nella ‘modenesità’ l’istanza del non piangersi poi troppo addosso, anche di fronte alle tragedie più indicibili; certo, la preminenza del tragico non viene messa in discussione, tuttavia si propende per una discesa dolce nell’inferno delle sabbie mobili del male, si abbraccia la realtà con un tocco di ironia, vera clausola di salvaguardia dell’umano. E la scrittura e lo stile di Bertoni sono fulgido esempio di questo, di una sofferenza che, pure manifestandosi copiosa, non cede passo al patetismo e alla letteratura del dolore. Dopo aver giustamente celebrato la centrata e centrale pertinenza del titolo, occorre dare giusto risalto anche a ciò che solo all’apparenza risulta secondario, ovvero Una storia. Quello che sembra solo un sottotitolo è, in realtà, un fondamentale prosimetro, una legenda necessaria per decriptare l’altra faccia dei versi bertoniani, posto in calce all’opera. Prosa e versi che raccontano – in poche pagine dallo stile confidenziale, ironico e cristallino – l’interiorità emotiva entro cui l’opera ha preso forma. Una storia snocciola, tra momenti di grottesco e di fantastico, il filo rosso che tiene insieme il libro, l’eccellente unione tra partitura e struttura stessa dell’opera. Opera che si dipana a partire da un omaggio, un cameo poetico dell’amico Guccini, in dialetto pavanese (e il dialetto è e sarà architrave del libro), per poi lasciare spazio al Commiato (diciotto quartine che testimoniano come il punto di partenza non possa che essere la fine, il momento topico della morte del protagonista e del passaggio del testimone al figlio che lo ritrova sulle scale, pensandolo semplicemente addormentato), fino alla sua divisione in quattro sezioni (Kafka, Fúdbal, Larva e Gisberto) che, oltre ad avvalersi dello svelamento di senso proposto da Una storia, contribuiscono a rinforzarsi a vicenda, rinfocolando il rapporto connotativo tra le sezioni – e i loro titoli – e le poesie. Si coglie così l’importanza di un autore come Kafka, che dà il senso di un’esistenza vissuta tra grottesco, fantastico inatteso e gravoso peso della cupezza, fino alla trasformazione metamorfica nel mondo animale. E l’esigenza irrisolta del divenire – da larva – farfalla, accompagna il figlio protagonista in tutto l’excursus dei versi. È una fioritura lasciata a metà, in effetti, quella che viene proposta. E che non si tratti di un mero caso lo dimostra la sezione Larva, in cui fantastico e grottesco si fondono alla perfezione e tutti i nodi dell’epopea della famiglia Bertoni (uno dei temi portanti della raccolta) giungono a compimento, in una sorta di incredibile atto mancato: il parto. Per un figlio che non vuole contribuire all’eternarsi dei geni famigliari, il massimo concesso è partorire una Cordylobia antropophaga, in un atto di trasformazione e trasmutazione che interrompe la catena di trasmissione umana ma resta nei paraggi kafkiani della metamorfosi, non però in uno scarafaggio «bgòun», bensì in un’ipotesi di esserino, destinato a volare via. Niente figli, si diceva; d’altronde il bisogno identitario del figlio si convoglia naturalmente nello spirito ribelle che favorisce un distacco dalle opzioni del padre, anche solo per distinguersi meglio; distacco che, però, non tradisce alcune delle richieste basilari, espresse compiutamente sempre nella poesia iniziale della sezione Kafka: non farsi prete e non deviare dalle normali attese di eterosessualità; richieste talmente insite e diffuse nell’humus culturale del tempo, che vengono presentate – pasolinianamente – nella lingua madre, nella lingua delle emozioni e dell’espressività, il dialetto. E moltissimi sono gli intermezzi dialettali, le integrazioni presenti nell’opera, al punto che potremmo parlare di lingua del ricordo, della memoria depositata dello svolgersi quotidiano e segreto del rapporto a due. Buona parte delle esperienze in comune tra padre e figlio transita dalla lingua emotiva del dialetto alla lingua della comunicazione, l’italiano, con cui il figlio – poeta e professore – crea la sua indipendenza emotiva ed economica da maschio adulto. Ecco allora che la terza sezione si intitola Fúdbal, ovvero ‘football’, calcio, perché il gioco del pallone rimane uno dei cordoni ombelicali mai recisi tra i due, una delle architravi emozionali del dettato paterno, insieme ad altre caratteristiche tipiche del modenese doc (cibo, vino, motori). Anche la fama di ‘mangiapreti’ si attaglia all’emiliano tipo degli anni della guerra fredda, in cui il rosso poteva significare, per un modenese, ben più del colore del generoso lambrusco. E la sezione finale, Gisberto, non poteva che essere frutto di vite vissute all’emiliana. L’aneddoto, spiegato nel prosimetro, è davvero gustoso (il prete inviato per la celebrazione si presentò ubriaco fradicio e ripetutamente confuse il vero nome del defunto – Gilberto – con Gisberto) e rimanda al miglior Svevo della Coscienza, in cui verità, fantasia e finzione guidano all’unisono verso il tragicomico. Ecco, allora, le solide fondamenta su cui l’opera si puntella: oltre alla preminenza della modenesità, oltre al ruolo intimo e profondo del dialetto, oltre ai comuni e plurivoci appigli empatici del rapporto a due e ai prestiti kafkiani e sveviani, ecco il convitato di pietra: Alzheimer. Sono numerose le poesie dedicate alla ricostruzione degli effetti della malattia sul padre e sui suoi comportamenti. Il titolo dell’opera, però, oltre a caratterizzarsi per la valenza ossimorica, sottolinea pure una forte tendenza diegetica, un chiaro riferirsi all’evoluzione diacronica di una storia a due, il rapporto tra il genitore e il figlio. È dunque normale che, nel farsi dell’opera stessa, si possano rintracciare, oltre ai versi dedicati agli effetti di Alzheimer sul padre, anche le inevitabili – a volte inattese – influenze sulla vita e il destino del figliolo. La condizione cui la persona del figlio viene sottoposta è paradossale, quando non grottesca: essere scambiati con un cugino e dovere perseverare nel ruolo, recitare una parte, anche senza volerlo, ad esempio. Accade in Mio padre ci vive coi suoi morti. Per tacere, poi, delle tante incomprensioni nella vita di tutti i giorni, dal cibo rifiutato alle passeggiate modenesi. Il padre si esibisce in un ‘ricordo’ di gioventù riattualizzato, qualcosa di famigliare e quotidiano e il figlio deve assecondare la visione giornaliera del genitore. Gli effetti della malattia non possono che riverberarsi nelle reazioni del figliolo. La scena domestica esprime tutto il vuoto e l’impotenza d’agire dei famigliari. «Gli occhi gli sono / cambiati, gli occhi / sciolti d’amore, acquosi», una terzina separata in clausura nella poesia Un Himalaya sopra Sassuolo esprime plasticamente l’effetto di ‘nientizzazione’ della malattia, il cambiamento dalla vivacità alla palude, allo stagno del vitreo e calmo apparente. Poi gli effetti si trasportano nella gestualità, recepita dalla persona che dice ‘io’ come in un brogliaccio d’eventi, in un diario: «Per la prima volta mio padre / inscena una paralisi non va / a prendere il giornale / dice che cerca sassi», e a seguire il dialogo tra i due. Gli effetti del morbo sulla vita del padre producono ricadute pratiche e psicologiche anche sull’esistenza del figlio. Tantissime le poesie che lasciano trapelare la condizione dolorosa da cui risulta impossibile fuggire, una prigione senza scampo. Altro crisma sotterraneo che attraversa l’opera è la presenza – e non potrebbe essere diversamente, data la lunga fedeltà bertoniana – di alcune ‘spie’ montaliane, che conducono a Clizia e ad Arsenio in prima battuta, ma è ancora una volta il potente atto della metamorfosi ad attuare sostituzioni esistenziali, a essere al centro del versificare. La vita non può essere messa in discussione, tuttavia può esservi una sostituzione, una metamorfosi del ruolo, come sta a testimoniare l’estremo atto d’amore del figlio, il sostituirsi – clizianamente – al previsto girone del dolore, riversando su di sé il carico di sofferenza. Si tratta di un atto estremo di coraggio e dedizione, un porre argine alle amnesie e ai disorientamenti paterni. Fino a chiuderne gli occhi.
di Adriano Faulini ¬ top of page |
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