« indietro IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 110-111 (scarica il pdf) PAOLO FABRIZIO IACUZZI, Consegnati al silenzio, Bompiani, Milano 2020, pp. 134, € 16,00 Chiunque in questi mesi si sia trovato a leggere il nuovo libro di Paolo Fabrizio Iacuzzi senza fare attenzione alla data di pubblicazione della prima edizione, potrebbe aver pensato a un’operazione commerciale degna dei più astuti instant book, una pratica di marketing non molto comune nell’editoria di poesia – fatta eccezione proprio per qualche recente, discutibile testo poetico pubblicato ‘ai tempi del Coronavirus’, come si è amato dire durante la prima fase della pandemia. Da cosa potrebbe nascere questo dubbio? Per capirlo entriamo subito nella trama del libro: «Viviamo in astinenza. Granai senza le macine / guardiamo un piatto vuoto. Dalle vetrine i dolci / che non possiamo avere. Pensaci di notte se / pensarci non costa niente. Pensaci nel mondo // che ci costringe sani. Fingere di non avere niente / ed essere contaminati.» Poi ancora: «Contagio più non siamo perché dei nostri virus / dormono nelle cellule. E quando c’è il mattino / ci inonda la fatica.» E infine: «Siamo dentro al buio per aspettar la luce / Entrare // in fondo piano tra spifferi dei muri. Ci illumini / la lingua ci stani tutti i virus.» Questi versi – anche grazie a un lessico che la contingenza ci rende amaramente familiare – hanno la capacità di descrivere il sentimento di smarrimento e solitudine di cui molti di noi hanno fatto esperienza durante il periodo di isolamento o, peggio, di malattia. Le tre citazioni vengono da altrettante poesie de Il padiglione verde, la sezione centrale di Consegnati al silenzio - Ballata del bizzarro unico male, libro che – ci creda il lettore o meno – è stato pubblicato da Bompiani nel febbraio del 2020, qualche settimana prima della dichiarazione di pandemia e del lockdown. Quando ancora noi dovevamo cominciare a prendere confidenza con il dizionario dei virologi, con il lessico dei bollettini e la grammatica dei decreti ministeriali, già da tempo Iacuzzi – percorrendo strade alternative – aveva profeticamente intuito la portata esistenziale del dramma virologico che di lì a poco avrebbe stravolto le nostre vite. Il «bizzarro unico male» del sottotitolo è proprio il virus o, per meglio dire, uno dei tanti virus che nei secoli hanno prostrato l’umanità con il loro metodo infido e chirurgico: il «male cucito al male cucito al male» radiografato da Iacuzzi è una malattia che non ha certo bisogno di un nome scientifico per riuscire a renderci partecipi di un destino dietro la comune «peripezia umana» di chi «non accetta la peste che è dentro». In effetti, il poeta toscano – sulla scia non so quanto intenzionale delle Case della Vetra di Raboni – un nome lo sceglie: decide infatti di sfruttare la suggestione storico-letteraria della peste per tessere un filo che allacci un fatto privato come la morte del padre con la storia dell’Ex Spedale del Ceppo, che ebbe un ruolo centrale durante l’epidemia che colpì Pistoia nel 1348. La sezione del libro intitolata Pietra della pazzia (già uscita nel 2016 come volume autonomo edito da Giorgio Tesi) è infatti suddivisa in 7 parti, tante quante sono le Opere di misericordia scolpite da Santi Buglione e Filippo di Lorenzo Paladini nel fregio della facciata dello Spedale. A ispirare Iacuzzi non è però solamente il potenziale narrativo e il fulgore cromatico delle figure che affollano il fregio, bensì un dettaglio apparentemente insignificante: uno ‘sfregio’ sulla colonna portante della facciata, un graffito recante la firma «Gio Batta Iacuzzi 1816». A partire da questa coincidenza («un antenato di cui non so nulla», ha detto lo stesso Iacuzzi in un’intervista) il poeta – autorizzato da un sonetto-sogno da lui stesso attribuito a Gio Batta – ha poggiato le fondamenta di una genealogia inventata (nel senso etimologico originale conferito dal verbo ‘invenire’, trovare) che lega il destino nominale, privato della famiglia Iacuzzi all’opera di misericordia dello spedalingo Leonardo Buonafede, il monaco certosino protagonista delle scene del fregio. La «geolocalizzazione» della propria memoria concentrica è lo strumento che, dal capezzale del letto di morte del babbo (proprio come Claudio Pasi in Nomi Propri, Amos 2018), lo Iacuzzi «patologo del nulla» utilizza per risolvere il «Padre cruciverba senza schema», ma anche per operare su di sé una spietata, quindi pietosa «autobiopsia» che dalla radice del male faccia scaturire un’ipotesi di salvezza. Una caratteristica comune a tutti i libri di Iacuzzi è l’architettura macrostrutturale che consolida l’opera a partire dall’occorrenza dei colori: dopo il rosa di Folla delle vene (Corsiero Editore 2018) in Consegnati al silenzio è il verde il colore dominante dei quadri che compongono la galleria. Attraverso memorie, sogni e ‘madeleine’ chiazzate di verde, il poeta cerca una possibile risposta al dolore tentando di fare ordine nella confusa pinacoteca del proprio passato «di fronte e attraverso il mistero / della pena». Con pathos tragico o leggera ironia a seconda dei casi, Iacuzzi costringe il proprio universo privato alla prova di una lezione etica che sia in grado di generare indizi di autocoscienza e illuminazioni, con quell’intonazione plurale che tenti l’impresa di far coincidere l’esperienza personale col destino universale in «un punto di carità condivisa». La scrittura poetica di Iacuzzi esalta una lingua sorprendentemente originale che mescola alto e basso creando nessi e relazioni spiazzanti tra eventi e personaggi apparentemente irrelati («Tutte le figure sono le figure / salvate dalla storia per stare oltre i virus»). Dal punto di vista formale, invece, colpisce (ma non stupisce i suoi lettori più fedeli, che riscontreranno una continuità) come Iacuzzi sia in grado di isolare «l’inesorabile potenza dell’istante» nei suoi stampi metrici: la cornice ideale per la sua «vita a quadri» è infatti uno pseudo-sonetto quasi sempre ipermetro che cattura il lettore per ipnosi, scandendo il ritmo in modo ossessivo tramite settenari o endecasillabi camuffati in enjambement, segmenti frasali assertivi ricchi di rime interne, assonanze e anafore di grande potenza espressiva: del resto è lo stesso Iacuzzi a definirla una «sintassi secca e rapidissima / altéra e incalzante», nella poesia conclusiva Bizzarro unico amore. Il peso specifico di un’opera come Consegnati al silenzio conferma come Iacuzzi sia uno dei poeti più interessanti della sua generazione, nonché uno dei pochi ad aver dedicato il proprio lavoro di scrittura allo sviluppo di un vero e proprio progetto unitario che ambisca a raccontare ‘la vita in versi’ secondo l’esempio del maestro Giovanni Giudici, omaggiato in questo libro con una dedica e una cripto-citazione (Quanto spera di campare Giovanni diventa Campari per campare), che dimostra quanto il poeta spezzino sia presente nello spirito tragico e vivace della scrittura di Iacuzzi.
di Bernardo Pacini ¬ top of page |
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