« indietro IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 120-121 (scarica il pdf) MARION POSCHMANN, Paesaggi in prestito, a cura di Paola Del Zoppo, Roma, Del Vecchio Editore 2020, pp. 245, € 14,00 La raccolta di liriche Paesaggi in prestito (Geliehene Landschaften, Suhrkamp, 2016) di Marion Poschmann, ora uscita per la cura di Paola Del Zoppo presso la casa editrice Del Vecchio, distintasi per una lodevole opera di pubblicazione di poeti contemporanei non solo di lingua tedesca, reca il sottotitolo Poesie didascaliche ed elegie. Con questo omaggio a due generi legati fin dall’antichità alla percezione e alla rappresentazione della natura, nonchè caratteristici della poesia tedesca dell’Illuminismo e della Klassik, Poschmann, voce tra le più significative della sua generazione, prosegue un personalissimo cammino di scandaglio della tradizione della Naturlyrik (lirica della natura), già iniziato nella sezione Idyllen della raccolta Grund zu Schafen apparsa nel 2004. Come osserva Del Zoppo nel saggio che chiude il volume, «Marion Poschmann si inscrive in questa tradizione riscrivendo, depotenziando il cliché e riportando la poesia di paesaggio alla sua essenza di connettivo tra poesia intimista e politica, appunto elegiaca e didascalica» (p. 229).
Paesaggi in Prestito, che nell’edizione italiana si apre con il saggio poetologico Animale araldico: medusa, lectio magistralis tenuta dalla poetessa in occasione del conferimento del Premio Internazionale Il Ceppo 2020, spicca per la sua calibrata e rigorosa struttura scandita da nove cicli, comprendenti ciascuno nove poesie. Le liriche percorrono le tappe di un viaggio di esplorazione poetica lungo un asse occidentale-orientale che si snoda da Kaliningrad, passando per il quartiere di Berlino Lichtenberg e per Coney Island, fino a giungere a Kyoto, Matushima, Shanghai, Helsinki. Il filo rosso di questi percorsi intercontinentali è l’interesse per i giardini e la loro architettura nelle diverse culture, europea, americana, ma soprattutto asiatica. Come molte raccolte contemporanee di poesia di lingua tedesca, anche il volume di Poschmann reca una sezione finale di note esplicative, quasi un lemmario, in cui il lettore apprende la ragione del titolo apparentemente criptico Paesaggi in prestito. Esso indica in origine una tecnica cinese di architettura del paesaggio che consente di integrare un elemento della natura circostante nel proprio progetto di giardino, in modo da «evocare la grandiosità e la forza della natura» (224), i vuoti come i pieni, anche nello spazio più limitato. Un tale modello estetico, quasi utopico, di relazione con l’ambiente circostante si riverbera ovviamente anche sulla tecnica compositiva dei testi poetici: «Fai sì che lo spazio si generi / insieme a un angolo protetto, dal quale operi / nel vuoto» (Progetto per un giardino, p. 155). Attraverso la forza del linguaggio la poesia può evocare in uno spazio esiguo immagini di ciò che si estende al di fuori, scattare istantanee di attimi sottratti al fluire del tempo e quindi rendere visibile l’invisibile. Come la medusa del saggio introduttivo, la poesia «ha dunque a che fare con sguardi e specchi, opacità, rotture, sfocature, con il procedimento visivo, dell’affidabilità della percezione e della possibilità del riconoscimento» (p. 10). L’insistita presenza di nebbia, fumo, foschia nei versi di Poschmann, già fulcro del suo discorso in occasione del conferimento del più prestigioso premio tedesco di poesia, il Peter-Huchel-Preis, nel 2011, allude quindi alla natura liminare delle immagini e al carattere fugace della nostra percezione della natura, in cui esse emergono per poi dissolversi rapidamente come illusioni. Pur essendo organizzati secondo un rigoroso principio di composizione e seguendo un’intima necessità, i paesaggi in prestito di Poschmann per la loro stessa struttura non perseguono l’intento di una rappresentazione totalizzante della natura. Ne offrono scorci, vedute parziali: «tre canne di bambù isolate, mai/ visibili per intero, uno stagno, una stagione» (Progetto per un giardino, p. 155). I paesaggi in prestito spostano i confini, ridefiniscono la linea di demarcazione fra spazio interno ed esterno, fra prospettive e orizzonti della percezione, ma anche i punti di transito fra realtà fattuale e costruzione finzionale, tra poesia e riflessione teorica. Non è quindi un caso se Paesaggi in prestito ha un suo pendant poetologico nella raccolta di saggi Mondbetrachtung in mondloser Nacht (uscita anch’essa nel 2016 e non ancora tradotta in italiano): entrambi gli aspetti della produzione di Poschmann, peraltro avveduta germanista, si completano dunque e integrano reciprocamente. Ma già Paesaggi in prestito fonde in sè riflessione saggistica e lirica, come si vede proprio nella poesia Vista del Fuji: «Ho visto il suo fronte e / il retro allo stesso tempo» (p. 203.) Anche qui si ricercherà invano una visione globale della natura, mentre si assisterà piuttosto al fenomeno descritto dal filosofo Martin Seel: la contemplazione del paesaggio come constatazione di una «unità senza tutto» che crea uno spazio di «totalità sottratta» (Eine Ästhetik der Natur, Frankfurt a.M. 1991, p. 223, 222). Realia come luoghi, toponimi, giardini, pur presenti nella poesia nella loro referenzialità, diventano al contempo parte di un paesaggio linguistico che, nel modellare l’esperienza della natura, la rende in questo modo possibile. È la lingua a creare spazi di percezione e a delineare vedute e scorci: la prima lirica della raccolta, Bastard, si apre non a caso con l’invocazione del paesaggio, secondo una modalità espressiva tradizionale (esplicito il riferimento ad Hamann, anche lui, al pari di Kant, filosofo di Könisgberg e quindi vero e proprio genius loci del ciclo Parco dell’ambra a Kaliningrad). L’apostrofe è rivisitata qui in chiave ironica, attraverso l’enfasi posta sul momento della frattura e della parzialità: «Paesaggio – oh, panorama verbale / del logos creatore. Paesaggio, bipartito, fronte e retro. / Lo spazio che cede ed elicita oggetti: bosco sempreverde. Spazi aperti. / Un tempo e ora» (p. 23). Al pari della nozione stessa di paesaggio nell’estetica occidentale (si pensi al magistrale saggio di Joachim Ritter), i giardini di Poschmann sono frutto di una sapere sulla natura filtrato attraverso l’estetica. Anche in questa fusione di funzione cognitiva e artistica risulta vieppiù evidente la definizione di «poesie didascaliche» del sottotitolo. La letteratura è uno strumento di conoscenza in grado in penetrare negli strati profondi della realtà (si noti ad esempio l’insistenza sulle rocce come simbolo della poesia nelle pietre suiseki, p. 157) e anche nelle sue recondite lacune, come si vede al cospetto dei parchi di Kaliningrad, la città che per la sua stessa struttura somiglia a un immenso paesaggio in prestito: «Nostalgia dell’Eden […] / Farsi vuoto. Sopportare il vuoto. Capire il vuoto. / Smettere di voler scorgere Dio che architetta il giardino» (Quasi trasparente, p. 39). In questo senso, con un bisticcio intraducibile in italiano, la poesia come Lehrgedicht (poema didascalico) diventa piuttosto un Leergedicht (poema sul vuoto): sui vuoti della natura, le fratture della storia e le ferite del paesaggio, segni di una «natura dopo la natura». di Lorella Bosco ¬ top of page |
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