« indietro IN SEMICERCHIO. RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXIV (2021/1) pp. 136-138 (scarica il pdf) LUIGI TASSONI, Il gioco infinito della poesia. La lettura dei contemporanei da Ungaretti a De Angelis, Roma, Giulio Perrone editore 2021, pp. 251, € 20,00 Luigi Tassoni ci ricorda che per la poesia occorre un lector abilis, e che non abbia fretta. La poesia, infatti, può essere rapida, ma è nemica della velocità; allo stesso tempo l’approccio ad essa deve evitare semplificazioni e banalizzazioni. Per parafrasare l’autore, la poesia «è un gioco», ma da prendere sul serio perché come ogni attività ha le sue regole, i suoi obiettivi, un cifrario che cambia di poeta in poeta e che va contestualizzato. Giocare, come leggere, è un’attività molto complessa, e sperimentare significa, sia per un bambino che gioca col mondo che per un lettore che sfida la dimensione della poesia, conquistare ciò che è altro da sé. La poesia, come la realtà, vela e svela, nasconde e scopre, dà risposte, ma pone anche domande. Leggere significa, quindi, ‘mettersi in gioco’, cercare, ricercare, stanare. Il libro di Tassoni poggia innanzitutto su un intento: credere che la poesia non sia solo uno scrigno da forzare per carpirne i tesori: «La verità – scrive – è che la poesia aggiunge significato al mondo, anche quando sembra da esso attingerlo». Il collante tra i dodici poeti, protagonisti del libro – oltre naturalmente a una predilezione personale dell’autore, a una aderenza affettiva per averli conosciuti e frequentati –, è da ricercarsi nel peso della parola, che in ognuno di essi assume un significato diverso. È un dodecaedro di poeti, che ben rappresenta la nostra epoca e che Tassoni stesso ha sinteticamente descritto, nel capitolo introduttivo, con una iridescente tavolozza aggettivale, secondo cui la loro poesia è abissale (Ungaretti), esigente e innamorata (Betocchi), indecifrabile (Montale), paziente e crucciata (Bertolucci), infinitesimale (Sinisgalli), incolpevole (Caproni), avventurosa (Bigongiari), inquieta (Luzi), disperata (Calogero), sopravvissuta (Zanzotto), ancestrale (Curcio), tragica e luminosa (De Angelis).
Nel libro l’interesse non è rivolto alla mera analisi critica dei testi poetici, e l’attenzione di Luigi Tassoni è focalizzata sul lavoro di bottega, sul poeta che, come un artigiano, sceglie i materiali, seleziona gli attrezzi, plasma l’oggetto, lo rifinisce, accantona, ma non butta gli scarti. Ecco perché, nello specifico, si chiama in causa Giorgio Caproni, che alla domanda su come si scrive una poesia risponde parlando di un personale inabissamento, di uno sprofondarsi fino a scoprire in sé «nodi di luce», che non sono validi solo per sé, per l’io, ma per l’intera tribù. Ma il poeta come sceglie le parole giuste? Come le dispone visivamente sulla pagina? Perché preferisce alcuni ritmi o alcuni suoni? Si parte dal significante fonico o dal significato del discorso? Non è un caso che il titolo del libro oltre a rimarcare il termine «gioco» lo qualifichi come «infinito», come una sfida senza limiti, perché dopo l’atto poetico, costruito e sedimentato sulla pagina per opera del poeta, inizia un’altra colluttazione, nello spazio e nel tempo: quella fra testo poetico e lettore, che potenzialmente non ha mai fine. Al gioco infinito della poesia, nel volume, si aggiunge lo «straordinario gioco delle varianti, le varianti che possono in molti casi, anche se non in tutti, orientare una buona lettura e una buona interpretazione della poesia». E questo perché spesso il labor limae può essere particolarmente complesso e sofferto nel tempo. Ogni poeta ha un suo modus operandi, ha una sua lingua speciale, all’interno della lingua comune che tutti utilizziamo: «Occorre scrivere in una lingua che tutti sanno, e scrivere qualcosa che non tutti sanno». Sembrerebbe che il nuovo millennio porti con sé il rischio e il rammarico della distruzione del patrimonio autografo, con il prevalere dell’inchiostro digitale che non lascia bava, e invece lo studioso di varianti, Tassoni, ribadisce nel capitolo conclusivo che ora abbiamo nuove possibilità (per esempio le varianti digitali, le risorse dell’informatica umanistica) per combattere contro il tritatutto della memoria, contro la mutilazione dell’analogico, di una grafia solo in apparenza insidiata dall’uso dei software di videoscrittura, pratici, ma smemorati. Lo studio del testo si è sempre avvantaggiato dall’osservazione del lavoro del poeta sulla pagina. Illuminante, in tal senso, è il riferimento a Paul Valéry e a Le cimitière marin (un’antica frequentazione di Tassoni). L’analisi ha dimostrato l’esatto contrario di ciò che il poeta sosteneva e che non è vero, quindi, che partì dalla suggestione del ritmo per giungere alla parola, seguendo invece il percorso contrario. L’analisi delle varianti aiuta a delineare un percorso, agevolando di fatto il lettore. Certo occorrono pazienza e costanza. Nello specifico il volume ci racconta, nel capitolo intitolato Nel tascapane del poeta, dei foglietti sparsi di Giuseppe Ungaretti che raccoglie le trentatrè poesie da consegnare a Ettore Serra, e che quelle poesie non vennero ordinate casualmente, ma organizzate in un iter di lettura fondato su precisi criteri, in cui l’elemento cronologico non era intoccabile, come con attenzione dimostrano queste pagine. La peculiarità di Tassoni è anche in una scrittura che è tecnica ma nel contempo narrativa e metapoetica. Da qui la proposta di complicità nei confronti del suo lettore, per cui il testo-enigma si trasforma in una progressiva e avvincente epifania che esalta il piacere e il fascino dell’investigazione, e ci fa comprendere, tra le altre cose, il perché di quella disposizione delle poesie in Porto sepolto. Egli stesso nei diversi capitoli parla di ipotesi investigative, illuminare la scena della sparizione, tracce di occultamento o presunto omicidio. A dir poco intrigante è il capitolo dedicato a Montale e al suo rapporto con Arletta, la giovane frequentata dal poeta di Monterosso dal 1919 al 1923, il quale, per tutta la vita, cercherà, con un meccanismo di rimozione, di coazione a ripetere, di uccidere, interrare, nascondere, camuffare, per poi riesumare, rievocare, resuscitare. Dimenticarsi per poi ricordarsi, e quindi ridimenticarsi, ma mai direttamente: è un gioco di specchi di grande raffinatezza, dove la memoria e le tecniche evocative giocano a rimpiattino, coinvolgendo anche la mente del lettore. Il Lago di Annecy, nel Diario del 1971, è paradigmatico di quanto il processo sinaptico punti non alla necessità di recuperare un elemento quanto al valore e al senso del nascondiglio, che diventa il vero elemento d’attenzione poetica. L’analisi di Tassoni è, a questo proposito, di grande suggestione: Il lago di Annecy è una poesia su un ricordo indiretto. La protagonista non è legata a un incontro con il poeta, ed è il luogo, il lago, che scatena il ricordo di una visita, durante la quale il poeta, per assurdo, non ricordò la donna. Ovviamente il poeta «non sa», perché ciò sia avvenuto. Tassoni ci spiega «la cattiveria di Montale» e perché gioca con la memoria, come trappola, e con gli oggetti di cui si circonda per triangolare il ricordo: nascondere per ritrovare; occorre un medium, in questo caso la fotografia di un lago. Passato e presente, affermazioni e negazioni, affioramenti e affondamenti rendono particolarmente intrigante e paradossale l’analisi di questo testo che ovviamente rinvia ad altri testi, in un gioco allusivo e meditato di rimandi e collegamenti appena accennati, e per i quali occorre un attento detective. Fra l’altro, il tema della cosa perduta diventa oggetto di riflessione, con il suo portato coinvolgente, tragico ed enigmatico anche nell’analisi delle carte di Giorgio Caproni soprattutto per comprendere, a livello embrionale, la poesia Res amissa, eponima del libro del 1991. Qualcosa di prezioso/essenziale viene conservato così gelosamente, da dimenticare il posto dove è stato riposto. L’analisi è giocata sulla relazione tra il dono e la sua perdita. Non solo si è perso l’oggetto, ma si è persa anche la memoria dell’oggetto, e le lacune della memoria diventano sulla pagina una serie di puntini sospensivi. Le pause per Caproni, appassionato di musica, sono di fondamentale importanza, per la costruzione del ritmo che procede per richiami a distanza di suoni o gruppi di suoni. Non conta sapere cosa sia la cosa persa. Ciò che conta è l’effetto della perdita nonché l’effetto dell’eventuale ritrovamento; ciò che conta non è il possesso o il recupero memoriale dell’oggetto, ciò che conta è il valore dell’irraggiungibilità, anzi l’indicibilità. Mentre per la maggior parte degli autori contemporanei cercare il nascondiglio ha molta più importanza che ritrovare ciò che è nascosto, la poesia tragica di Calogero punta a una presenza, femminile, a un fantasma che deve essere sottratto dall’anfratto in cui si cela. Non è un’immagine del ricordo, ma qualcosa che emerge dal luogo della poesia, dalla parola, dalla fantasia personale, di fronte a una sorta di interlocutore muto. La scrittura di Lorenzo Calogero, come in un quadro di Pollock o come in un assemblage di Rotella, assorbe elementi della realtà, altre voci, schegge sonore e visive, e varie suggestioni che vengono riplasmate nel corpo della poesia. La vita, ci suggerisce Tassoni, è nella scrittura, nel farsi, nell’autonomia del linguaggio che scopre la sostanza fonoritmica. In Il gioco infinito della poesia trova spazio l’attenzione sia alla grande lezione europea contemporanea, sia alla poesia dialettale che, forse per prossimità linguistica, mi consente di risentire quel rumore di fondo che rumina dentro come una cantilena, forse per le immagini proiettate sullo schermo senza fine di una dimensione atemporale, dove tragedia (fondamentali i capitoli dedicati a Zanzotto e De Angelis) e fiducia nella vita si fondono nella culla della parola poetica. Ne parla Tassoni a proposito del ritmo incantatorio del maggiore poeta calabrese, Achille Curcio, e in modo particolare nella lettura di Sonni, dove ritrovo l’espressione delle nostre nonne, «’u cerveddhu sbacantatu d’amuri» (il cervello svuotato d’amore), che come un mantra ripetevano, e che io ho sentito nell’espressione «tené u sintiment», indicando quella lucidità della mente, pur nella senilità, che ancora riconosce gli affetti. C’è qualcosa di fortemente razionale in quel «sentimento», che va al di là del significato in lingua italiana, e che nel suo etimo più ancestrale fonde la capacità di sentire, di percepire, di emozionarsi, con l’essere vigili e consapevoli delle proprie azioni. Il cervello svuotato d’amore, non è cervello, non è vita. Così come, lo dimostra il libro di Tassoni, il lettore di poesia impara che passione e competenza non possono essere scisse. di Biagio Russo ¬ top of page |
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