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IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 104-105 (scarica il pdf)

MILO DE ANGELIS, Linea intera, linea spezzata, Milano, Mondadori (Lo Specchio), 2021, pp. 108, € 16,00.


Il tempo è l’imperfetto, il tema è il ritorno: delle ombre degli esseri amati, e dell’io alla memoria di quelle ombre. Lo dicono, esemplarmente, i versi finali di Piscina Scarioni, ai tre quarti della terza sezione del libro: «Dovevo ritornare, lo so [...] dovevo tornare / per un oscuro richiamo dei luoghi [...] per conoscere / ciò che mi aveva già conosciuto» (pp. 64- 65). Il tempo è l’imperfetto, l’aura è quella purgatoriale. Non saprei come definire più esattamente l’atmosfera dell’ultimo libro di Milo De Angelis, tutto immerso in un mondo di mezzo, fatto di nebbie e di parvenze, di viaggi e ricordi, in un tempo presente che continuamente si nutre di passato, inclinando verso ciò che è stato e ancora riaffiora, prima di compiere il tuffo finale. Come il regno di mezzo dantesco, culminante in quel paradiso terrestre in cui l’uomo è già stato, e a cui Dante torna prima che l’umanità tutta lo abbandoni nella prospettiva escatologica, la Milano di questo libro è il giardino – hortus di sguardi, voci e presenze – a cui l’io ritorna dopo un lungo periplo, accarezzando le anime che vi riaffiorano, prima di consegnarle al loro destino di oblio.
«Conoscere ciò che mi aveva già conosciuto» è una delle cifre di Linea intera, linea spezzata, e del suo modo di riunire allo sguardo (la linea intera) i segmenti di ciò che sembrava consegnato al vissuto (la linea spezzata). Conosciamo bene le funzioni profonde, strutturanti, della figura della ripetizione nella poesia di De Angelis, con le sue sovrapposizioni di poliptoto e circolarità temporale (come nel «silenzio frontale dove eravamo già stati»). Qui la ripetizione si allarga da cifra stilistica a tema. Non c’è esplorazione di mondi nuovi o di futuri, e neanche, a dire il vero, un’autentica rammemorazione: piuttosto la ri-presentazione di un tempo che già l’io sapeva, senza averlo mai conosciuto veramente; un riconoscere che poggia, innanzitutto, sui percorsi misteriosi del viaggio della memoria: «Ogni cosa cammina oscuramente per le strade / prima di apparire» (Settima tappa del viaggio notturno).
La prima poesia del libro, Nemini, è un pezzo memorabile. Sono versi toccati da una grazia che può capitare in sorte solo a chi ha trovato una sua voce da molti anni, una voce caratteristica che qui appare modulata nella perfezione della lingua e del ritmo, fino all’esattezza dell’a capo – l’istituto forse più arduo nella poesia libera da vincoli formali. Il primo verso disegna tutto il tragitto della coscienza nel libro («Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere»), quel movimento che si compie in un luogo e in un tempo noti alla percezione, ma non alla coscienza («in un tempo che hai misurato mille volte / ma non conosci veramente»), in una casualità, quella del tram numero quattordici, che diventa destino («e sei destinato a scendere»), proiettando l’ombra della fatalità della nebbiosa iterazione dei giorni. 
Alla meccanica, opaca fissità dello sguardo che trascorre sulle strade urbane si sostituisce una vista orientata («osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato»), alla quale si disvela la profondità dello spazio memoriale («l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo»), improvvisamente aperto a un’altra dimensione: «Tutto è come sempre / ma non è di questa terra e con il palmo della mano / pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono / sulle rotaie». E quando, in questa dimensione mediana, purgatoriale, che accenna a un altrove pur conservando le fattezze terrestri, accade di far cenno «a lei», anche quel cenno assume le sembianze di un tempo ulteriore: «fai con la mano un gesto / che sembrava un saluto ma è un addio».
Il libro intero si apre all’insegna delle immagini qui inaugurate. La realtà urbana non è più quella della fioritura giovanile di Somiglianze, della crescita e dell’apertura, della conversazione e delle relazioni. È, invece, una realtà aliena e alienante, in cui viene improvvisamente a mancare quella dimensione di familiarità a cui erano improntate strade, insegne e panchine negli anni Settanta: «Qui tutto diventa veloce, troppo veloce, / la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia / che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura» (Sala Venezia). 
L’iterazione è la cifra stilistica che sorregge la voce: al doppio «hai paura» in punta di verso corrisponde (risponde) il doppio «ti acquieta», «ti acquietano» della sala in cui al familiare panno verde del tavolo da biliardo è affidato il compito di sostituire, nella dimensione chiusa e raccolta, quel prato – quell’‘aperto’ – che non c’è. Anche la vista Dal balcone coglie la dimensione vicaria delle forme urbane, «l’infilata dei grattacieli che sembrano / una barriera corallina», perché i paesaggi da cartolina, da vacanza fuori luogo (la barriera corallina) sono il lato menzognero di una vita, la nostra, che ha in realtà solo i profili dei palazzi a intercettare perennemente lo sguardo; e quel possibile squarcio di altrove (ancora la barriera corallina) non serve che a sviare solo di sfuggita uno sguardo che è poi perennemente destinato a invischiarsi nelle rappresentazioni di sempre, sempre circolarmente chiuse nei gesti consueti: «e guardi lì sotto il bar aperto, l’uomo con l’impermeabile / mentre racconta una storia sempre uguale / alla ragazza vestita di rosso che beve / dallo stesso bicchiere e sorride lievemente».
L’aura purgatoriale, si diceva. Il «lago pietrificato» della città (Azzurra) ha «tetti impolverati» (Dal balcone) da quella «polvere diffusa / che ci avvolge e ci fa muti» (Comunità incontro), vetri resi opachi dal vapore che la mano terge, «soffi di vento» che spingono verso il parco (Prima tappa del viaggio notturno), ed è il teatro, grigio, di incontri che accadono «sotto il temporale, nel parcheggio» (Azzurra), e soprattutto dei replicati silenzi della solitudine (La galleria degli specchi: «Tu entri nella galleria / degli specchi e sei solo, nessuno ti aspetta all’uscita»; Scrutinio finale: «e tutto è silenzioso nei corridoi, / tutto è silenzioso per sempre»; Matita blu: «e iniziò la lunga notte silenziosa»; 21 settembre: «E lei cadde in un’isola segreta, remota, irraggiungibile»; T.E.C.: «e ti bisbiglia “tra poco scorderai, / scorderai queste parole, scorderai tutto / di te stesso”», con tante altre occorrenze).
Destini sospesi, aure, ombre, vite immerse in tempi incompiuti popolano il viaggio dell’io, il cui culmine, anche stilistico, è rappresentato dalla seconda sezione. Le Nove tappe del viaggio notturno sono nove stazioni di un itinerario dominato dal tu di una (ri)narrazione fatta a se stesso per certificare la verità del viaggio, come nel memorabile avvio di Tema dell’addio («Contare i secondi [...], vederti / scendere dal numero nove [...]. / Questo è avvenuto [...], certamente / è avvenuto»). Avvio orientato (Prima tappa del viaggio notturno: «Hai guardato i quattro punti cardinali / e sei andato verso est») e visitazione di ciò che sta al margine, smarrito (Seconda tappa...: «E poi li hai visitati tutti, uno per uno, i cinema sperduti / nelle periferie»), preludono a un ritorno a ciò che non se ne è mai andato, perché mai ha avuto un senso definito (Terza tappa...: «Ricordiamo, ricordiamo esattamente. [...] Lei era lì e ti aspettava. Non sapeva / nulla di te, ma ti aspettava»), e che non ha la forza di arrestare il viaggio dell’io, proprio per l’indecidibile statuto di verità che lo increspa. E dunque, ancora: «Sei entrato in un’immensa maratona» (Quarta tappa), «Hai camminato e sei giunto in una grande sala» (Quinta tappa), «Cammini stasera verso le risaie della Barona» (Sesta tappa), fino a estendere quel movimento orizzontale, non gerarchizzato e quindi potenzialmente in-significante, a tutto ciò che si muove nelle brume d’intorno: «Ogni cosa cammina oscuramente per le strade...» (Settima tappa). Nelle ultime due stazioni del viaggio, le diafane presenze che si fanno incontro all’io convergono verso uno sprofondamento verticale insieme allo sguardo di lui, come per acqua cupa cosa grave, e davvero dantesca è l’immagine della Penultima tappa del viaggio notturno: «Poi entri nella piscina da una rete sgangherata, / ti immergi tra le ombre che si affollavano di giorno, / comprendi che questo è il momento. / Il prima e il dopo convergono in sasso. Tu / lo scagli laggiù, nel grande sonno delle acque, / dove scompare il tuo nome lentamente». Il vanire del nome e del sasso preludono al silenzio oscuro che penetra nell’anima dai luoghi, e che riconduce alla morte da cui sono stati toccati – anzi ai morti, perché non esiste pensiero di vita o di morte separabile dal pensiero di coloro che sono morti e vissuti: «intoni l’ultima nota di un’immensa sinfonia, / con la voce di tutti gli affogati».
Il resto del libro si muove tra incontri che sono come il riemergere di volti dalle nebbie del tempo, come frammenti di restituzione di vita alla vita (Autogrill Cantalupa: «l’ho incontrata [...], l’ho incontrata / ed era ancora lei, la prima creatura amata sulla terra»; Pensione Iride: «Qui ho incontrato Federica, che usciva silenziosa / dall’ingresso»; Tra gli autobus di Lampugnano: «l’ho trovato qui, l’amico delle feste lussuose»), ma la domanda che aleggia su ogni volto e su ogni memoria rinnovata è ancora quella che chiude le Nove tappe del viaggio notturno: «E voi, compagni / di una scuola vicina all’ultima stazione, quando / siete scesi, quando siete / scesi nel bianco precipizio?»


di Sabrina Stroppa

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