« indietro IN SEMICERCHIO, RIVIST DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 105-107 (scarica il pdf) GIANNI D’ELIA, Il suon di lei, Roma, Sossella, 2020, pp. 190, € 15,00 Certo, può piacere o non piacere l’ultimo libro di D’Elia, Il suon di lei. Circolando una certa standardizzazione, dei modi come delle opinioni, D’Elia non pecca però di conformismo. Né per le scelte di stile e di poetica, né per le prese di posizione sulle vicende recenti. Senz’altro una voce fuori dal coro. E forse per questo Il suon di lei non è piaciuto a Einaudi, l’editore di sempre. In coda al libro Il tradimento dello Struzzo mette a tema la questione, sul piano politico (la «censura») e della linea editoriale: «Promuove stonati e ignora il canto / E liquidando la poesia con la prosa / Della bianca collana uccide il vanto». Poesia non lirica – anche se adoperata come chiave la formula rischia di semplificare il senso del libro –, resiste all’abuso del discorso lirico che si dà per negazione come della prosaicità. E non rinuncia, all’occasione, ad essere poesia sgarbata, stridente.
Questo è vero sempre per D’Elia, acquista però un rilievo davvero imponente con il volume ricapitolativo del 2010, Trentennio, che comporta un ripensamento di tutta l’opera; la poesia è il luogo di un bilancio, storico e politico, ma anche biografico e generazionale: basti pensare al richiamo alla gioventù tradita, o nel Suon di lei alla «gioventù da sempre sconfitta» (Al giovane Giacomo). È un bilancio che nell’ultimo libro spinge la tensione fra il soggetto e la storia fino ad affacciarsi sul punto di non ritorno: «Non fosse la paura che ci fotte / Basterebbe buttarsi dentro al mare / Per sfuggire al controllo e alle ansie a frotte / Facendola finita col campare» (Aria del Dopostoria). Nel tempo presente l’orizzonte del negativo storico sembra chiudersi su ogni prospettiva. Si avverte «Lo scricchiolio del mondo che frana» (Lo straccivendolo): e il mondo di cui parla D’Elia è quello prodotto dall’uomo, che nella Pesaro di D’Elia si riconosce nella costa violentata dal cemento e nel mare invaso dalla spazzatura. La scrittura che ne scaturisce è risentita, non però apocalittica, come invece spesso accade. Tantomeno sprofondata nel più cupo nichilismo. Anche se storicamente ci troviamo confinati «Nel tempo dell’indesiderabile / Reso nostro folle pane quotidiano» (La figlia del sole). Non sembra essere fortuito che un ‘se’ apra il verso e il giro di frase della quartina – ripetutamente nel libro e all’interno della stessa poesia: Ubi amor ibi oculus est o Mater Maris. È un 'se' di dubbio, che formula interrogativi e ipotesi, che soprattutto cerca di riaprire una prospettiva sul mondo e sulla funzione residua della poesia forzando la coltre opaca della storia: «Se fino all’ultimo respiro la costanza / Come del verso e del dettato / Più della rabbia e più della speranza / Son gli eroi del poeta onorato e ignorato» (La Soletudine). Il discorso intenzionalmente non chiude, resta sospeso, destabilizzando ogni formula rigida in una catena di ipotesi. In realtà Il suon di lei non è il documento di una sconfitta, o se lo è storicamente come esito di una generazione che ha fallito a cambiare il mondo, non lo è affatto sul versante agonistico della poesia. È un agonismo che si traduce in versi irti, che non fanno sconti al lettore, reagendo alla comunicazione rapida, elementare se non banalizzante, cui ha abituato la massificazione del linguaggio. Impervietà e sospensione del discorso costringono il lettore a ritornare sui suoi passi, per capire dove ha perso il filo nel verso e nelle quartine, governate da una sintassi che sembra implacabile, e nello stesso tempo fluttuante per la totale assenza di punteggiatura. Nessuno sperimentalismo (anzi ogni tentazione sperimentale è fuori gioco), semmai una scrittura che sceglie la via della complessità e nella complessità del discorso che si sgrana, rispetto a quella della semplificazione e dello slogan, rigettando l’approdo a una lingua povera e compatta che è l’esito orwelliano del capitalismo avanzato. È una lingua che si fa anche scelta morale e politica, decisamente in controtempo Lessico arduo e inconsueto – quando non vero e proprio neologismo – e densità di immagini, metafore concatenate sembrerebbero alludere alla poesia barocca; in realtà più che il barocco – eventualmente d’Annunzio in qualche tratto: la testa di Orfeo in Mater Maris – Il suon di lei sembra risalire al Dante petroso: «Compiendo il grande cerchio / Degli anni alla deriva», Tema del libretto, o «Sotto la volta azzurra al gran mosaico», Di foglie larghe dentro al verde bruno, ricordano Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra; o a quello dell’esilio: Tre donne intorno al cor mi son venute parrebbe indicare la postura che D’Elia assume a petto della storia. Non è un caso – a conferma della pista – se, per il gioco delle rime, le quartine spesso finiscono per rammentare le terzine di Dante. Il suon di lei si costituisce in una lingua difficile e compie anche una consapevole scelta di campo. A fronte del rifiuto della tradizione da parte di molti suoi coetanei, D’Elia assai per tempo ha riattivato un dialogo e indicato dei modelli. Di poesia civile innanzi tutto: Pasolini e Fortini. Ma non solo autori civili, e non solo italiani, se pensiamo all’allusività di un titolo come Fiori del mare, 2015. In Il suon di lei l’escursione si allarga da Dante, e prima di lui Guinizelli, Petrarca, e poi Manzoni, a Caproni, Penna, Pasolini, frequentissimo, Rosselli (ma come personaggio del Tradimento dello Struzzo), Montale, Bertolucci: una presenza non scontata ma significativa quest’ultima. E ancora Baudelaire, va da sé. Leopardi, fin dal titolo, ha un ruolo chiave nell’architettura ideologica del libro, anche più della partitura musicale del libro in quattro Atti, un’Ouverture, un Interludio e un Aprèslude, e dei richiami alla poesia come canto. A volte le citazioni si propongono quasi a mosaico: «Nel tanfo che sale dagli arsi tombini / Prima che sgrondi dai grandi otri divini» (Gioco d’autunno) fa convergere il primo coro di Adelchi, La bufera di Montale e forse L’otre di d’Annunzio (Alcyone). In Stimmung del Medio Adriatico troviamo il personaggio di Leopardi riletto attraverso Bertolucci (Il poeta e la sua città, La capanna indiana) e l’ultima parte della poesia è una riscrittura della Ginestra. Il suon di lei imbastisce interferenze multiple, che possono essere giocate sul pedale dell’ironia: «arsi tombini» (in rima con «divini») non è l’unico caso. Non si tratta di un’operazione manieristica. E non solo perché questa lingua è in urto, dissonante, con la lingua della modernità. In Il suon di lei la sua presenza costituisce una scelta risentita, in opposizione alla deriva trivializzante dell’universo digitale e alla semplificazione della ‘neolingua’ (e della poesia che vi si adegua): «Molto meglio passare da isolato / Nella stratosfera delle antiche forme / Sembrando un vecchio autore attardato / Che assentire all’ignoranza delle torme» (Consigli del Maestro in sogno). La tensione citazionale rappresenta dunque un appello alla poesia, il riconoscersi dentro una lingua nella sua intenzionale inattualità come forma dell’opposizione alla «dittatura» dei meccanismi omologanti del capitalismo avanzato che dominano la comunicazione nel tempo presente. Alla condizione attuale della poesia – «Banalità sublime e oggidiana / Giochetti teppisti e piatto grigiore / Lirica vana e pseudolirica sovrana» – D’Elia oppone fermamente: «Non è finita no la Poesia è altrove» (Consigli del Maestro in sogno). Nel Suon di lei – non a caso L’infinito, dove scatta la compenetrazione fra il soggetto e il mondo – la scrittura poetica trova una perfetta corrispondenza con il movimento delle onde sulla battigia: «La tua parola nel mondo s’intrida / Pari alla bianca e salata saliva // […] E su quel piano inclinato la riga / Della lingua che risuona si scriva» (Consigli del Maestro in sogno). Forse è superfluo rammentare la comune matrice marchigiana: Pesaro è il luogo per eccellenza del Suon di lei, come Recanati lo è per tanta poesia di Leopardi. Non certo per il Leopardi vesuviano della Ginestra, per il Leopardi dell’Infinito. Dunque non solo l’ultimo, quello nichilista e contestatore degli anni Trenta, ma l’altro, il giovane poeta degli Idilli. In modo sorprendente, per questa via D’Elia sembra ritornare alla sua prima raccolta, Non per chi va, 1980, e recuperarne la dimensione autenticamente lirica (ecco perché il discorso su D’Elia e la lirica non si risolve con una formula semplice). È l’altra faccia della contestazione del dominio capitalista sulla storia e sul presente. Rappresenta l’aspetto affermativo della poesia, quello che sottrae la parola e la scrittura al controllo ossessivo della storia e del potere ricollocandola in un «altrove». È un altrove fermato nello sguardo di chi non giudica e non deve dichiarare una sua posizione, fuori come siamo dai vincoli della storia: «Se inchini la testa e l’occhio avvicini / […] // Vedrai» (Al vivente Vincent); oppure in una fotografia: «Ci vorrebbe un fotografo di vita» (Strada fra i due porti). La percezione del flusso del tempo naturale si fissa in eternità: «In quest’eterna mattina della vita» (Il messaggero Raqqâ?). Non si tratta di memoria, ma di un presente offerto per sempre: è in questo contesto, in cui la poesia cattura nelle sfumature dei colori il tempo, che accanto a Leopardi si avverte la presenza essenziale di Bertolucci. Non sembra casuale che Il fantasma della Benelli – il museo che era stato la fabbrica di moto – termini con l’immagine di un viaggio: «Verso l’Isola Beata e l’infinito // Scordando la nausea d’una storia infida / E di natura l’orrida ferita» (La Reazione attraverso gli astri). Come non sembra un caso certo neopaganesimo che circola nel libro (l’Inno a Protogono e altri rimandi agli Inni Orfici). Il suon di lei è poesia civile, di opposizione, contestataria, ma in questo D’Elia avverte un limite (e anche un’impotenza) rispetto alla violenza del capitale; forse anche un pericolo, ovvero vedersi costretto a parla la lingua che l’avversario ci impone. Anche se da oppositore. Il che rappresenta il pericolo più grave: parafrasando il Vittorini di Industria e letteratura, non avere una lingua per dominare i processi, ma rimanere prigionieri della lingua dei processi. Perciò Il suon di lei non è solo un libro di poesia civile – in effetti D’Elia avrebbe ripetuto ancora se stesso, ma non lo ha fatto. Più degli altri suoi precedenti, Il suon di lei è un libro dell’altrove: non la giovinezza rimpianta perché tradita, ma la giovinezza che sulla spiaggia di Pesaro si fissa salvata per sempre nello sguardo che la registra. E in un orizzonte liberato dalla soggezione ad ogni forma di potere. di Stefano Giovannuzzi ¬ top of page |
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