« indietro IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) pp. 107-108 (scarica il pdf) TOMMASO DI DIO, Verso le stelle glaciali, Novara, Interlinea (‘Lyra giovani’), 2020, pp. 158, € 12,00. Un Blackhole, non un viaggio questo Verso le stelle glaciali di Tommaso Di Dio. Un testo che rischia di essere frainteso fin dai suoi primissimi connotati: «Quattro itinerari – ci confessa Di Dio – compongono questo libro. Ognuno, per vie diverse, conduce senza dubbio alla stessa destinazione, sebbene essa non sia nel medesimo luogo». Poema del viaggio, viene subito da pensare, considerando anche un paratesto fitto di mappe e luoghi, o le quattro sezioni dove spuntano, insieme agli altri elementi, le strade, la caverna, il mare e il vento. Ma prima, subito, questo titolo. Che cosa sono queste stelle glaciali che sembrano tornarci alla memoria dalle adolescenziali letture di Verne? Non esistono, ce lo certifica anche l’autore in nota. E quella locativa iniziale, verso, è parola tanto polisemica da fare arricciare il naso al filologo meglio intenzionato. Il viaggio, allora, parte male fin dal rullaggio.
Una grande varietà di segni abita queste pagine. Ci sono le poesie, certo, ma anche le immagini (una o più accompagna ogni mappa), poi le note, le dediche, i rimandi. Una serie di cavi inestricabili, in un apparato atto a costituire un automa luminescente. Il libro, appunto, dove il viaggio, se esiste, è solo il pretesto per parlare degli umani inseriti nell’elemento urbano, «protagonista – come afferma Massimo Del Prete – è il genere umano ma campionato attraverso brevi scampoli di vita di persone senza nome». Delle vite individuali che riescono a farsi, nel testo, esperienza collettiva: «nessuno qui / si toglie il cappotto; hanno / freddo questi umani». Volutamente ambiguo e polisemico è il percorso sotterraneo della poesia di Tommaso Di Dio fitto com’è di coreferenze e rimandi interni, di radici filosofiche e classiche, di ammiccamenti al misticismo e all’antropologia, all’archeologia. Tutto è però svincolato dal concetto di tempo e spazio, universali che qui sembrano perdere forza, non incidere sulle cose, non piegarle ai propri voleri: agevolmente passiamo dall’animale ferito agli uomini di Lescaux, alla madre allontanata dal figlio nato prematuro in un ospedale bolognese. È sempre la stessa vita, sempre lo stesso umano, solo che qui il tempo, reificato, ridotto a elemento del paesaggio, sembra passare intero dalle retine dell’autore «perché anch’io infine veda / e senta/ interamente questa che sento e vedo / canzone della terra». Di Dio elabora una voce antropoietica capace di muoversi tra ciò che vive. Così che ogni oggetto, l’utensile del paleolitico, il vento, il cielo e il volo, si pieghi a una grammatica nuova, respiri solo dei polmoni dell’ospite, possa staccarsi dalla pagina significando altrove. È stato il critico Bernardo De Luca ad affermare per Di Dio che «la parola, ogni volta che tenta di dire il mondo, non può che farsi favola, mito». L’autore pare voler mettere in opera il mondo (verso, questo, tratto da una sua poesia della raccolta precedente) aderendo alla radice prima della societas perché, di nuovo con De Luca:«i miti fondativi sono, storicamente, sempre tragici e collettivi, per cui l’autore posiziona la sua direttrice di scavo in quei territori dove, quasi certamente, è possibile scoprire le rovine dei nostri traumi passati». Il testo porta in scena una favola dell’umano, un mito, autentico perché non simulato ma agito, scomposto in quattro intrecci i cui percorsi si riducono tutti ad unico centro: l’uomo. L’uomo tramite le sue “cose”, le sue geografie e sofferenze. Possiamo parlare, a questo proposito di quel simbolico a cui si rifacevano Goethe e Kerényi, cioè ciò che «corrisponde perfettamente alla natura e per cui mezzo è il mondo che parla di se stesso». Ma se mito collettivo deve diventare, la poesia deve trovare una lingua in grado di tradurla al dettato comune. Quella di Tommaso Di Dio, parafrasando un’idea della poetessa Carmen Gallo, sembra poesia tradotta da un’altra lingua. E questa frase assume un doppio significato: sono testi davvero ben comprensibili (come spesso lo è la poesia in traduzione). Ne viene fuori una sequela di testi in italiano standard, incardinati su una metrica volontariamente barbara, dove la quantità, il tono e la voce (anche a causa di una vecchia militanza teatrale) comandano sugli accenti. Riportare il dettato nel suo asse di significanza, questo sembra voler fare Di Dio. Ma anche riportare la poesia alla sua natura di esperienza, la parola di nuovo in bocca ai fonatori che l’hanno prodotta. Il testo è strutturato per trascinare altrove il lettore, per farlo muovere nell’altro da sé e questo lavoro finisce per spersonalizzarlo, per renderlo (o forse per riportarlo a essere) medium. Tutto rimanda ad altro, ma quell’altro è già previsto e trattato all’interno del meccanismo. Un marchingegno, un labirinto, come lo stesso autore precisa, la cui risoluzione sta nell’Atto di sollevare lo sguardo e guardare la realtà attraverso un inesausto lavoro di ascolto dei linguaggi: libro, aperitivo, metropolitana, luoghi dove si incontra la parola pronunciata. Le parole degli umani. Gli umani nel mondo. Il mondo fra i mondi, senza tempo né spazio. Il testo si muove tra coscienza umana e panorami siderali: «Io / Verso le stelle glaciali». Capitale in questo senso quella che il già citato De Luca chiama teoria della ricapitolazione una costante nell’opera di Di Dio dove si legano «i momenti del tempo presente e futuro come ripetizioni di rese ai tragici fondamenti del passato, affinché ne sia riconosciuto, paradossalmente, il loro essere vivi», tutto questo concorre in Di Dio a «trasformare, in definitiva, l’”essere stati” in “siamo”, l’esperienza passata in esperienza presente». Esempio perfetto è la poesia Un uomo entra, nella seconda sezione, qui due linee temporali si pongono, apparentemente, parallele tra loro: un uomo legge la notizia di una aggressione al malato che assiste: «Un uomo entra / per ragioni oscure, oltre la porta scorrevole / del supermercato» e dopo i Sapiens che sulle pareti di Lescaux pongono insieme le mani a formare la figura di un uomo. Qui la caverna è da intendersi come luogo di nascita dell’elemento culturale: l’uomo dipinto è la perfetta unione della preistoria e della storia tramite il rituale: «Per ragioni oscure / in fondo a tutto questo; sulle pareti di pietra / e con milioni di mani / è stato dipinto un uomo». E questo rituale qui agisce da elemento unificante, da navicella interspaziale. È lui infatti a spezzare le linee temporali e a portare gli uomini del nostro tempo dentro la caverna e quegli altri sapiens qui fuori al sole di giugno. L’itinerario di Di Dio è strutturalmente arbitrario, continuamente uno e multiplo, perché il viaggio, come nel blackhole che qui suggeriamo, non porta da nessuna parte o meglio, riporta costantemente nel luogo in cui tutto accade che è l’orizzonte degli eventi dove futuro e passato crollano veloci verso l'infinito. Nel buco nero il lettore è posto al centro, dentro una valle così profonda da fermare del tutto lo scorrere del tempo e l’autore invece si bea, osservando ora la stella congelata (glaciale?) ora l’orizzonte degli eventi, sicuro che il tempo scorra a velocità infinita: «e questo io / che ci ostiniamo a scrivere io // che è solo un buco». La contrazione la vediamo bene, di nuovo in quella seconda sezione, quando l’uomo malato, nella poesia finale si alza, esiste un tempo prima e dopo e durante l’esistenza di quell’uomo che riacquista coscienza, che riappare: è lui, di nuovo lui e parla e guida altri uomini vaticinando informazioni sensibili e geografie di un mondo metafisico: «Infine si alzò dal tavolo / e ci mostrò una strada che andava verso il basso. / E disse: noi ci perderemo». di Giuseppe Nibali ¬ top of page |
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