« indietro IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) p. 111 (scarica il pdf) FRANCA MANCINELLI, Tutti gli occhi che ho aperto, Milano, Marcos y Marcos, 2020, pp. 144, € 20,00. Libro compatto che si articola lungo otto stazioni che alternano poesie e prose, Tutti gli occhi che ho aperto è la silloge della maturità di Franca Mancinelli che porta a compimento un percorso dialettico che, dalle prime prove di Mala kruna (2007) fino alle più recenti di Libretto di transito (2018), ha cercato di mettere in comunicazione la dimensione fisico-materiale dell’esistenza con un piano metafisico che lambisce un’idea di trascendenza (laica), secondo un’idea di poesia lirica che trova la propria totalità nella compenetrazione tra l’uno e il molteplice, tra l’unità del soggetto (l’identità, forte, tra io lirico e io empirico) e la pluralità fenomenologica del mondo. Tale postura si riflette apertamente nella scelta del titolo – anomala rispetto a una paratestualità contemporanea che predilige forme sintetiche duali (spesso inconsultamente a effetto), ma che esprime in maniera particolarmente efficace la tensione del soggetto a esplorare il mondo attraverso il proprio corpo e ad accogliere il mondo, nella sua totalità, nel corpo, come del resto si avverte già nelle epigrafe posta alle soglie della prima sezione (Jungle): «non può disperdersi / si ricompone a ogni svolta / come uno stormo in viaggio» (p. 7).
L’immagine di una dispersione delle cose che si ricompongono attraverso il viaggio dell’io esplicita l’intero movimento della raccolta, le cui stazioni, in realtà, per via della ricercata uniformità tematica e linguistica, possono essere lette come frazioni indipendenti del libro, come vere e proprie microstorie costruite lungo una serie di eventi che restituiscono al lettore frammenti di vita quotidiana (passata e presente) del soggetto: «È questo il mondo, un frutto spezzato / a colazione, il cerchio della tazza / specchio che si apre / su un prato, una coperta / a contenerci come un’isola / da cui non siamo nati» (p. 22). Questi versi conclusivi della prima sezione mostrano, per l’appunto, come una situazione statica quale può essere il momento iniziale del giorno (la colazione) si carichi di un potenziale dinamico grazie agli atti (ripetitivi) dell’io, a partire dai quali si può aprire una nuova rotta, al di fuori dell’isola, che allarghi l’orizzonte conoscitivo del soggetto attraverso una scoperta, inedita, dello spazio: «La superficie si infrange nascendo – la sfioro. Il cielo ha l’odore della mia linfa. Ho circoscritto me stesso. La mia maestosa statura» (p. 32). E, ancora, «tutto l’andare è tornare, / un fascio di legna raccolta. / La sua fiamma mi schiuderà le mani»: anche il lettore meno attento, leggendo la raccolta, si accorgerà che il canto dell’io è, soprattutto, un moto che procede lungo due linee di forza, una centripeta («Spezza la chiave / inverte l’ordine di ogni parola», p. 42), l’altra centrifuga («lentamente trapasserai / il tuo bersaglio nel buio del cosmo», p. 48), in attesa di trovare un punto di equilibrio dove i «gesti», gli atti linguistici e performativi del soggetto «ricompongono una lingua» che «allaccia al mio corpo un’armatura» (p. 55). Come in Pasta madre, Mancinelli si affida a una parola che è in perenne metamorfosi, non tanto sul piano stilistico, ma piuttosto su quello formale: i «frammenti di un dio» (p. 75), le tracce di un passato ancora presente nel mondo degli umani, mutano i significanti, chiedono alle parole di prendere le forme dei corpi che le pronunciano («a cospetto del vuoto / non posso fare altro che chiedere / di somigliarti e fonderti», p. 73), producendo una vera e propria fusione tra soggetto e mondo: « – da queste ceneri», leggiamo nella decisiva, e centrale, 13 dicembre, «ti sto versando la voce» (p. 78). Non c’è, in Mancinelli, una voce senza corpo, e la parola, per poter esistere in questo imprescindibile connubio tra atmosfera (Stimmung) e presenza (Präsenz), deve essere disposta (come il soggetto) ad aprire i propri occhi, a essere «corpo e sangue» (p. 93), «pagine di cartilagine», «un’ombra nel sangue» (p. 94). Se già nei territori onirici esplorati da Mancinelli nel Libretto di transito la tensione metamorfica della parola e dei corpi costituiva il punto nevralgico del testo, Tutti gli occhi che ho aperto potenzia ulteriormente tale meccanismo, sfidando le potenzialità enunciative del linguaggio («ci sono intere colline di occhi / spalancati alla luce, / per non impazzire li ho colti / e guardati in un vaso», p. 105), facendo propria la lezione del mondo naturale: «la terra, una pagina scura: / ciò che cade si scrive / frantuma e sgrana / nel buio raggiunge / il senso, si perde» (p. 107). Eppure, in questa compenetrazione tra corpo dell’io e corpo del mondo, il senso delle cose percepite e il senso delle cose esistenti sembrano cadere in una strada senza uscita, di cui nemmeno lo sguardo del soggetto è in grado di cogliere un percorso alternativo: «come sono arrivata qui, non lo so. Qualcuno mi chiede un biglietto. Chiudo gli occhi. Il treno continua a scorrere, lentissimo, attraverso il buio – ripeto una sola frase – fatta suono, soffio. Questo respiro che mi attraversa chiede di avere corpo. Chiede di avere luogo. O transitare nello spazio tra gli occhi, intercettato dai più piccoli e buoni animali» (p. 129). Nella prosa che chiude il libro, Mancinelli ribadisce di aver «creduto al cielo», alla «linea spezzata dell’orizzonte», come «una sagoma semplice, una possibile forma di vita» (p. 131). Tutti gli occhi che ho aperto mostra un percorso che si alimenta di vite possibili, la cui natura, tuttavia, rimane sfuggente, come sfuggente è, in un certo senso, l’azione del soggetto: cosa fa l’io di fronte a questa metamorfosi del mondo? Alla articolata simmetria della raccolta, che affastella testi in versi e testi in prosa negli spazi bianchi delle pagine, non corrisponde, volutamente, una rigidità conoscitiva dell’io, che fino alla fine si pone in apertura dialettica di fronte e attraverso il mondo – anche se il ricco apparato di note (pp. 133- 138) che chiude il libro dà, paradossalmente, direzioni di letture ben precise, minando in parte l’intelaiatura fenomenologica che regola la successione dei testi di Tutti gli occhi che ho aperto. Le polveri e le rifrazioni della raccolta, i corpi che si confondono alle parole e i suoni che prendono la forma degli oggetti che rappresentano, cercano ostinatamente di creare un sinolo tra interno ed esterno, mostrando al lettore (e al soggetto?) «una possibile forma di vita». di Alberto Comparini ¬ top of page |
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