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IN SEMICERCHIO, RIVISTA DI POESIA COMPARATA LXV (2021/2) p. 112 (scarica il pdf)

ALESSANDRO NIERO, Residenza fittizia, Milano, Marcos y Marcos, 2019, pp. 128, € 20,00.


Residenza fittizia, l’ultima raccolta di Alessandro Niero – slavista, traduttore e poeta (classe 1968) già provvisto di una robusta bibliografia (con quattro raccolte di versi, da ultimo Versioni di me medesimo, Massa, Transeuropa, 2014, e tra i saggi, il recente Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi, Macerata, Quodlibet, 2019) – si presenta prima di tutto come libro compatto, intimamente coeso. La compattezza è sia di ordine stilistico, sia tematica e, si può dire, topografica: come le poesie si sviluppano secondo metri di solida fattura e sempre intonati ad una pronuncia rotonda, che non ama la dissonanza e non di rado espone clausole epigrammatiche (anche in rima), così le sequenze si ordinano in suites omogenee, quasi frammenti di una narrazione che mira al ritratto dell’io, disegnando i contorni di un universo esistenziale ben definito, riconoscibile. In questo senso il titolo della raccolta, Residenza fittizia, individua con felice ambiguità il senso di uno stare nel tempo e nello spazio («quell’ora senza nome e senza tono / dove però io sono», Je suis là) che sconta le precarietà e le insidie dell’apparenza proprie della cosiddetta postmodernità –  si vedano i non-luoghi affioranti in vari testi (espliciti, sul tema, Ikea e Ipercoop)  – ma non rinuncia, caparbiamente, a stilare bilanci e interrogare i segni del mondo circostante. I «fotoscatti» di gesti feriali, le istantanee di situazioni familiari e quotidiane, le telefonate, i paesaggi e le circostanze colte al volo sembrano in sé compiuti ma è quando si sommano che l’inventario si trasforma in domestico diario fenomenico e aperto al futuro (nonostante, e contro, le apparenze): è «il mio sapere spiccio» che diventa «un po’ divinazione» (Divinare).
Quali siano le coordinate di questa scrittura poetica lo si può capire dalle epigrafi di alcune poesie, dove troviamo Brodskij, Larkin, De Angelis, Giudici; si potrebbe aggiungere il nome di Raboni, ed ulteriori indizi saranno magari da indagare in altre contrade, tra gli autori tradotti: Stratanovskij, Sluckij tra i numerosi altri (in prosa Turgenev; per Passigli Editori, Niero dirige la collana di slavistica ‘Russia poetica’). Rammentano Giudici, in particolare, certe movenze del lessico, neologismi derivanti dall’innesto di più parole o reinvenzioni linguistiche come «scurocchialuta», «incavicchiarmi», «adultaggine», «passeggiacani», di un registro basso-parodico d’impronta massificata, e soprattutto l'ironia  riflessa e serpeggiante nella grana dei versi, che non ha nulla di cinico o arreso, bensì implica un sostrato resistente ed uno spessore prospettico che va a tutto vantaggio del “personaggio” che dice io. La figura del padre – di cui i tempi, com’è noto, non sanno che farsi – restituita da una delle composizioni più intense del libro, Ti parlo, rivolta alla figlia, ha così un che di classico proprio nell’incrinatura che lascia intravedere: « […] / Questo tuo padre parolaio non sa dire / il vero peso dei tuoi trenta chili / dentro il suo mondo. / Questo tuo padre ora misura il tempo / dell’abbraccio: l’aprirsi, il chiudersi, la dolce morsa. / E poi lo strano ghiaccio».
E sarà perché il poeta intende offrirci le minute schegge della «vita rasoterra» che «la particola / del sacrosanto maledetto giorno» (La vita rasoterra) può rivendicare perfino una sua «gloria», secondo la lente nitida e paradossale che filtra lo sguardo soggettivo, a riscatto del «banale» (Un manico di scopa) e dell’infinitesimale. Altrettanto significativa e pregnante, in questo orizzonte che vive di sottrazioni (Segno meno) non meno che di attese e possibili epifanie (Ghél, X: «E il monte si stonda lassù additando un pendio, prospetta / qualcosa che ignoro ma c’è. / E mi aspetta.»), è l’attenzione privilegiata, nell’ultima sezione del libro, alle Storie del bianco, dove il libro accoglie lo scenario metamorfico di una nevicata in brevi e calibratissime prose: avvento tutto terrestre e però quasi numinoso, «abolizione» del reale e, ad un tempo, epifania di «una bellezza troppo vasta per non potersi corrompere.»


di Luca Lenzini

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